L’archivio del tag «film»

Tarantino è diventato uno scrittore

Dicono che il libro di Quentin Tarantino «Once Upon a Time in Hollywood» sia per niente peggio del quasi omonimo film. Infatti, il regista-scrittore non ha banalmente trasportato la storia dal film sulla carta (sarebbe stata una missione persa già in partenza), ma l’ha ampliata con molti elementi aggiuntivi. E, soprattutto, l’ha raccontata in un modo puramente letterario, come un vero romanzo. Senza, per fortuna, perdere il messaggio principale del film.
Insomma, chi ha già letto il libro dice che sia realmente bello.

Ma io, personalmente, non intendo di leggerlo nei prossimi anni: aspetto di dimenticare un po’ il film (o, almeno, l’impressione — positiva! — che mi ha fatto al momento della visione) per ritornare alla storia con una mente più libera. Libera dagli inevitabili confronti tra il libro e il film.
Però non potevo non condividere con voi una informazione tanto preziosa: Quentin Tarantino si è meritato la nostra attenzione.


Il film “Nobody”

Oggi anche nei cinema italiani esce il film «Io sono nessuno» (titolo originale «Nobody»), girato dal regista russo Ilya Naishuller su invito dello studio americano 87North. Io l’ho già visto qualche settimana fa, quindi ora ho la possibilità di scrivere qualche commento per le persone potenzialmente interessate.
Non essendo un grande esperto dei film d’azione, non posso dire con certezza se sia una parodia («John Wick»?), un film d’azione comico nel senso puro o, in forza al genere scelto, solo un esempio del trash cinematografico. Lo potrete determinare voi. Io, invece, devo constatare che nel film è presente una buona quantità di riferimenti al mondo criminale russo che uno spettatore occidentale non saprebbe interpretare correttamente (e in alcuni casi nemmeno notare).
Nel post odierno evidenzierei tre aspetti.

1. Il locale preferito dall’antagonista (e dai suoi «colleghi») si chiama «Malina». Non è un caso. Nel gergo dei ladri professionali russi – da oltre un secolo – la parola malina (l’accento si mette sulla i; la parola si traduce letteralmente come lampone) indica un bordello, un luogo segreto dove si riuniscono gli elementi criminali (non necessariamente della stessa «banda») e dove spesso vengono temporaneamente nascosti i beni rubati. Secondo una delle leggende metropolitane la parola malina utilizzata nel senso appena descritto provenga dalla parola ebraica malon, che significa hotel.
2. La musica preferita dell’antagonista (diciamo pure che è interpretato dal grande Alexei Serebryakov) è dello stile particolarmente popolare – tra le persone di una certa categoria – nell’URSS tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. Da questo dettaglio, combinato al fatto che il film sia ambientato nei giorni nostri, possiamo dedurre che il personaggio appartenga alla cosiddetta «mafia russa» (entità quasi mitologica), formata dagli esponenti dell’ultima ondata di immigrazione dall’URSS.
3. La parola obtshak – sempre nello stesso gergo dei ladri russi – indica una specie del fondo per l’assistenza reciproca all’interno di una grande porzione della comunità criminale. Esistono due tipi dell’obtshak: in carcere e fuori dal carcere. Ogni ladro può partecipare anche a entrambi tipi. In base alla «legge dei ladri», i contributi all’obtshak devono essere volontari, anche se sulla pratica questo requisito non è sempre rispettato da chi ama i rapporti particolarmente rischiosi con i «colleghi». L’obtshak viene affidato a un leader criminale autorevole che gode della fiducia di tutti gli altri ladri (e viene definito «ladro di diritto» o «supervisore»). Le violazioni delle regole per la raccolta, la conservazione e l’uso dell’obtshak sono severamente punite.
Bene, ora siete un po’ più preparati alla visione del film.


Dinosauri in televisione

Con una certa sorpresa ho letto che alla fine del 2021 dovrebbe uscire il documentario «The Beatles: Get Back» di Peter Jackson. Ovviamente, sarà composta di tre puntate lunghe.

Ma non è l’archeologia del pop che mi sorprende. Mi sorprende il fatto che il film debba uscire sul canale Disney+, quindi un canale teoricamente dedicato alle persone interessate ad altri tipi di dinosauri.
Sì, il mondo sta diventando un po’ strano.
Solo il mio rapporto con la musica di qualità sovrastimata non cambia (anche quando capisco a cosa era dovuta la sua popolarità).


Rezo Gabriadze

La domenica 6 giugno è morto all’età di 84 anni lo sceneggiatore, drammaturgo, regista, artista e scultore georgiano Rezo Gabriadze. A differenza della maggioranza degli italiani, i miei lettori più fedeli dovrebbero conoscere (e potrebbero ricordare) alcuni dei cortometraggi di Gabriadze che mi era capitato di postare anni fa in una rubrica cinematografica.
E allora dedico ancora una volta il post del venerdì a questo simpatico personaggio della cultura: merita di essere ricordato.
Considerata l’occasione, potrebbe essere ricordato con uno dei cortometraggi che sono contengono un po’ di tristezza, ma anche un po’ di allegria: «La farfalla» del 1977.

Prima o poi, quando trovo abbastanza tempo, faccio i sottotitoli italiani a quei cortometraggi della serie che non ho ancora postato a causa della questione linguistica.


Il regista tedesco Vincent Urban ci ha impiegato due anni per realizzare un cortometraggio sulla Russia. Solo per effettuare le riprese necessarie per un film che dura meno di sette minuti, Urban ha visitato la Russia per quattro volte: in autunno, inverno e primavera. Le città e le località visitate (e riprese) sono state Mosca, San Pietroburgo, Murmansk, Salechard, la penisola della Kamčatka e il lago Bajkal.
Ecco, io oggi vi faccio vedere il risultato: il cortometraggio si chiama semplicemente «In Russia», è realizzato in lingua inglese e, in una sua parte consistente, è dedicato agli stereotipi sulla Russia.

Vincent Urban ha già promesso di girare una seconda parte. Vedremo…


Il cinema russo sul monitor

Non ne ho trovato una conferma ufficiale, ma per dei motivi abbastanza ovvi posso immaginarlo anche da solo: questo settembre a Milano non si svolgerà l’annuale «Missione culturale russa». Di conseguenza, non ci sarà nemmeno la tradizionale proiezione dei film russi di qualità usciti negli ultimi anni. Ma questo non significa che non posso consigliarvi, anche quest’anno, qualcosa di bello da vedere (in generale, è da un po’ che non lo faccio).
In primo luogo, ricorderei a tutti i due film di Kantemir Balagov: il bellissimo «Tesnota» del 2017 e il bel «La ragazza d’autunno» del 2019. So che sono stati proiettati nei cinema italiani, ma non vorrei che ai tempi qualcuno li abbia persi. Soprattutto il primo.
In secondo luogo, potrei consigliarvi il buon thriller del 2008 «The Ghost»: so di certo che è disponibile con i sottotitoli in inglese (cliccare sulla «rotella» in basso a destra del player di YouTube e scegliere l’opzione dei sottotitoli), ma potete anche provare a cercarlo doppiato.

In terzo luogo, aggiungerei la stranissima commedia «The Monk and the Demon» del 2016 (sempre con i sottotitoli in inglese). Questo film sembra essere fatto di due parti di qualità non uguale (in parte a causa di un budget molto ridotto), ma complessivamente è un film interessante.

Ecco, per questa volta è così. Spero che la situazione epidemiologica migliori notevolmente per l’autunno prossimo, permettendo dunque di doppiare e mostrare sullo grande schermo alcuni interessanti film più recenti.


Un grande mistero cinematografico

Uno dei più grandi misteri cinematografici che mi sia mai capitato di tentare di risolvere è perché il film «The Lighthouse» di Robert Eggers sia stato classificato anche come horror. Infatti, tutti i suoi elementi interpretabili come «orribili» (con un certo sforzo comunque) sarebbero stati tali al massimo secondo gli standard dei primi anni ’50 del secolo scorso.
Il film stesso, in ogni caso, è sorprendentemente bello. Anzi, più ci penso e più mi sembra interessante. Illustra perfettamente l’evoluzione della follia di una persona costretta alla solitudine in un ambiente chiuso e per nulla amichevole. Sì, secondo me si tratta di un personaggio solo, la cui vita è raccontata con il ricorso a una infinità di allegorie più o meno evidenti.

Sarei pure andato a rileggere qualcosa di Nathaniel Hawthorne, ma l’ho scoperto troppo poco tempo fa.


Jojo Rabbit

Si usa dire e scrivere che il film «Jojo Rabbit» di Taika Waititi parli di un bambino che è cresciuto nell’atmosfera della propaganda nazista, che vuole diventare un vero nazista e che ha un amico immaginario chiamato Adolf Hitler. Altrettanto diffusa è l’idea idillica che il bambino inizi ad allontanarsi, crescendo, dalla ideologia nazista. E poi che il bambino ama gli animali… Effettivamente, sarebbe troppo bello e facile vedere solo queste cose. Ma in realtà il film è molto più profondo e interessante di tutti gli effetti visivi elencati.
Anche se non avete ancora visto il film (veramente?), non abbiate paura di leggere qualche spoiler nel mio testo. Un buon film non è fatto di sole scene inquadrate, come un buon libro non è fatto di sole storie raccontate.
Prima di tutto bisogna rendersi conto del fatto che il protagonista del film è caratterizzato dal non compiere alcuna azione. Il nostro simpatico bambino rispetta rigorosamente (a volte anche troppo) tutte le formalità estetiche del regime sotto il quale è cresciuto (l’abbigliamento e le parole giuste), ma non riesce a fare alcunché di concreto e, allo stesso tempo, ha sempre paura. In ogni episodio della sua vita le proporzioni della paura e della incapacità variano, ma il risultato è sempre lo stesso: zero azioni. Non riesce a partecipare alle attività collettive perché ha paura; ha paura di apparire incapace e quindi non riesce ad adempiere ai compiti individuali nel bosco, sul campo e in città. Alla fine non va nemmeno a difendere fisicamente il regime e si nasconde negli sotterranei, ma lo fa sempre per paura e non per convinzione.
E infatti dobbiamo capire che il film non parla di un bambino. Il film parla di una comune persona piccola. Di quel omino che vuole necessariamente sentirsi parte di una entità grande, forte e ammirata, ma sceglie la via più semplice per raggiungere l’obiettivo: si schiera dalla parte di un leader carismatico che sa fare le promesse, che ha già una soluzione semplice per tutti, che adula abilmente i sentimenti primitivi comuni alle grandi masse delle piccole persone comuni. Gli esempi storici non si limitano al solo Hitler: anche negli anni più recenti abbiamo visto salire alla guida di molti Stati dei leader del genere. La persona piccola ascolta avidamente le belle favole del/sul proprio leader, le coltiva nella propria mente, le ritrasmette al mondo circostante. Le ritrasmette non per informare o predicare, ma per convincere gli altri (e forse se stesso) delle proprie utilità e importanza. Ma non fa nulla di concreto. Ha solo paura. Ha paura non di andare contro il sistema (un pensiero del genere non verrebbe mai nella sua mente), ma di vivere la vita attiva piena di rischi e responsabilità personali. È solo una piccola persona comune, «umile e onesta».
Le persone del genere devono essere guidate per mano nel corso di tutta la vita. Quando il grande leader del turno sparisce per sempre (prima o poi succede a tutti gli umani), la persona piccola inizia a cercarsi un’altra guida, un altro leader. Lo cerca quasi inconsciamente, lo cerca perché non sa vivere diversamente come un bambino comune non sa vivere senza la mamma. E il nuovo leader – che sorpresa – è sempre una persona presente nelle vicinanze già da tempo, ma fino a poco fa considerata un nemico che merita solo minacce e beffe.
La persona piccola si pentirà? Si pentirà almeno del proprio passato? Si pentirà per avere sostenuto qualcosa di disumano? Si pentirà per essersi comportato in modo disumano anche solo dal punto di vista morale, senza compiere delle azioni fisiche concrete? Si farà delle domande? Capirà, almeno, che ha un bisogno vitale di essere guidato, non importa molto da chi? Nella maggioranza dei casi umani la risposta è, purtroppo, no. Nemmeno se per la colpa di quel passato disumano ha perso una delle persone più care. Pure tra i parenti e i discendenti delle vittime delle repressioni staliniane ci sono tuttora moltissimi stalinisti convinti. Ma, in ogni caso, il nostro protagonista continuerà a seguire tranquillamente la corrente della vita.
«Jojo Rabbit» è un tristissimo film sul destino di una piccola persona comune.

Guardate il film se non lo avete ancora fatto. È molto attuale anche per l’Italia.


Un consiglio cinematografico

Nei giorni scorsi mi è stato segnalato che già a partire dal 9 gennaio è possibile vedere nei cinema italiani il secondo film del giovane regista russo Kantemir Balagov: «La ragazza d’autunno» del 2019. Non so perché abbiano tradotto il titolo in questo modo: forse per mancanza di un correspettivo dell’originale «Dylda» – una persona eccessivamente alta, magra e poco proporzionata.
In ogni caso, è un bel film che merita di essere visto. Prima o dopo lo avrei sicuramente consigliato anche per iniziativa propria. Seppure con un po’ di ritardo, in questi giorni posso inoltre augurare a tutti i lettori di organizzarsi in tempo per vederlo sullo grande schermo. Il tentativo dei germogli ancora verdi di sopravvivere in un mondo arrugginito – metafora non casuale – si osserva meglio così.

Approfitto della occasione per ribadire: secondo il mio giudizio personale, il primo film di Kantemir Balagov («Tesnota» del 2017) è uno dei migliori film russi del XXI secolo.


Once Upon a Time… in Hollywood

Molto probabilmente, «Once Upon a Time… in Hollywood» è il primo film di Tarantino che mi ha fatto pensare. Quasi sicuramente mi ha fatto pensare solo perché non sembra un film di Tarantino.
Da quando è uscito il film, ho visto tantissime persone alla ricerca del suo senso nascosto e del motivo che ha spinto il regista a produrre una opera per egli così atipica. Nessuno ha però proposto delle risposte convincenti o almeno interessanti. Tocca quindi a me…

Secondo il mio parere autorevolissimo, il «Once Upon a Time… in Hollywood» è la vendetta personale di Tarantino per il Hollywood e per il cinema degli anni ’60 e ’70 di quei tempi che hanno formato la cultura cinematografica di Tarantino stesso e che sono mutati fortemente anche «grazie alla» Family di Manson. In tutti (o quasi) i film di Tarantino i personaggi si vendicano per qualcosa. Ora lo fa lui con le mani dei personaggi in una delle ultime scene del film.
Ci ha messo tanto impegno per poter compiere una vendetta del genere. Ha sviluppato quella metodologia, quella tecnica della vedetta che noi abbiamo sempre conosciuto semplicemente come il suo stile cinematografico. E ha finalmente deciso che ora si può: è pronto lui e sono pronti gli spettatori. Ha dunque superato questo traguardo della propria carriera da regista.
Ora ha un impegno in meno nella vita professionale e può sentirsi libero a fissare qualche altro obiettivo. Ma sarebbe esagerato e scorretto cercare dei punti in comune con uno dei protagonisti dell’ultimo film.
Ecco, secondo la mia interpretazione personale il vero senso del «Once Upon a Time… in Hollywood» è questo.