Il chitarrista e cantante blues Albert King è talmente famoso e influente (sì, anche dopo la sua morte avvenuta nel 1992), che io non so nemmeno se ci sia il bisogno di scrivere qualcosa prima di inserire dei video con i suoi brani. Posso solo esprimere pubblicamente il proprio stupore per il fatto di non avergli mai dedicato un post musicale…
Ed ecco che ho deciso, finalmente, di condividere con voi due dei brani di Albert King particolarmente importanti per me.
Il primo brano è il «I’ll Play the Blues for You (parts 1 and 2), facente parte dell’album omonimo del 1972. Si tratta di una di quelle composizioni musicali che a volte utilizzo in qualità di un «metronomo mentale»: per impostare un ritmo particolare – quando serve – al cervello.
Il secondo brano di Albert King scelto per oggi è il «My Babe» (dall’album «Albert» del 1988): solo perché è bello.
Sicuramente tornerò ancora a scrivere di Albert King perché devo recuperare un po’ di pubblicazioni mancate.
L’archivio del tag «blues»
È già la seconda volta nella storia della mia rubrica musicale che scrivo della stessa canzone (la prima era capitata nel 2019), ma la «protagonista» merita di essere ricordata… Anche perché di recente ho fatto una piccola scoperta in materia.
Quasi 60 anni fa – anche se i ventidue giorni di differenza ormai possono essere sacrificati con l’arrotondamento –, il 5 settembre 1964 The Animals raggiunsero il primo posto nelle classifiche statunitensi con la loro versione della canzone «The House of the Rising Sun». Ho scritto versione perché esistono molte versioni della canzone con trame completamente diverse. In tutte le versioni, il protagonista racconta la storia di come ha rovinato la propria vita nella casa del «Sol Levante». Il protagonista o, addirittura, la protagonista della canzone, come nella versione originale del folklore. La «Casa del Sol Levante» è intesa da alcuni come un bordello, da altri come una prigione, da altri ancora come un pub o una casa da gioco.
L’interpretazione più plausibile della suddetta espressione è quella di David Kenneth Ritz «Dave» Van Ronk (30 giugno 1936 – 10 febbraio 2002), un cantante folk americano e una grande autorità della scena newyorkese degli anni ’60:
Come tutti, pensavo che «casa» significasse bordello. Ma qualche tempo fa mi trovavo a New Orleans per un festival jazz. Mia moglie Andrea, Odette e io stavamo bevendo un drink in un pub quando si presentò un ragazzo con una pila di vecchie fotografie, istantanee della città di inizio secolo. Insieme al French Market, alla Lulu White’s Mahogany Hall, alla dogana e simili, c’era una foto dell’ingresso in pietra grezza, con un’immagine incisa del sole nascente al centro. Incuriosito, chiesi che tipo di edificio fosse. Si è scoperto che si trattava della prigione femminile di New Orleans. Quindi, a quanto pare, mi sono sempre sbagliato«.
Stando al testo, dunque, la canzone era originariamente cantata da una donna.
A questo punto, posso fare due cose. Prima di tutto, posto ancora una volta la famosa versione della canzone cantata dai The Animals:
E poi, trovo logico postare qualche interpretazione femminile della «The House of the Rising Sun». Per esempio, quella di Jodi Miller (facente parte del suo album «The House of the Rising Sun» del 1973):
Oppure la versione del gruppo Continuare la lettura di questo post »
Il gruppo britannico-statunitense Fleetwood Mac si formò nel 1967, ebbe dei periodi più o meno fortunati, cambiò più volte quasi tutta la formazione e il genere della musica suonata, ma a differenza di tanti gruppi concorrenti seppe rimanere popolare almeno fino all’inizio del XXI secolo: si potrebbe definirlo un record.
Allo stesso tempo, non posso dire che la lunga popolarità del gruppo si sia in qualche modo rispecchiata anche nelle mie preferenze musicali. Infatti, secondo me già a partire dalla metà degli anni ’70 il gruppo ha delle brutte tendenze verso il pop (il quale non mi piace). Di conseguenza, ritengo che solo nei primi cinque album del gruppo si possa trovare qualcosa, ma proprio qualcosa, di ascoltabile. Ma, ovviamente, dipende tutto dalle preferenze musicali di chi ascolta. In più, la tendenza stilistica che reputo negativa mi ha impedito di dedicarmi a uno studio relativamente approfondito di tutta la musica prodotta dal gruppo nel corso della sua storia.
Mentre aspetto di scoprire di essermi perso qualche canzone veramente geniale del periodo intermedio o tardo dei Fleetwood Mac, posto dunque due brani tratti dal loro primo album in studio «Peter Green’s Fleetwood Mac» del 1968.
La prima canzone scelta per oggi è la «My Heart Beat Like a Hammer»:
La seconda canzone scelta dallo stesso album è la «Long Grey Mare»:
Oppure mi conviene non preoccuparmi e ricordare il gruppo solo per il loro periodo iniziale? Boh, potrebbe essere…
Il cantante Bobby «Blue» Bland è considerato uno dei più importanti rappresentanti del blues del periodo tra gli anni ’60 e ’80 anche se, in realtà, la sua attività musicale non era limitata a un solo genere: combinava con successo il blues, il soul e il rhythm and blues. Allo stesso tempo, purtroppo, non si può dire che sia stato un cantante particolarmente popolare: iniziò a formare il proprio stile musicale individuale alla fine degli anni ’50, ormai alla soglia dei trent’anni, mentre negli anni ’60 e ’70 fu ormai «all’ombra» dei cantanti e gruppi più giovani (spesso impegnati pure nei generi musicali nuovi e più alla moda).
Fortunatamente, sappiamo che la popolarità non è un sinonimo della qualità e i problemi con la popolarità non sono dei problemi con la qualità. A Bobby «Blue» Bland la qualità musicale non è mai mancata. Di conseguenza, penso che la sua musica vada ricordata e pubblicizzata. Nell’ambito di tale missione ho pensato di selezionare, per il post musicale di oggi, due canzoni da uno degli album migliori di Bland: il «His California Album» del 1973.
La prima canzone scelta è la «This Time I’m Gone For Good»:
La seconda canzone selezionata dallo stesso album è la «Goin’ Down Slow»:
Bene. Mi sa che la prossima volta che mi viene l’idea di ricordare Bobby «Blue» Bland, scrivo di qualche sua fortunata collaborazione con dei musicisti più largamente noti.
Il 6 ottobre 2023 era uscito il nuovo album di Joe Bonamassa: il «Blues Delux Vol. 2». In quel periodo storico mi ero fatto distrarre da qualcosa – non mi ricordo più da cosa – e avevo dimenticato di dedicare un post musicale al suddetto album. Fa niente: non è ancora tardi per recuperare. Anzi, recuperare proprio questo sabato è anche meglio perché tre giorni fa c’è stato il 46-esimo compleanno del musicista.
L’album in questione è dichiarato come una continuazione dell’album «Blues Delux» del 2003: Joe Bonamassa lo avrebbe prodotto anche con l’obiettivo di capire quanto è progredito come musicista in vent’anni. Come nel caso del primo album della «serie», l’analisi del progresso viene dunque effettuata attraverso un confronto in un certo senso diretto: interpretando dei brani di alcuni grandi esponenti della storia del blues.
Io, da semplice ascoltatore, penso che Joe Bonamassa abbia fatto dei notevoli progressi nel corso della propria carriera musicale e, di conseguenza, per il post di oggi ho selezionato – tra i brani del nuovo album – gli unici due non-cover (brani originali composti appositamente per questo album).
Il primo brano di oggi è dunque il «Hope You Realize It (Goodbye Again)»:
E il secondo brano di oggi è il «Is It Safe to Go Home»:
Ma tutto questo non significa che il progresso possa o debba fermarsi!
Ieri sera ho sentito, quasi per caso, la canzone «I’m Not Ashamed To Sing The Blues» di Salvo Rizzuto. Mi era sembrata di un livello sufficiente per essere condivisa con un pubblico largo e spesso esperto.
Ovviamente, avevo provato subito a informarmi sull’autore… E, a sorpresa, ho trovato pochissima sua musica su YouTube. Proverò a continuare le mie ricerche, mentre per ora metto, in qualità del secondo brano del post odierno, la sua canzone «Feel it» suonata e cantata in collaborazione con Reedom or not.
In ogni caso, è sempre bello scoprire qualcosa di nuovo e valido.
Il brano strumentale «Cat’s Squirrel» è stato eseguito e registrato, nel corso degli anni, da diversi gruppi rock e blues-rock. Tutti quei gruppi hanno accompagnato il titolo del brano con una nota strana: «una canzone popolare inglese». Mentre in realtà, come ben sanno gli esperti del blues, il prototipo di tale brano è il «Mississippi Blues», registrato nel 1953 dal bluesman Charles Isaiah Ross (noto anche come Dr. Ross):
Il nuovo nome del brano, quello pseudo-popolare-inglese, è comparso per la prima volta sulla copertina dell’album dei Cream «Fresh Cream» del 1966. Ecco la loro interpretazione:
Nel 1968, poi, sono stati i Jethro Tull a includere il brano, sempre con il nome «Cat’s Squirrel», nel proprio album del debutto «This Was».
Poco dopo la pubblicazione del primo album, il gruppo è stato lasciato da uno dei fondatori: Mick Abrahams. Quest’ultimo ha fondato, nello stesso 1968, il gruppo Blodwyn Pig. Anche con questo secondo gruppo ha spesso suonato il brano «Cat’s Squirrel»:
Il brano è stato suonato anche da alcuni altri gruppi, ma non vorrei appesantire troppo il post musicale di oggi. Forse un’altra volta…
Il gruppo inglese Jethro Tull nel corso della propria storia aveva sperimentato – di solito per il volere del proprio leader Ian Anderson – con diversi generi musicali: dopo essere partiti con il blues rock, i Jethro Tull hanno in diverse epoche aggiunto alla propria musica degli elementi di folk, jazz, musica classica e delle varie correnti del rock. I cambiamenti così forti – si tratta dei generi spesso abbastanza lontani tra essi – hanno costituito una delle cause principali dei cambiamenti frequenti della formazione del gruppo: c’era sempre qualcuno disinteressato (usiamo pure questo temine diplomatico) al nuovo genere adottato. Ma, sorprendentemente, i vari cambiamenti non hanno danneggiato la popolarità del gruppo. Anzi, i Jethro Tull, pur essendo sempre lontani dal mainstream, utilizzando degli arrangiamenti difficile e scrivendo dei testi particolari, hanno avuto un buon successo commerciale per oltre un decennio.
Ora, non ha molto senso tentare di riassumere tutta la storia musicale dei Jethro Tull in un solo post. Tale storia, come si è appena detto, è troppo lunga e varia. Sarebbe invece più utile e bello dedicarsi a un periodo stilistico alla volta. Di conseguenza, oggi ho deciso di dedicare il mio post musicale al periodo iniziale del gruppo: quello caratterizzato dal progressive blues e rappresentato dal loro primo album «This Was» del 1968.
Il primo brano scelto per oggi è il «Serenade to a Cuckoo», una cover della omonima melodia del musicista-compositore jazz Roland Kirk. In questa occasione è anche possibile apprezzare l’uso del flauto da parte di Ian Anderson (si dice che sarebbe stato il primo a utilizzare questo strumento nella musica rock).
Il secondo brano scelto dallo stesso album è la «A Song for Jeffrey», dedicata al musicista Jeffrey Hammond (il quale è diventato il bassista del gruppo tre anni più tardi).
Penso che per oggi possa andare bene così. Prima o poi tornerò ai Jethro Tull per condividere qualche altro periodo della loro storia.
Alla fine di ottobre è uscito il nuovo album di Joe Bonamassa: «Time Clocks»…
Questa tendenza di pubblicare un album all’anno inizia a preoccuparmi perché capisco benissimo che una simile frequenza può incidere troppo facilmente – in un modo negativo – sulla qualità dei contenuti. E, infatti, l’album dell’autunno scorso mi aveva in un certo senso deluso: mi era piaciuto molto meno di alcuni precedenti («Blues of Desperation» del 2016 e «Redemption» del 2018 sono tra i miei album preferiti in generale).
L’album di quest’anno – «Time Clocks», appunto – non supera in qualità gli esempi migliori, ma si salva grazie a un cambio del genere abbastanza forte: una maggiore tendenza verso il rock contribuisce alla sensazione di sentire qualcosa di nuovo.
Quindi pure questa volta seleziono due canzoni dal nuovo album.
La prima è «Notches»:
E la seconda è «Questions and Answers»:
Però spero che non continui a insistere con la frequenza annuale degli album nuovi: la qualità è più importante. Nel lungo periodo rende anche di più, ahahaha
Il chitarrista/cantante Leslie West (è uno pseudonimo, in realtà si chiama Leslie Weinstein) viene spesso elencato tra i musicisti che hanno influenzato, negli anni ’70, l’affermazione negli USA del hard-rock e del heavy metal. Questa definizione non deve però ingannarvi: lo stile musicale prevalente di Leslie West è sempre stato in qualche modo tendente al cosiddetto hard blues-rock.
La notorietà iniziale – ma non vorrei dire «principale» – di Leslie West è dovuta alla sua partecipazione al gruppo Mountain, ma oggi vorrei dedicare un post musicale a una parte della sua carriera da solista.
Il primo brano selezionato per oggi è «Sea of Fire» (dall’album «Alligator» del 1989):
Mentre in qualità del «side B» metterei il brano strumentale «All of Me» (sempre dallo stesso album):
Seguirà la continuazione…
P.S.: ieri Leslie West avrebbe compiuto 76 anni.