Questa volta il post musicale è dedicato esclusivamente al duetto atomico di Joe Bonamassa e Tina Guo.
Non mi vengono in mente (ma nemmeno nei risultai di ricerca) dei brani capaci di svolgere efficientemente la funzione del tradizionale secondo video, quindi mi limito a ricordare altri miei post dedicati a Joe Bonamassa (uno dei miei musicisti contemporanei preferiti).
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Tempo fa mi era capitato di dedicare un post musicale al duo Simon and Garfunkel.
La stretta collaborazione tra i due componenti si è di fatto conclusa all’inizio degli anni ’70, ma ognuno di loro ha continuato la propria carriera musicale nei lunghi decenni successivi. Anzi, Paul Simon la sta continuando ancora, sebbene abbaia rinunciato nel 2017 di continuare a esibirsi nei concerti.
Ho pensato che possa avere senso dedicare i singoli post al lavoro da solisti di Paul Simon e Art Garfunkel. Comincerei dal primo.
Si dice che il famoso duo si sarebbe sciolto anche grazie al crescente (e non condiviso) interesse di Simon verso la sperimentazione con la musica popolare di varie zone del mondo. Quel interesse è stato poi coltivato nel corso di tutta la sua vita professionale, ma per noi non sempre è percettibile con la stessa intensità. Lo possiamo notare (o almeno tentare di farlo) anche confrontando due canzoni registrate nelle epoche relativamente lontane tra esse.
Come al solito, ho preparato due esempi.
La prima canzone è «Something So Right» (dall’album «There Goes Rhymin’ Simon» del 1973):
E la seconda è «Graceland» (dall’album «Graceland» del 1986):
Per fortuna è riuscito a non scivolare nella etnomusicologia estrema.
Il compositore francese Georges Bizet è troppo famoso per esservi presentato pure da me. Quindi il tentativo di dedicargli un post un po’ meno banale di quello che verrebbe in mente alla maggioranza delle persone può essere basato sulla seguente logica. Dato che Bizet fu considerato dai suoi contemporanei un pianista virtuoso, proviamo ad ascoltare qualche sua composizione per il pianoforte. Conoscendo infatti perfettamente lo strumento, poté esprimere al meglio le proprie capacità da compositore proprio scrivendo per questo strumento.
Metterei due composizioni brevi.
La prima è «Chasse fantastique» («Caccia fantastica» del 1865):
E la seconda è «Jeux d’enfants» («Giochi dei bambini» del 1871):
Il musicista canadese Jeff Healey divenne cieco all’età di otto mesi a causa di una rara patologia oculare: la retinoblastoma. Tale sfortuna non lo ha però mai fermato nell’esercizio della sua grande passione per la musica. Essendo naturalmente meno avvantaggiato nel controllo dello strumento rispetto ai suoi colleghi vedenti, ha (re)inventato la propria versione del tapping, la tecnica di suono della chitarra consistente – semplificando – nel battere con le punta delle dita le corde come se fossero dei tasti. Ed è riuscito a produrre un po’ di musica ascoltabile.
Oggi posto due canzoni di Jeff Healey Band.
La prima è «Angel Eyes» (dall’album «See the Light» del 1988):
E la seconda canzone è «How Long Can a Man Be Strong» (dall’album «Hell to Pay» del 1990):
Per il post musicale di oggi ho scelto la Sinfonia n. 1 (detta «Jeremiah») del compositore statunitense Leonard Bernstein. Non mi importa molto il fatto che essa sia stata scritta su una storia biblica: valuto e apprezzo sempre il solo aspetto artistico dell’opera.
Se qualcuno mi avesse chiesto perché non pubblico qualcosa del rock o blues russo, io avrei risposto di avere almeno due motivi validi. Uno di questi è la lingua.
Per fortuna, però, almeno in questo senso esistono anche delle eccezioni.
L’eccezione che vi propongo oggi è Sergey Voronov con il suo gruppo Crossroadz (i nomi vecchi del gruppo sono Crossroads e X-Roudz) formato nel 1990. Non è il suo unico gruppo, probabilmente nemmeno il più originale, ma cominciamo pure da esso.
Ho riflettuto per un po’ di tempo sulla opportunità di invertire l’ordine delle canzoni scelte, ma poi ho comunque trovato le forze per seguire la cronologia degli eventi.
La prima canzone selezionata è la «Diamond Rain» (dall’album «Between» del 1993):
La seconda canzone scelta per oggi è la «We Were Meant to Be» (dall’album «Irony» del 2009):
Finalmente un nome non banale.
Per il post musicale di oggi ho voluto selezionare qualcosa di allegro. A termine di un breve periodo di meditazione ho dunque scelto la piece per l’orchestra «An American in Paris», scritta dal compositore George Gershwin nel 1928 (e suonata per la prima volta a Canegie Hall il 13 dicembre dello stesso anno).
Sì, dovrei educarvi anche all’ascolto del jazz, ahahaha
Penso che la canzone «Highway Star» sia ben nota anche alle persone che non sono mai state dei grandi fan dei Deep Purple. Come tanti altri grandi classici musicali, la canzone è nata per caso: a settembre del 1971, mentre i Deep Purple stavano andando a Portsmouth in autobus durante il loro tour in Gran Bretagna, qualcuno dei giornalisti presenti a bordo aveva chiesto a Ritchie Blackmore come facesse il gruppo a scrivere le canzoni. A quel punto Blackmore aveva preso una chitarra acustica (secondo altri fonti un banjo) e iniziato a suonare un riff della nota Sol a ripetizione. Ian Gillan, da parte sua, aveva iniziato a improvvisare un testo, composto anche dalle frasi prive di alcun senso particolare (tipo «… Steve McQueen, Mickey Mouse and Brigitte thingy»). A dicembre dello stesso anno, durante le registrazioni in studio, il gruppo aveva dunque perfezionato il testo e la musica della canzone. Nello stesso periodo il basista Roger Glover aveva inventato il titolo della canzone.
La versione nota a tutti fa dunque parte dell’album «Machine Head» del 1972:
Come tutte le canzoni ben riuscite, anche la «Highway Star» è stata successivamente cantata da diversi altri gruppi musicali. Oggi vi propongo due di quelle cover. La prima è del gruppo Metal Church (inserita anche nell’omonimo album d’esordio del 1984):
La seconda cover, secondo me molto più interessante dal punto di vista musicale, è del gruppo italiano Quintorigo (contenuta nell’album «Grigio» del 2000):
Quest’ultimo è un bel esempio di utilizzo moderno degli strumenti classici, inspiegabilmente snobbato dalla maggioranza dei musicisti. Probabilmente, è anche una questione della capacità.
Il compositore Mikael Tariverdiev (1931–1996) nacque da genitori armeni in Georgia, studiò musica a Erevan (Armenia) e a Mosca. Proprio a Mosca condusse tutta la sua vita professionale, diventando noto al largo pubblico soprattutto in qualità dell’autore della musica per il cinema. Al giorno d’oggi è stato calcolato che Tariverdiev scrisse la musica per 132 film sovietici e russi, diversi spettacoli teatrali, oltre cento canzoni, 4 balletti, 5 opere, 1 sinfonia, 3 concerti per organo, 3 concerti per violino e orchestra. Si tratta, comunque, di numeri approssimativi, in quanto lo studio del suo archivio musicale non è tuttora stato completato.
Quest’ultimo fatto, in particolare, è una fonte di tante speranze per gli amanti della musica: Mikael Tariverdiev è stato un compositore molto interessante. Sappiamo, inoltre, che una parte consistente della musica strettamente classica fu scritta dal compositore nella seconda – o spesso anche nella più tarda – parte della vita.
Per il post musicale di oggi ho scelto il suo «Trio per violino, violoncello e pianoforte» (bello nella sua semplicità):
In qualità del bonus track pubblico una delle musiche per un popolarissimo film sovietico degli anni ’70. Il nome convenzionale del brano è «San Pietroburgo sotto la neve».
Chi avrà l’onore di chiudere quest’anno musicale sul mio blog? Ho riflettuto a lungo sulla candidatura più adatta e alla fine ho scelto il compositore francese Claude-Achille Debussy. Assieme al già ascoltato in questa sede Ravel, è uno dei rappresentanti principali dell’impressionismo musicale.
Il nostro protagonista di oggi non ebbe mai abbastanza pazienza per completare una opera musicale lunga (con l’unica eccezione dell’opera «Pelléas et Mélisande»), ma a differenza di molti altri artisti non fu – a quanto ne so – particolarmente dispiaciuto per questa sua irrequietezza.
Tale modo di produrre l’arte che si vuole con la serenità interiore ha tutta la mia approvazione (anche se comprendo che gli artisti non ne hanno assolutamente bisogno), quindi oggi mi organizzo nel modo seguente.
Inizio con la cantata «L’enfant prodigue» (scritta nel 1884):…
… e poi continuo con una opera brevissima: «L’isola della gioia» («L’isle joyeusse», scritta nel 1905):
Spero che i giorni rimanenti del 2019 e almeno tutto l’anno prossimo siano per voi pieni di gioia.