Il giovedì 7 novembre Putin aveva parlato – nel corso di una esibizione pubblica di quasi tre ore – anche della elezione di Trump alla Presidenza americana: molto probabilmente ne avete sentito qualcosa anche voi. Per me, personalmente, la frase più divertente è «… lavoreremo con qualsiasi Capo di Stato …». Per fortuna o purtroppo, i rapporti tra gli Stati (indipendentemente da quali siano) non possono essere azzerati (possono variare solo l’intensità e i motivi dei contatti), ma proprio nel caso di Putin saranno in realtà gli altri a decidere se come lavorare con lui.
Potrebbe saperlo anche lui, ma si rivolgeva al pubblico interno… Però tutto questo non rende la suddetta espressione meno slegata dalla realtà.
L’archivio della rubrica «Russia»
L’articolo – non particolarmente lungo – che segnalo questo sabato è dedicato a un fenomeno non nuovo (per l’intera storia dell’esercito russo), ma riemerso con una nuova intensità negli ultimi mesi: i militari russi partecipanti alla Guerra in Ucraina si lamentano sempre più spesso dei comandanti che mandano a morte certa gli uomini indesiderati o li minacciano direttamente di «azzeramento». Io, essendo un civile e un oppositore della guerra in corso, non sono in realtà molto interessato al modo in cui il pianeta viene ripulito degli assassini (mi interessa di più il risultato finale). Ma trovo comunque curioso scoprire certi particolari del funzionamento «sul campo» dell’attuale esercito russo.
Non escludo che si tratti di un interesse condiviso da qualche lettore.
Nel villaggio russo Silikatny, nella regione di Ulyanovsk, il martedì 22 ottobre è stato installato un monumento ai «Veterani delle operazioni di combattimento, partecipanti alle guerre locali e ai conflitti armati» (senza specificare quali conflitti, combattimenti e guerre si intendano) con l’immagine di un soldato in uniforme militare. Alla cerimonia di apertura hanno partecipato Dmitry Grachev (un membro dell’assemblea legislativa regionale), Anna Anisimova (la sindaca del villaggio) e i parenti dei militari uccisi nella guerra in Ucraina. L’idea di installare il monumento è stata dell’organizzazione di Ulyanovsk «Svoi lyudi» («Le nostre persone»), composta da partecipanti alla guerra con l’Ucraina che hanno avuto disabilità in seguito alle ferite ricevute durante l’invasione.
Ma c’è stato un piccolo problema tecnico:
Sì, è raffigurato un militare in uniforme americana! Non se ne sono accorti subito e hanno smontato una parte del monumento solo una settimana più tardi, il 29 ottobre. Ora sembra proprio una tomba:
O lo sembrava anche prima?
L’articolo che vi segnalo questo sabato riguarda uno di quei fenomeni russi dei tempi della guerra relativamente nuovi, di cui avremmo potuto logicamente supporre l’esistenza già da tempo. Si tratta dei siti di phishing che fingono di essere la pagina web ufficiale della Legione «Libertà della Russia» (una unità militare delle Forze armate dell’Ucraina formata da prigionieri di guerra russi e volontari) e raccolgono dati dagli incauti utenti russi.
Sono degli utenti incauti perché finiscono a essere accusati e incarcerati in base alla legge russa sulla partecipazione a una organizzazione terroristica.
E noi (o, almeno, coloro che seguono molto attentamente le notizie sulla Russia) avremmo potuto ipotizzarlo sulla base della nostra lunga esperienza di lettura di notizie su rappresentanti delle forze dell’ «ordine» russe che si assicurano le statistiche positive sulla «prevenzione del terrorismo» attraverso l’organizzazione di varie provocazioni nel segmento russo dell’internet. Quelle provocazioni, nel corso delle quali un poliziotto si infiltra in (o, addirittura, organizza) una comunità di persone online, le coinvolge nella discussione di qualche progetto palesemente sgradito allo Stato e poi chiama i colleghi a raccogliere i frutti che vengono spacciati come risultati delle indagini.
Ma i dettagli sul fenomeno specifico dell’utilizzo di pagine fittizie della Legione «Libertà della Russia» sono comunque interessanti.
Ieri, il 22 ottobre, nella città russa di Kazan è iniziato – sotto la presidenza russa – il vertice BRICS di tre giorni. Come previsto, si sono presentati quasi tutti i Capi di Stato del gruppo (tranne il presidente del Brasile): India, Cina, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. Pare che con l’organizzazione del vertice in Russia Putin voglia dimostrare all’Occidente e ai propri fan interni di non trovarsi in un isolamento internazionale…
Ecco, a questo punto bisogna fare una precisazione per le persone meno esperte in materia del BRICS perché, effettivamente, potrebbero pensare che si tratti di una Organizzazione internazionale che conti qualcosa.
Il problema sta nel fatto che BRICS è una organizzazione dal punto di vista pratico inutile per il 100% dei propri Stati-membri. Sì, per la Russia compresa, a meno che qualcuno non inventi il modo di trovare una utilità pratica nelle sceneggiate di Putin. Infatti, gli Stati-membri del BRICS non sempre hanno gli scambi commerciali tra loro, ma quando li hanno non vedono alcuna influenza del BRICS in materia (quegli scambi non vengono favoriti e c’erano pure prima). Non hanno una valuta comune, mentre quelle nazionali esistenti non servono agli altri compagni del BRICS. Spesso (molto spesso) non hanno una politica comune su alcun argomento (perché esistono fisicamente nei contesti diversi). Hanno le problematiche interne (e spesso le loro cause) diverse. Spesso non hanno nemmeno dei confini territoriali comuni.
C’è solo cosa che gli Stati-membri del BRICS hanno in comune: è la grande voglia di parlare male dell’Occidente in generale e degli USA in particolare. Quindi periodicamente i leader degli Stati-membri si riuniscono (fisicamente oppure online) per una specie di terapia psicologica collettiva: si scambiano dei discorsi sul proprio odio verso gli USA, vedono di «non essere soli» e tornano a casa un po’ meno tristi di prima.
Il sabato 19 ottobre i bambini dell’asilo n. 38 «Raduga» del villaggio di Rassvet (nella regione di Rostov) hanno visitato una delle unità militari del Distretto militare meridionale russo. I bambini sono stati iscritti nell’organizzazione militare-patriottica «Junarmia» (le autorità russe coinvolgono regolarmente i bambini in una campagna a favore della invasione su larga scala della Ucraina, anche tramite la promozione di quella organizzazione «l’Esercito giovane»). Come riportato dalla sezione regionale di «Junarmia», uno dei militari, il sergente maggiore Roman K., ha regalato ai bambini un diorama «La liberazione della città di Bakhmut», da lui stesso realizzato. Il diorama mostra case residenziali distrutte durante l’offensiva russa sulla città, veicoli militari con la lettera «Z» e uomini armati.
Ora sono preoccupato non solo per i bambini, ma anche per la sorte del sergente maggiore Roman K.. Verrà accusato di avere diffuso un fake sull’operato dell’esercito russo? Finirà in carcere per almeno otto anni come capita ai civili russi contrari alla guerra?
E, soprattutto, eviterà in tal modo la sorte che merita?
Bisogna fare in modo che il suo caso non si perda nel torrente delle notizie.
Non so se lo sapete (e non so se tutti sono interessati a saperlo), ma per il martedì 22 ottobre è programmata l’uscita – contemporaneamente in 36 Stati del mondo – del libro di memorie di Alexey Navalny (non è necessario raccontare chi sia stato e perché non c’è più). La scrittura del libro era iniziata nel 2020, quando Navalny si stava sottoponendo alle cure in Europa, dopo il tentato avvelenamento con il novichok. Ma avendo per ora letto solo alcuni frammenti resi noti in anticipo, non volevo parlarvi del libro. Il pretesto del post odierno è un’altra lettura.
Pochi giorni prima della pubblicazione delle memorie di Navalny, la sua vedova Yulia Navalnaya ha rilasciato una grande intervista al quotidiano britannico The Times, nel corso della quale, tra le altre cose, aveva detto «Non auguro a Putin di morire. Voglio che finisca in una prigione russa».
Ebbene (ebbene?), finire in una prigione russa di oggi è peggio di morire: significa trovarsi in una struttura (e, spesso in un clima) fisicamente inadeguata alla vita umana ed essere torturato quotidianamente dalla maggioranza delle guardie e dalla maggioranza degli altri detenuti che non si preoccupano (gli esponenti di entrambe le categorie) della vostra vita e personalità. Ma non sono assolutamente sicuro che Putin, una volta finito in una carcere russa (se per qualche miracolo dovesse succedere), sarà messo nelle condizioni comuni dalle guardie penitenziarie che proprio a lui devono tutto: il lavoro, lo status dei padroni della vita, delle certezze sul proprio futuro… So che Putin ha paura della presenza fisica delle altre persone nelle sue vicinanze e degli ambianti non sterilizzati ma, comunque, penso una carcere russa (quella attuale, ovviamente) per lui sarebbe un grande regalo.
Io, personalmente, gli auguro la sorte di Gheddafi, anche ritengo poco probabile pure questa opzione.
P.S.: il libro menzionato all’inizio del post è «Patriot», pubblicato dalla casa editrice Knopf. Uscirà anche in italiano.
L’articolo che segnalo questo sabato è in una parte significativa dedicato a un personaggio che non è particolarmente famoso (almeno per ora) nemmeno Russia: un certo Artem Zhoga. È colui che nel dicembre 2023 era stato usato per aiutare Putin ad annunciare la propria «candidatura» per un nuovo mandato presidenziale (nel corso di un ricevimento al Cremlino aveva «chiesto» a Putin di farlo).
Ora il partecipante alla guerra con l’Ucraina Artem Zhoga è diventato il rappresentante presidenziale nel distretto federale degli Urali: lo speaker del «parlamento» dell’autoproclamata DNR dovrebbe diventare – secondo l’idea del Cremlino collettivo, un simbolo di come i «veterani della operazione militare speciale» e i rappresentanti dei territori ucraini occupati si stanno inserendo nella classe dirigente dello Stato russo.
Insomma, è un articolo sulla intersezione della guerra con la «politica» interna russa.
Negli ultimi mesi mi accorgo sempre più spesso che il Bloomberg pubblica regolarmente, al posto delle notizie vere, delle «notizie» o interpretazioni degli eventi di invenzione propria. Proprio per questo ho smesso di reagire alle sue pubblicazioni e non invito gli altri a farlo.
La settimana scorsa, però, ho appreso una notizia interessante e non contraria alla logica, dove proprio il Bloomberg era indicato come fonte. In sostanza l’India avrebbe aumentato notevolmente le spedizioni di beni e tecnologie a duplice uso soggette a restrizioni all’esportazione verso la Russia, posizionandosi al secondo posto dopo la Cina. Le esportazioni indiane di beni come microchip e macchinari hanno raggiunto i 60 milioni di dollari in aprile e maggio, il doppio rispetto ai primi tre mesi dell’anno. A luglio, le vendite hanno raggiunto i 95 milioni di dollari. Secondo dati recenti, quasi il 20% di tutta la tecnologia sensibile che entra nel complesso militare-industriale russo passa dall’India. Poiché i Paesi occidentali hanno vietato alle loro aziende di fornire la maggior parte dei beni a duplice uso alla Russia, i produttori russi li acquistano da Paesi terzi.
Ecco, non ho la certezza assoluta sulla precisione dei dati riportati, ma capisco che si inseriscono bene nella logica generale degli eventi. Dal febbraio 2022 il governo russo, tra le altre cose, sta cercando di a) vendere il petrolio tramite i vari Stati-intermediari (tra i quali l’India è uno dei principali) e b) cercare le vie del cosiddetto «import grigio» (acquistare le tecnologie necessarie tramite i vari Stati-intermediari). In entrambi i casi sta cercando di agire – seguendo una delle idee strane di Putin – utilizzando non le valute dei principali «Stati-nemici», ma le valute degli intermediari. Ma la rupia indiana, con le sue problematiche di conversione, non è la valuta più utile del mondo. Di conseguenza, le rupie ottenute con la vendita del petrolio o rimangono dei soldi inutilizzabili, o si spendono per le tecnologie dell’import grigio.
I Governi degli Stati occidentali preoccupati della situazione creatasi dovrebbero saperlo, ma non sono sicuro che sappiano anche come comportarsi in questo specifico caso.
L’articolo che segnalo questo sabato è dedicato alla storia di una singola – ma una delle tantissime – persona: la detenuta e prigioniera (in tutti i sensi) politica Irina Navalnaya. È una ragazza ucraina di 26 anni fermata (in italiano si legge rapita) dai militari russi nell’area occupata di Mariupol e accusata di preparare un attacco terroristico durante il «referendum» sull’adesione della regione alla Russia.
Non è una parente di Alexey Navalny, anche se porta lo stesso cognome (al femminile): proviene da una zona dove quel cognome è abbastanza diffuso, ma non tutti i suoi portatori sono dei parenti tra loro. Allo stesso tempo, anche grazie al cognome famoso il caso di Irina è diventato largamente noto: non so se nel breve periodo la notorietà si rivelerà un fattore positivo nel suo destino, ma, almeno, oggi ci permette di scoprire alcuni altri dettagli della storia degli ultimi anni.