L’archivio della rubrica «Italia»

Il fallimento e l’evoluzione

Ho saputo solo ieri sera del fallimento della casa editrice UTET Grandi Opere, avvenuto a ottobre.
Di fronte a tale notizia, posso constatare solo due cose.
In primo luogo, ricorderei a tutti che è scorretto affermare che sia fallita la UTET (la casa editrice che io, come molti miei colleghi, apprezzo anche per i libri giuridici di qualità): la sezione «Grandi Opere» è una società separata da oltre sette anni.
In secondo luogo, ammetto di non capire come abbia potuto sopravvivere fino ai giorni nostri una casa editrice specializzata nella pubblicazione di dizionari ed enciclopedie. Non posso certo mettere in discussione la qualità intellettuale e materiale dei rispettivi volumi pubblicati, ma si tratta sempre di due settori «mangiati» oltre un decennio fa dall’internet. Nel solo passaggio globale dalla carta al digitale (o allo schermo, se preferite) non c’è alcunché di male: il secondo è infinitamente più comodo dal punto di vista pratico e, allo stesso tempo, non influisce in alcun modo sui contenuti. Anzi, permette di allargare più facilmente i confini delle informazioni utili ricevute. È invece molto grave non sapersi adeguare alla normale evoluzione del mondo circostante. Perché il valore della conoscenza tende allo zero quando non si è in grado di fornirla al prossimo (in realtà anche di utilizzarla, ma ora parliamo solo di una casa editrice). La conoscenza conservata e/o servita con una modalità obsoleta diventa, purtroppo, solo un peso inutile. Di conseguenza, il fallimento del suo divulgatore che non si adegua alla vita dinamica è solo una questione di tempo.
In ogni caso, gli archivi, le opere pubblicate o in lavorazione e i cataloghi costituiscono un enorme cespite che non andrà di certo perso. Dobbiamo solo sperare che finiscano nelle mani di qualcuno che sia più preparato alla vita reale contemporanea.


In una parola

Uno dei pochi effetti positivi che la fase attuale della pandemia porta nel nostro mondo è la possibilità di pubblicizzare il gioco degli scacchi. Così, per esempio, la lezione di ieri avrebbe potuto essere dedicata al concetto di zugzwang. In poche parole, si tratta di una situazione in cui ogni mossa del giocatore porta al peggioramento della sua situazione.
Cosa centra con la fase attuale della pandemia? Per me è evidente: il coprifuoco notturno in Lombardia è solo l’ennesima mossa nella sequenza dei provvedimenti che sono difficilmente spiegabili dal punto di vista sanitario, ma che palesemente non possono fare altro che portare a un risultato negativo.
Considerando che i provvedimenti adottati e discussi in questi giorni assomigliano tantissimo a ciò che è già stato fatto a febbraio, la reazione delle persone è scontata. Leggendo le notizie e temendo – direi logicamente – un nuovo lockdown, tutti si affrettano a godersi l’"ultimo" periodo di libertà. Perché chissà quando potranno vedere gli amici, andare in qualche locale, fare qualche acquisto o semplicemente uscire dalla propria abitazione… Di conseguenza, ogni restrizione imposta (o solo ipotizzata ad alta voce) dal Governo o da qualche ente locale provoca necessariamente nuovi incontri, assembramenti e/o spostamenti delle persone.
Bravissimi! Era così difficile immaginarlo?
Allo stesso tempo è importante precisare che non ho nulla contro le singole persone che vogliono continuare a condurre una vita normale. Ogni persona adulta e responsabile è capace di comprendere i rischi, prendere le semplici misure di autotutela e, soprattutto, deve essere libera di fare tutto quello vuole della propria vita.
Ma ora dobbiamo costatare che le restrizioni potranno solo aumentare nella quantità e nel contenuto. Perché, considerato il modello d’azione europeo nella lotta al virus, quell’aumento è la conseguenza naturale delle restrizioni stesse.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedere quale sia la soluzione corretta del problema. Io, da parte mia, posso riproporre un principio che, fortunatamente, ho scoperto già moltissimi anni fa: se un metodo non funziona, bisogna tentare la soluzione di segno esattamente opposto. Questa, al 99%, funzionerà. Un esempio banalissimo: se non si riesce a sportare un oggetto pesante tirandolo a sé, molto probabilmente conviene tentare di spingerlo. Oppure: se non si riesce a obbligare le masse a tenere i comportamenti desiderati, probabilmente conviene fare in modo che diventi una scelta loro. Ma bisogna essere un giocatore abile…


La sociologia virale

Più o meno da quando è iniziata la pandemia del Covid-19, sto cercando di scriverne meno possibile perché capisco benissimo: l’alimentazione dell’ansia collettiva non contribuisce in maniera positiva alla salute pubblica. Anzi, la danneggia fortemente. Allo stesso tempo, non posso non constatare alcuni aspetti curiosi.
Per esempio: possiamo facilmente osservare che molte persone sono ormai tanto abituate a convivere con il rischio del virus da adottare nei suoi confronti le stesse modalità comportamentali degli altri ambiti della vita quotidiana. Prima di tutto, si tende a diffondere le (e credere in) voci assurde sui provvedimenti anti-Covid anziché informarsi su quelle realmente prese dai vari Governi.
Possiamo a questo punto sostenere che le persone siano nella loro maggioranza pigre e/o stupide? Non sempre. Perché certi provvedimenti statali reali sono a volte ancora più assurdi delle voci che circolano sui social networks.
Così, dall’ultimo DPCM sulle misure volte al contenimento dei contagi possiamo apprendere, tra le altre cose, la notizia di una importantissima scoperta sociologica. Possiamo apprendere che il puntualissimo Covid-19 tutte le sere alle ore 21:00 si presenta al banco del bar. Mentre a mezzanotte si stufa di bere e si sposta al ristorante per mangiare. Quindi voi, umani responsabili, cercate di andarci tutti prima di quegli orari che poi diventa una cosa pericolosa.
Ma prima leggete pure la notizia della grande scoperta matematica: il Covid-19 sa pure contare fino a 1001. Infatti, il testo dello stesso DPCM ci fa sapere che al massimo 1000 persone possono assistere alle competizioni sportive svolte all’aperto (e al massimo 200 a quelle svolte negli ambienti chiusi). Con lo spettatore numero 1001 (o 201) si presenterà anche il virus, quindi state attenti.
Io sono totalmente disinteressato allo sport professionale e, in parte per lo stesso motivo, vado nei bar e ristoranti poco più spesso di ogni morte di papa, ma sono fortemente infastidito dalla tendenza generale. Perché il testo del nuovo DPCM mi fa sospettare fortemente che ora – come a marzo/aprile – la priorità sia sempre rimasta quella di far vedere di fare qualcosa, senza però capire cosa sia dal punto di vista medico sensato e cosa no.
Nella lotta per la salute il buon umore è sempre uno strumento importante. Quindi esercitiamoci pure nelle battute di ogni qualità finché possiamo.


Numerale

Solo poche settimane fa – e dopo anni di attenzione non prestata – mi sono accorto che in pieno centro di Milano alcune targhe con il nome di questa via riportano un errore grammaticale da prima media:

La sostituzione di queste targhe non sarà l’intervento più urgente, ma nemmeno il più costoso. E i ragazzini che ogni giorno affollano il corso Vittorio Emanuele II avranno un cattivo esempio in meno.
Quindi conviene sostituirli con quelli corretti.


L’inerzia pandemica

Qualcuno dei miei lettori poteva avere letto (o avere visto con i propri occhi nella vita reale) che il nuovo provvedimento del Governo consente di utilizzare il 100% dei posti a sedere sui mezzi del trasporto pubblico locale. Così, per esempio, già venerdì pomeriggio dalle carrozze della metropolitana milanese sono spariti tutti gli adesivi che per circa cinque mesi hanno indicato i posti da lasciare liberi.
Prima era così:

Ora, invece, è così:

L’aspetto che mi sembra più curioso è, però, di carattere sociologico. Ebbene, le persone continuano ancora a seguire la «vecchia» regola dei posti liberi in mezzo. Anche quando ci sono molte persone in piedi sulla carrozza, uno su cinquanta osa sedersi su uno dei posti «proibiti» fino a pochi giorni fa.
Vorrei proprio vedere per quanto tempo durerà questa abitudine.
Chissà se e quanto la paura del virus contribuisce alla sua persistenza.


Buon anno scolastico a tutti

Nella maggioranza delle Regioni italiane oggi è iniziato l’anno scolastico. Direi che è iniziato nonostante le speranze congiunte di molti scolari e insegnanti ahahaha
In occasione della riapertura delle scuole, alla gente perennemente presa dal panico non dico nulla perché sarebbe inutile.
Ai genitori [relativamente] normali avrei fatto gli auguri per la fine di una dura prova durata quasi sette mesi, ma non so quanto sia stato facile organizzarsi con il rientro a scuola nelle condizioni dell’eventuale smart working.
Agli scolari, invece, ricorderei che ogni regola scomoda e noiosa può essere rivolta a proprio vantaggio. Per esempio, in questo modo:

Ah, e poi spero che i ragazzi più piccoli non inizino, incontrando o conoscendo i compagni di classe, a scambiarsi ingenuamente le mascherine. Tale comportamento sarebbe molto più preoccupante del non indossare le mascherine stesse o del non rispettare il distanziamento sociale.


I ruoli si invertono

Con una certa sorpresa ho scoperto che nel corso del 2020 si sono ribaltate molte più cose di quanto avremmo potuto immaginare. Per esempio, diverse migliaia degli insegnanti scolatici hanno deciso di adottare dei trucchi che fino a qualche mese fa erano tipici agli scolari: «non ho voglia di andare a scuola, dico di stare male». Naturalmente, non escludo che molte delle richieste di esonero presentate siano giustificate dalle reali condizioni di salute, ma la tendenza generale fa un po’ ridere.
E, soprattutto, la situazione creatasi non può non far aumentare la quantità delle battute più o meno divertenti sul rapporto dei dipendenti pubblici con il lavoro scelto da loro stessi. Spero che se ne renda conto quella parte delle Istituzioni che nei mesi scorsi ha alimentato il clima di panico anziché promuovere i principi della sana e ragionevole attenzione verso i semplici principi della sicurezza medico-sanitaria personale.
Nel frattempo, saluto tutti i dipendenti di tutti gli ospedali, negozi alimentari, forze dell’ordine, autisti dei mezzi pubblici e tante altre imprese che non hanno mai smesso di lavorare in presenza e in contatto con la gente. Rimanendo, nella schiacciante maggioranza dei casi sani e salvi.


L’aria di buone notizie

Oggi, finalmente, possiamo parlare di alcuni buoni segnali provenienti dal fronte covidico. Pare che all’OMS abbiano finalmente iniziato a capire qualcosa:

One of the World Health Organization’s six special envoys on Covid-19 has highlighted Sweden’s virus response as a model that other countries should be emulating in the long run.

In sostanza, stiamo andando verso il riconoscimento del fatto che il clima di panico permanente, l’adozione delle limitazioni ridicole e lo sconvolgimento totale del ritmo abituale di vita delle persone non producono alcun affetto positivo ai fini della lotta contro il coronavirus. Anzi, la creazione artificiale delle «ondate» del virus potrebbe essere paragonata a una amputazione di un arto a piccoli pezzi per fare «meno male» al paziente. Ma i difetti di tale comportamento si vedono abbastanza facilmente anche dai dati statistici (certo, i numeri vanno poi analizzati assieme al contesto nel quale sono stati ottenuti, ma ora ci interessa la portata del problema).
Proviamo, per esempio, a confrontare la situazione in tre Stati. In qualità del primo esempio prendiamo la Spagna, quindi lo Stato europeo con il lockdown probabilmente più severo del continente:

In qualità del secondo esempio prendiamo l’Italia che ha avuto un lockdown meno pesante (agli italiani potrebbe sembrare impossibile, ma è vero) ma in molti aspetti simile:

E, infine, in qualità del terzo esempio prendiamo la tanto criticata precedentemente Svezia:

A questo punto devo constatare che in Italia — dove tra meno di due settimane riaprono le scuole e poi, progressivamente, anche alcune altre cose — diverse persone devono ora pregare poiché nessuno decida di organizzarsi in massa per chiedere i danni per quei due mesi di interruzione della vita. O almeno di fare delle domande molto scomode.
P.S.: tutti i grafici sono stati presi dal sito worldometers.info


I gruppi linguistici

È curioso osservare che lingue umane possono essere divise in tre grossi gruppi anche sulla base del modo di trattare il giorno della nascita della persona.
In alcune lingue si usa una parola del tutto neutra e generica: anniversario (per esempio, così si fa in francese e in portoghese). Secondo me non è una parola tanto bella perché un anniversario può essere di qualsiasi evento, non solo della nascita di un umano.
In alcune altre lingue, invece, si usa una parola estremamente precisa: compleanno (per esempio, così si fa in italiano e in spagnolo). Tale parola si applica alle persone (vabbè, anche agli animali amati), ma indica comunque un evento di cadenza annuale: solo le persone nate il 29 febbraio potrebbero pretendere di non compiere gli anni ogni dodici mesi.
E poi ci sono le lingue dove si usa una espressione (può essere anche una parola unica) meno ristrettiva: il giorno della nascita (per esempio, così succede in inglese, in russo e, in un certo senso, in tedesco). Tale espressione è meglio dell’anniversario (perché si applica solo alle creature animate) e del compleanno (perché può essere usata dodici volte all’anno e non solo una).
Mentre i portatori del terzo gruppo delle lingue vivono tranquilli, quelli dei primi due sono costretti a inventare delle parole aggiuntive per delle situazioni specifiche. Per esempio: quale parola andrebbe usata in italiano per il compimento di x mesi? Non lo sa dire con certezza nemmeno l’Accademia della Crusca (forse l’autorità massima nello studio della lingua italiana). Nell’indecisione, la Crusca si limita, in pratica, a osservare su Google la quantità degli utilizzi delle varie varianti della parola inventata dalla gente.
Non penso che si possa sostituire – almeno nel corso della vita di poche generazioni – la parola compleanno con l’espressione il giorno della nascita (allo stato attuale, è tanto inusuale da suonare quasi male). Ma tutti possono contribuire già ora, tramite l’utilizzo attivo, alla affermazione della parola complemese sui dizionari della lingua italiana. Prima o poi quella parola servirà più o meno a tutti.
P.S.: penso che abbiate capito: la parola complemese mi sembra meglio dei vari compimese, complimese e mesiversario.


Una grave malattia italiana

È tristemente nota la tradizione italiana di bloccare la vita delle località non marittime-balneari per quasi tutto il mese di agosto. Per almeno tre settimane a servizio delle persone restano solo i grandi centri commerciali, mentre tutto il resto è chiuso o, al massimo, segue degli orari d’apertura ridicoli. Nonostante anni di indagini, non sono ancora riuscito a trovare una spiegazione razionale a questo fenomeno.
Si presume che tutti debbano andare in ferie proprio ad agosto? Partire o andare in letargo? Perché? E se non voglio? Se voglio evitare proprio quel periodo quando le località vacanzieri sono affollate e costano più o meno il doppio del normale? E se voglio utilizzare almeno una parte delle ferie per sistemare delle questioni personali? Boh…
In questo senso particolarmente infami sono quelle aziende che costringono – attraverso le chiusure o riduzioni di attività – i propri dipendenti ad andare in ferie necessariamente ad agosto (ma anche nel periodo natalizio) solo perché così fa più comodo ai dirigenti. Non sai organizzare la continuità produttiva? Allora forse è il caso di cedere l’attività e andare a fare il lavoratore dipendente da qualche parte…
Non è necessario essere un genio per capire che la pausa di agosto, oltre a creare disagi a molte persone, comporta anche dei danni economici. Da una parte, l’economia perde il contributo quotidiano continuato delle persone che restano in città. Dall’altra parte, molte risorse vengono sottratte dall’aumento dei prezzi nelle località turistiche (e non è comunque detto che il picco delle presenze dei turisti connazionali sia capace di bilanciare l’assenza delle entrate continuate in quelle località).
Insomma, la tradizione di chiudere quasi tutto in agosto è scomoda e dannosa.
Ecco, questo era il testo che avrei potuto pubblicare una qualsiasi estate passata o futura.
Ma ora, nel 2020, la situazione è ancora più grave. Quindi aggiungo alcune altre considerazioni. Continuare la lettura di questo post »