Qualche tempo fa ho per puro caso sentito la canzone di Tom Waits «November». In un primo momento ho pensato che fosse uno scherzo, un modo di prendere in giro qualcuno o qualcosa del genere… In parte questi miei dubbi sono dovuti anche al fatto che io non sono uno «ascoltatore» di Tom Waits (non so nemmeno dire il perché, è semplicemente capitato così).
Ma poi, un po’ meno per caso, ho scoperto che la suddetta canzone fa parte dell’album «The Black Rider» del 1993, il quale contiene le canzoni scritte per lo spettacolo teatrale omonimo, basato a sua volta sull’opera «The Magic Arrow». Di conseguenza, ora mi devo informare bene su queste due opere… Nel frattempo aggiungo un’altra canzone dallo stesso album: la «The Black Rider».
E non so ancora se recuperare quanto perso e studiare meglio pure il fenomeno di Tom Waits…
L’archivio della rubrica «Cultura»
La mia scelta di oggi della composizione musicale da postare nella rubrica musicale deriva, come a volte succede, dalla osservazione di quello che succede nel mondo nel preciso momento storico.
Negli ultimi giorni (o settimane) ho la sensazione che sia stato raggiunto un nuovo livello di idiozia globale, quindi mi è venuta in mente una delle composizioni classiche più cupe e deprimenti che conosco: la «Apotheosis of this Earth» del compositore ceco/statunitense Karel Husa. Pubblicata nel 1970, questa composizione si riferisce a una catastrofe globale come l’uso dell’arma nucleare (una interpretazione purtroppo non obsoleta nemmeno oggi), nulla ci vieta di ascoltarla tenendo in mente anche alcuni altri sviluppi…
Oppure si può ascoltarla senza alcun legame con gli eventi – storici o potenziali – della vita reale.
Il chitarrista e cantante blues Albert King è talmente famoso e influente (sì, anche dopo la sua morte avvenuta nel 1992), che io non so nemmeno se ci sia il bisogno di scrivere qualcosa prima di inserire dei video con i suoi brani. Posso solo esprimere pubblicamente il proprio stupore per il fatto di non avergli mai dedicato un post musicale…
Ed ecco che ho deciso, finalmente, di condividere con voi due dei brani di Albert King particolarmente importanti per me.
Il primo brano è il «I’ll Play the Blues for You (parts 1 and 2), facente parte dell’album omonimo del 1972. Si tratta di una di quelle composizioni musicali che a volte utilizzo in qualità di un «metronomo mentale»: per impostare un ritmo particolare – quando serve – al cervello.
Il secondo brano di Albert King scelto per oggi è il «My Babe» (dall’album «Albert» del 1988): solo perché è bello.
Sicuramente tornerò ancora a scrivere di Albert King perché devo recuperare un po’ di pubblicazioni mancate.
Presumo che la maggioranza di voi non abbia mai visto nemmeno una di queste monete:
Mentre il dritto di almeno una di esse dovrebbe darvi una utile indicazione sulla provenienza:
Ebbene sì: sono le monete attualmente in corso in Ucraina, la settimana scorsa mi sono arrivate direttamente da Leopoli. Ora sono tra le componenti più preziose della mia collezione.
Per rendere completa la «sezione ucraina» della mia collezione, devo ancora trovare le monete da 1, 2, 5, 10 e 25 centesimi (a eccezione di quella da 10 centesimi, sono ormai in fase di ritiro dalla circolazione) e alcune edizioni limitate della moneta da 1 grivna. Ma già con le cinque monete delle foto sovrastanti sono stato reso notevolmente felice.
P.S.: per le grivne (ma non per 50 centesimi) ho più di un esemplare di ogni taglio, quindi potrei anche provare a fare qualche scambio importante.
Penso che sia la settimana giusta per dedicare una nuova puntata della mia rubrica musicale all’inno statunitense: infatti, nessuno ha detto che i pretesti debbano essere sempre nettamente positivi.
Ebbene, più o meno tutti si ricordano l’inno degli USA (o almeno la sua parte iniziale). Si chiama «The Star-Spangled Banner», le sue parole sono tratte dal poema «Defence of Fort M’Henry» dell’avvocato e poeta americano Francis Scott Key (il quale compose il poema nel 1814), fu adottato in qualità dell’inno ufficiale solo il 3 marzo 1931.
Però bisogna ricordare anche l’autore della musica dell’inno! Ebbene, solo negli anni ’80 del XX secolo gli scienziati hanno scoperto che non si tratta di una musica popolare inglese: fu composta da una persona ben precisa. Si tratta dello storico della musica, compositore, organista e cantante britannico John Stafford Smith, il quale nel 1780 circa compose l’inno scherzoso della «Anacreontic Society» (un club di musicisti londinesi). Ora quell’inno scherzoso è noto come la canzone «To Anacreon in Heaven»:
Ora siete ancora più informati sulla cultura americana e sulla storia della musica. Io, di conseguenza, posso ritenere di non avere proprio sprecato questa giornata…
All’età di due anni cadde dalla finestra del secondo piano ferendosi gravemente alla testa.
All’età di sei anni per sbaglio bevette dell’acido borico.
All’età di nove anni cadde da una roccia frantumandosi le gambe.
All’età di undici anni contrattò il morbillo e trascorse nove giorni in coma.
All’età di quattordici anni si ruppe un braccio incastrato nella portiera di una carrozza.
All’età di diciannove anni fu colpito in testa da una pietra caduta dall’alto.
All’età di ventitré anni rischiò di morire avvelenandosi con il vino di scarsa qualità.
All’età di ventinove anni inventò il sassofono.
Evidentemente, qualcuno non voleva che il sassofono venisse inventato.
Ah, sì: quella persona sfortunata ma resistente si chiamava Antoine-Joseph (Adolphe) Sax (6/XI/1814 – 7/II/1894). Nel giorno del suo 210-mo compleanno ricordo a tutti – ancora una volta – che non bisogna arrendersi davanti alle sfortune che capitano sulla strada verso i traguardi realmente importanti della vita.
Non mi aggiornavo da un po’ sulle loro condizioni attuali, ma poco fa ho scoperto che i Deep Purple sono ancora in una buona forma. Considerando, appunto, che sono quasi ottantenni.
E allora oggi nella mia rubrica musicale pubblico due brani tratti dal loro ultimo album: «=1» uscito il 19 luglio 2024.
La prima canzone scelta è la «Lazy Sod»:
La seconda canzone scelta per oggi dallo stesso album è la «Portable Door»:
Bene, finché si divertono, lo facciano pure.
Quest’anno ho pensato di dedicare il tradizionale post musicale pre-Halloween alla composizione di Franz Schubert il Quartetto per archi n. 14 in Re minore (D 810), chiamata anche «La morte e la fanciulla». La prima versione di questa composizione fu un breve tema per pianoforte scritto dallo stesso Schubert nel 1817: in quella occasione si trattò di un breve dialogo tra una giovane ragazza, che cerca di convincere il Tristo Mietitore a non toglierle la vita, e la Morte, che si definisce amica e afferma di aver portato con sé solo il dolce sogno dell’oblio.
Quella prima composizione fu però solo il primo passo verso la creazione di qualcosa di più grande. In una buona misura la nuova composizione – il Quartetto, appunto – riflette lo stato d’animo del compositore in quel momento della sua vita. Nel 1824, all’epoca del lavoro sulla creazione del suddetto Quartetto, Schubert – che già non fu portatore di una buona salute – si ammalò gravemente e si fu ricoverato in ospedale. I pensieri sull’approssimarsi della morte lo visitarono spesso (in più fu pure praticamente in bancarotta e questo aspetto non contribuì al miglioramento dell’umore).
Il Quartetto è composto da quattro movimenti che rappresentano un’unica storia sulla vita, la morte e la successiva resurrezione dell’anima.
Questa composizione, eseguita per la prima volta nel 1826 in una casa privata di Vienna, fu presentata al grande pubblico nel 1831: ormai tre anni dopo la morte del compositore. Ma è oggi meritatamente considerata uno dei pilastri del repertorio cameristico.
Domani, il 20 ottobre, poteva essere il giorno del 90-esimo compleanno di Eddie Harris, un musicista jazz interessante, ma oggi ingiustamente dimenticato (secondo la mia impressione) dalle grandi masse: non lo sento nominare tanto spesso quanto diversi suoi colleghi famosi. Eddie Harris è morto nel 1996 all’età neanche avanzata di 62 anni, dunque la situazione non è certo destinata a migliorare da sola, senza una attività divulgativa delle persone come me.
Nel corso della propria carriera musicale Eddie Harris aveva suonato molti strumenti diversi: non solo i «tradizionali» sassofono, tromba o sassofono tenore, ma anche, per esempio, il sassofono elettronico, vibrafono e gli strumenti di invenzione propria (tromba ad ancia, sassofono con bocchino da trombone o una combinazione di chitarra e organo). Aveva inoltre suonato in più di un genere preciso – jazz, jazz-funk, soul e hard bop –, anche se questo è un tipo di varietà un po’ meno raro rispetto alla molteplicità degli strumenti.
Ecco, non so quanto senso abbia tentare di rispecchiare tutta la varietà della musica di Eddie Harris in un solo post. Probabilmente, conviene fare diversi post tematici. E, dato che oggi scrivo solo il primo post della serie, lo dedico, banalmente, ai due dei brani più famosi di Eddie Harris.
Il primo brano scelto per oggi è il «Freedom Jazz Dance» (dall’album «The In Sound» del 1966), poi suonato e pubblicizzato da Miles Davis.
Il secondo brano di Eddie Harris scelto per oggi è il «Listen Here» (lo possiamo trovare, per esempio, nell’album «Mean Greens» del 1966, ma in realtà Eddie Harris aveva registrato diverse sue versioni caratterizzate dall’uso di strumenti musicali diversi: si potrebbe farne un post musicale a parte).
Per iniziare, potrebbe anche andare bene così…
Da qualche tempo, sui vari social mi capita periodicamente di vedere delle foto di Romany Gilmour con o senza il padre David (il famoso chitarrista dei Pink Floyd). La ragazza è quasi sempre ritratta con qualche strumento musicale… A un certo punto ho pensato: ma sarà una forma di pubblicità occulta oppure è la vera / meritata popolarità di una nuova star, la cui esistenza era sconosciuta solo a me? Tanti musicisti famosi hanno dei figli (David Gilmour ne ha addirittura otto). Tanti figli dei musicisti famosi iniziano a suonare e/o cantare pure loro. Ma ci vuole un certo impegno per farsi venire in mente qualche esempio positivo, di qualche figlio d’arte che si è dimostrato minimamente capace…
Ed ecco che, quasi per caso, sul mio schermo è comparso questo video: il brano «Between Two Points» interpretato da David e Romany Gilmour (per le persone meno pazienti: se e quando vi sentite vicini alla resa, andate al momento 3:45 del video).
Ehm… Non posso proprio dire che Romany sia una grande cantante o musicista… E, dato che ha già 22 anni, ormai non penso che possa diventarla. Però il padre si diverte a sostenerla nel suo hobby: così, la loro suddetta collaborazione musicale è entrato a far parte del quinto album da solista di David Gilmour «Luck and Strange» (del 2024).
In ogni caso, le (anche i) cantanti incapaci ci sono sempre stati, alcuni di loro diventano pure molto famosi. Mentre alcuni altri, quando fortunati, riescono a realizzarsi in qualche ambito diverso. Ovviamente, non posso sapere come andrà a Romany Gilmour. Per ora posso solo concludere il presente post con la versione originale della canzone «Between Two Points»: quella del duo dream-pop The Montgolfier Brothers che l’aveva inclusa nel proprio album di debutto «Seventeen Stars» (del 1999):
Proverò a ricordarmi di controllare se ci saranno altre versioni più fortunate della canzone in futuro.