Il Ministero degli Esteri britannico avrebbe chiesto ai funzionari governativi di non utilizzare più – pure nei documenti interni – l’espressione «Stato ostile» («Hostile State») nei confronti di Cina, Russia, Corea del Nord e Iran. Tale decisione sarebbe stata presa nel tentativo di migliorare le relazioni del Regno Unito con la Cina: gl altri quattro Stati sarebbero stati aggiunti solo – presumo – per un principio «democratico».
Qualcuno potrebbe anche scandalizzarsi per questa cosa, mentre io rimango indifferente a questo aspetto linguistico, privo di alcuna conseguenza legale. Infatti, mi basta che UK e gli altri continuino a fare due cose: 1) aiutare militarmente l’Ucraina; 2) trasformare le sanzioni contro lo Stato russo in un qualcosa di più sensato rispetto alle misure prese fino a oggi. Purtroppo, continuo a vedere dei problemi seri con il secondo punto.
P.S.: in Russia esiste una lista di 49 «Stati ostili», della quale fanno parte gli USA, l’UK e la maggioranza degli Stati dell’UE. Tale lista serve, tra le altre cose, per giustificare «legalmente» le repressioni contro i propri cittadini dissidenti. Ma è un argomento ampio che va trattato a parte.
L’archivio del tag «uk»
Ho letto che le autorità britanniche hanno annullato le sanzioni personali imposte a Oleg Tinkov. Questa decisione è giusta e buona (nonostante tutte le stranezze personali e le ragioni non del tutto ovvie delle sue azioni, Tinkov ha comunque condannato la guerra in Ucraina), ma, purtroppo, è finora unica. Sembra che abbia avuto più importanza la sua lunga amicizia con Richard Branson che la tanto attesa presa di coscienza da parte degli Stati europei della necessità di lasciare il folle Putin senza dei sostenitori ricchi sul territorio russo.
Ci sono molte altre verità apparentemente ovvie che devono essere spiegate a lungo e duramente ai politici occidentali. Purtroppo, mi sembra sempre più importante e promettente che spiegare qualcosa alla maggioranza dei russi.
Le autorità britanniche hanno vietato alla Fondazione per le vittime di guerra di utilizzare il denaro ricevuto dalla vendita della squadra di calcio del Chelsea (circa 2,35 miliardi di sterline) da parte di Roman Abramovich al di fuori dell’Ucraina. Lo ha dichiarato Mike Penrose, il responsabile del fondo, in un articolo per il Times. Secondo quanto sostiene Penrose, prima della vendita del Chelsea, le autorità britanniche e Abramovich avrebbero raggiunto un accordo in base al quale la Fondazione avrebbe gestito il ricavato, utilizzandolo per aiutare «tutte le vittime della guerra in Ucraina». Questo accordo, scrive Penrose, è stato fissato nei documenti di vendita approvati dal governo britannico. Un anno più tardi, però, il governo britannico ha imposto una nuova condizione, secondo la quale la fondazione avrebbe ricevuto il denaro solo se avesse limitato le sue attività ai «confini geografici dell’Ucraina» (e io mi chiedo: quindi anche in Crimea?). La Fondazione non è d’accordo con questa condizione, poiché ritiene che i fondi disponibili dovrebbero essere utilizzati per aiutare i rifugiati ucraini in diversi Paesi, compreso il Regno Unito. Per esempio, la Fondazione potrebbe fornire assistenza alle persone e alle comunità che ospitano i rifugiati oppure assumere esperti internazionali per aiutare le organizzazioni ucraine in questioni come l’istruzione dei bambini che arrivano dall’Ucraina.
A prima vista, la decisione del governo inglese potrebbe sembrare molto strano e in qualche misura stupido. Ma posso anche immaginare la sua logica: nessuno vuole assumersi il rischio di destinare i soldi di un «oligarca» russo rimasto in Russia alle persone il cui status delle vittime non certo al 100%. E la certezza assoluta, purtroppo, non è possibile nemmeno in una situazione così tragica come una guerra. Per esempio: in ogni guerra esistono, purtroppo, i collaborazionisti (i quali, trovandosi sul territorio attaccato, almeno involontariamente utilizzeranno qualche parte dei soldi per il sostegno dell’economia locale). Oppure: chi sono tutti quei maschi ucraini giovani, in età da arruolamento nelle forze di difesa popolare, e apparentemente in piena salute che dopo l’inizio della guerra sono arrivati in Europa autodefinendosi profughi? (Io ne ho visti anche in Italia.) Potrei elencare anche qualche altra domanda, ma penso che i dubbi del governo inglese siano già un po’ più comprensibili. Ai profughi destineranno altri soldi.
Alla corte reale britannica esiste la figura del Master of the Queen’s Music (o Master of the King’s Music). Tale incarico fu creato nel 1626 dal re Carlo I. Il titolare dell’incarico fu originariamente al servizio del monarca d’Inghilterra, dirigendo l’orchestra di corte e componendo o commissionando musica secondo le necessità. Al giorno d’oggi, invece, l’incarico viene ricoperto da persone che si distinguono nell’ambito della musica classica, quasi sempre da compositori. Così, la Regina Elisabetta II ha nominato – durante il proprio regno – quattro Maestri della Musica della Regina, trasformando la nomina a vita in una nomina decennale: al fine di rendere l’incarico più attraente per i compositori contemporanei.
Nel 2014 Elisabetta II ha nominato, per la prima volta nella storia, una donna all’incarico di Master of the Queen’s Music: la compositrice britannica Judith Weir. Le tendenze musicali di Judith Weir sono abbastanza conservatrici, ma i critici musicali sostengono che la signora «sa come rendere misteriose le idee musicali semplici in modi nuovi». Purtroppo, solo gli eventi di cronaca recenti mi hanno spinto ad ascoltare qualche composizione di Weir. Ora provo a condividere con voi due degli esempi scoperti.
Inizio con la «Love Bade Me Welcome» su testi di George Herbert, un poeta metafisico e paroliere spirituale inglese del XVII secolo:
La seconda composizione di Judith Weir selezionata per oggi è la «Ascending into Heaven»:
E ora un Bonus Track: Continuare la lettura di questo post »
Il video domenicale di oggi è quasi scontato: è quello della proclamazione formale del re Charles III.
È un po’ lungo, ma, allo stesso tempo, è per ora l’unico nella storia.
La regina Elizabeth II è morta ieri pomeriggio, e il mondo è rimasto senza il più grande dei capi di Stato (uniamoli pure sotto questo nome) dei giorni nostri. Nel corso della sua lunga vita la regina ha attraversato dei mondi molto diversi tra essi: basti pensare quanto poco si assomigliano il mondo in cui è salita sul trono e il mondo in cui ci ha lasciati. Ma ogni mondo, ogni epoca, ogni evento è stato affrontato dalla regina nel migliore dei modi possibili: in ogni singolo momento poteva essere considerata una modello di comportamento.
È stata grande come i tempi nei quali ha vissuto. Mi mancherà.
È impressionante pensare che… Continuare la lettura di questo post »
Dire che «nella politica nessuno è indispensabile» è forse il modo migliore di uscire per scelta degli altri dalla battaglia contro il principale rogue state dei giorni nostri: perché il presidente di quello Stato non riesce proprio a trovare il coraggio di staccarsi dal proprio incarico. Boris Johnson, a modo suo, è anche egli un politico molto, molto particolare (almeno perché spesso ci ha fatti divertire un po’), ma negli ultimi mesi mi è sembrato il leader mondiale con le idee più chiare e sensate sulla situazione internazionale. Quindi in seguito all’annuncio delle sue dimissioni lo vorrei salutare bene.
Per esempio, posso pubblicare questa raccolta video dei discorsi sulle dimissioni degli ultimi premier del Regno Unito:
A volte capisco che bisogna scrivere anche qualcosa di positivo, quindi…
Oggi la regina Elisabetta II del Regno Unito compie 96 anni.
Il 6 febbraio erano decorsi i primi settant’anni del suo regno, mentre il 2 giugno dell’anno prossimo ci saranno i settant’anni dal giorno della sua incoronazione. Ovviamente, so che i riferimenti all’età di ogni signora sono spesso malvisti, quindi mi limito a constatare solo un altro fatto statistico: alla data odierna Elisabetta II sta regnando da 25.642 giorni, quindi da più tempo dei suoi padre, zio, nonno e bisnonno messi insieme.
Io, da osservatore esterno, spero tanto che continui a battere altri record (anche perché i successori non sembrano tanto… no, lascio almeno il giorno del compleanno libero da certe espressioni sui discendenti).
FSM save the Queen.
Auguri alla regina.
Nella città inglese di Brighton and Hove è stata approvata una legge locale che impone, per la costruzione di nuovi edifici di oltre cinque metri di altezza, l’utilizzo dei mattoni speciali per la nidificazione delle api solitarie.
Più o meno tutti sanno che le api che vivono in grandi alveari: queste sono le cosiddette api sociali. Ma poi esistono anche delle api solitarie: in realtà sono la maggioranza, quasi 250 delle 270 specie che vivono nel Regno Unito. Pure le api solitarie sono considerate importanti impollinatori di piante e la loro scomparsa potrebbe causare dei gravi danni all’ecosistema locale. E, tra l’altro, si sostiene che le api solitarie spesso si stabiliscono nelle crepe delle vecchie murature. Ma i nuovi edifici moderni vengono costruiti senza delle cavità utili per gli insetti, quindi le api solitarie soffrono. I mattoni per le api imposti dalla nuova legge sono uguali ai mattoni normali, ma hanno dei buchi: le api potranno arrampicarsi e viveri dentro.
Il consigliere comunale Robert Nemeth, l’ideatore della suddetta legge, spera che i nuovi mattoni contribuiscano alla conservazione della biodiversità. Ma io immagino già quanto gli saranno grati gli elettori umani residenti nei nuovi palazzi, ahahaha…
Quasi un secolo fa il fotografo americano Clifton R. Adams trascorse, sull’incarico della National Geographic, diversi anni nel Regno Unito per fotografare la vita quotidiana della popolazione locale. Viaggiò dunque per diverse città, paesi e fattorie.
Clifton morì nel 1934 all’età di soli 44 anni, ma riuscì comunque a lasciarci un preziosissimo archivio fotografico. Fanno parte di quest’ultimo anche le fotografie a colori scattate nel Regno Unito dal 1927 al 1934. Per realizzare le immagini a colori, in particolare, il fotografo utilizzò il metodo dell’autocromia (brevettato nel 1903 dai fratelli Lumière).
Il principio del suddetto metodo consiste nel colorare i grani di fecola di patate (circa 0,01 mm di diametro) di rosso-arancio per 3 parti, verde per 4 parti e blu-viola per 2 parti. Una comune piastra di vetro (utilizzata nelle macchine fotografiche di allora al posto della pellicola) era grande 13×18 cm e poteva «ospitare» sulla propria superficie utile circa 200 milioni di grani. Al vetro veniva dunque applicata una colla speciale, sopra la quale veniva spalmato uno strato sottile di grani setacciati. Inoltre, bisognava assicurarsi che i colori fossero distribuiti uniformemente su tutto il piano. Non ci dovevano essere delle senza stratificazioni. Lo spazio tra i grani veniva riempito di nerofumo. Infine, sopra veniva aggiunto uno strato di lacca e poi uno strato di fotoemulsione pancromatica.
La piastra preparata come appena descritto veniva posizionata con il lato di vetro rivolto verso l’obiettivo. La luce entrata dall’obiettivo si colorava passando attraverso i grani colorati e solo dopo cadeva sull’emulsione. Si doveva usare un filtro fotografico giallo per scattare le foto.
La luce passata attraverso il vetro preparato nel modo sopraindicato era attenuata di 60 volte rispetto a quella che si poteva ottenere con delle lastre non autocromatiche. Ma pure in queste condizioni era possibile fotografare, in una giornata di sole, con una apertura di 4 o 5 e un’esposizione normale di 2 secondi. Le foto venivano di una qualità alta ed erano facili da elaborare.
Bene, ora possiamo finalmente vedere alcune foto di Clifton R. Adams. La fonte scoperta da me ne contiene tante belle e interessanti. Per il presente post ho dunque selezionato solo una parte di quelle immagini, ma i lettori più interessati potranno vederle facilmente tutte.
Bambini che giocano sulla sabbia vicino a Yarmouth, un luogo di vacanza popolare sull’isola di Wight (1928):
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