Più o meno tutti conoscono questo grafico sulla formazione del Homo Erectus:
(le versioni stilistiche del grafico sono innumerevoli)
Prima o poi, però, qualcuno dovrà anche realizzare un grafico analogo sulla formazione del Homo Dives. Il grafico inizierà con uno scolaro che viaggia senza biglietto sui mezzi pubblici e tenta di riempire tutti i dispositivi di archiviazione con delle cose scaricate gratis dall’internet (musica, film, libri, software etc). Il punto finale del grafico sarà, appunto, un Homo Dives che paga per tutto ciò di che ha bisogno (compreso lo spazio di archiviazione su qualche cloud). Da qualche parte mezzo ci sarà pure quell’Homo responsabile che non blocca la pubblicità su tutti i siti senza distinzione (quindi evitando di rubare i soldi che non potrà mai ottenere).
Passate pure l’idea ai vostri amici artisti. Sono sicuro che qualcuno riuscirà a produrre una opera del genere.
L’archivio della rubrica «Internet»
Nel 2011 è nato un progetto interessante: il «Public Monitoring Project». Inizialmente era pensato per la visualizzazione sulla mappa della temperatura, rilevata e trasmessa dai semplici dispositivi fatti in casa. Ognun poteva installare e collegare al sito un dispositivo del genere.
Ora, invece, al sito sono connesse decine di migliaia dei dispositivi che trasmettono da tutto il mondo i dati sulla temperatura, umidità, pressione atmosferica, livello di radiazione, qualità dell’aria e altri parametri.
Il servizio può essere utilizzato anche ai fini personali: per esempio, controllando il tempo nella zona della propria [seconda] casa mentre si è lontani.
La maggioranza degli entusiasti del progetto è concentrata a Mosca e nella sua provincia:
Anche a livello europeo, però, si nota facilmente una certa Continuare la lettura di questo post »
Una delle cose più stupide al mondo è utilizzare per i siti aziendali le immagini prese da un foto stock. Anziché utilizzare una foto comparsa già in altre migliaia di occasioni sulle pagine di altri siti (ma forse anche giornali e riviste), è facile spendere un po’ di tempo per fotografare, che ne so, una stretta di mano sullo sfondo di un frigorifero bianco.
Una cosa ancora più stupida è utilizzare per i siti aziendali delle immagini prese da un foto stock a caso. Perché il visitatore (potenziale cliente) nota subito che quelle foto non c’entrano alcunché con l’azienda e, di conseguenza, si fa una impressione negativa della azienda. Mettendo, per esempio, una foto del genere sulla pagina «Chi siamo», l’azienda ammette di essere sprovvista di dipendenti o collaboratori capaci di tenere in mano una macchina fotografica:
Spendete un po’ tempo o un po’ di soldi per fare delle foto normali. Le figure di M vi costeranno molto di più.
Molto spesso, quando si va sulla Wikipedia per informarsi su un argomento, conviene vedere diverse versioni linguistiche del medesimo articolo. La qualità e la completezza dei contenuti (e dei dettagli) può infatti variare notevolmente da una lingua all’altra. Penso che il 100% dei miei lettori sia in grado di leggere in almeno una lingua straniera.
Ma io, adottando il suddetto metodo da anni, mi sono anche accorto di alcune differenze tecniche curiose tra le varie versioni linguistiche della Wikipedia. Così, per esempio, gli articoli russi dedicati alle persone indicano la loro età corrente o di decesso.
Gli articoli inglesi (e alcuni altri) fanno altrettanto.
Mentre in altre lingue (tra le quali anche l’italiano) tale opzione Continuare la lettura di questo post »
Ho letto che all’inizio di ottobre negli uffici del Google sono già iniziati i preparativi per il Halloween. Il 2 ottobre la dipendente Dana Fried ha pubblicato la foto di una curiosa installazione, posizionata nel foyer dell’ufficio di Seattle:
Not sure whether spooky or just sad? pic.twitter.com/E8uvavkuQf
— Dana Fried 🔜 Big Bad Con (@leftoblique) 2 ottobre 2019
Google, purtroppo, è tristemente noto anche per la tendenza di uccidere con le proprie mani tutti i propri servizi. E, soprattutto, farlo indipendentemente dalla loro popolarità e potenzialità economica. Google Reader e Picassa, per esempio, mancano tantissimo anche a me. Quindi spero che quel «cimitero» umoristico faccia anche riflettere un po’ ai manager… Se vanno avanti così, prima o poi troveranno opportuno chiudere pure il Gmail.
Ai più curiosi, smemorati, poco informati, troppo giovani o semplicemente spensierati ricordo dell’esistenza del cimitero virtuale dei servizi Google. Andate a visitarlo per farvi una idea sulla entità sterminio.
Non so se lo avete già letto: la CNN ha trovato su Facebook tre annunci pubblicitari della FBI mirati a reclutare gli agenti russi. I link di tutti gli annunci portano alla stessa pagina web che contiene un invito alla collaborazione (in inglese e in russo) e i contatti dell’ufficio di Washington della FBI.
I tre annunci su Facebook sono stati pubblicati l’11 settembre 2019 e sono tuttora attivi (si veda il cerchio verde), possono essere visti insieme nella libreria della pubblicità.
Personalmente per me una delle curiosità più grandi non è il fatto stesso di una pubblicità del genere. Lo spionaggio moderno si svolge in una notevole misura anche via l’internet, il Facebook compreso: utilizzandolo bene si possono scoprire delle cose interessantissime sulle organizzazioni, persone e sugli eventi vari. Mi incuriosiscono invece gli errori di russo commessi negli annunci di cui sopra. In sostanza, si tratta degli errori di tre tipi:
1) la sostituzione di alcune lettere con quelle graficamente simili, ma comunque diverse,
2) la mancanza di alcune lettere,
3) una maiuscola inutile nella parola ponte.
Come fanno gli esperti dello spionaggio a utilizzare un trucco così primitivo? Ha la stessa credibilità del «non ho fatto i compiti perché è morto il mio gatto preferito». Infatti, è abbastanza evidente che l’obiettivo degli «errori» sia stato quello di evitare la comparsa degli annunci nella ricerca testuale su Facebook. Minchium, ma esistono altri mille modi per ottenere i medesimi risultati!
Gentili agenti del FBI, ora vi insegno un trucco semplicissimo e noto a tutti gli studenti russi (che fino a qualche anno fa lo utilizzavano per ingannare i programmi di antiplagio). In un testo scritto in cirillico alcuni caratteri hanno la stessa forma di quelli latini (a e o p c). Facendo una semplice sostituzione, non fate comparire gli annunci tra i risultati di ricerca e, allo stesso tempo, evitate di apparire sgrammaticati.
Ah, dimenticavo: in aggiunta, i tre sulla foto dell’annuncio hanno un tipico sorriso falso/formale da americani.
Il 17 luglio l’Instagram aveva annunciato i test dell’oscuramento del numero totale dei like per ogni foto pubblicata. I test erano stati condotti su alcuni account in Australia, Brasile, Canada, Irlanda, Italia, Giappone e Nuova Zelanda. La settimana scorsa, invece, tale innovazione è diventata definitiva per gli utenti di tutto il mondo. È possibile continuare a mettere i like («mi piace»), ma la loro quantità non viene più indicata: si vede un nome e «altri» anonimi non calcolabili.
Lo stesso vale per le foto proprie:
L’Instagram aveva già a luglio dichiarato: «Vogliamo che i vostri amici si focalizzino sulle foto e sui video che condividete, non sulla quantità dei like ottenuti».
La spiegazione reale è però molto più banale. Il Facebook (proprietario dell’Instagram) guadagna da anni con la pubblicità target ed è totalmente disinteressato alle problematiche degli influencer (utenti popolari) capaci di guadagnare con i propri post pubblicitari. Anzi, non sapendo come «tassare» i guadagni dei propri utenti, il Facebook vorrebbe mantenere il monopolio della pubblicità. Di conseguenza, ha finalmente deciso di ostacolare l’individuazione facile delle persone popolari alle quali le aziende terze possano proporre contratti pubblicitari.
Il 27 settembre la sperimentazione della stessa misura (l’oscuramento della quantità delle reazioni: like e altri) è partita pure su Facebook. Ma per ora solo in Australia.
Insomma, d’ora in poi le persone intenzionate a guadagnare con l’Instagram e il Facebook saranno costrette, periodicamente, a pubblicare manualmente le statistiche dei propri account. Un po’ come i proprietari dei siti tradizionali che non hanno la possibilità di creare l’accesso libero ai dati statistici di Google Analytics.
La consultazione delle statistiche dei propri account è sicuramente un argomento già ben noto alle persone interessate all’argomento. Per tutti gli altri, prima o poi, scriverò una guida completa.
P.S.: cari lettori, non siate tirchi come Mark!
La qualità di un sito web può essere valutata in base a molte sue caratteristiche. L’importanza di alcune caratteristiche rispetto alle altre cambia in relazione alla tipologia del sito, ma forse ho finalmente trovato la formula sintetica dell’indicatore di qualità universale.
Se alle informazioni contenute sul sito si accede più facilmente attraverso una ricerca su Google che dalla navigazione sul sito stesso, siamo di fronte a un sito di emme.
E con questa mi candido al Nobel per le scienze internautiche.
Ringrazio il nuovo sito della Università degli Studi di Milano («la Statale») per avere fatto da cavia nel corso delle sperimentazioni.
Molti dei miei lettori conoscono il sito speedtest.net che permette di misurare la velocità del proprio canale dell’internet. I risultati forniti da questo sito non sono però particolarmente affidabili: esso sceglie da solo a quale server connettersi e può, dunque, decidere di evitare un server che ritiene sovracaricato, connettendosi a qualche server meno potente. Si conseguenza, più misurazioni eseguite una dopo l’altra possono dare dei risultati completamente diversi tra loro.
Per fortuna, esiste un servizio molto più affidabile (e sempre gratuito): nperf.com. Oltre alle misurazioni eseguite con una scelta più intelligente del server (quindi più di qualità), sa eseguire anche più tipologie di test.
Il servizio ha anche le app per l’iOS e per l’Android.
Utilizzando l’app, però, conviene scegliere l’opzione «speed test» per non aspettare troppo.
Navigate sereni e non fatevi fregare dal vostro provider dell’internet.
Fino a poche settimane fa non ci credevo nemmeno io. E invece no, quelle persone esistono veramente. Vivono tra di noi, lavorano, prendono le decisioni di varia portata…
Insomma, le persone che hanno bisogno di essere avvisate via messaggio (whatsapp, sms etc.) della mail a loro inviata esistono veramente. Non sono tanto in rego Non hanno un buon rapporto con le tecnologie.
Se anche a voi, in giorno, arriva un messaggio del tipo «Ciao, ti ho inviato una mail», avete tutto il diritto di offendervi. Sono sicuro della salute mentale dei miei lettori.