Quest’anno ho pensato di dedicare il tradizionale post musicale pre-Halloween alla composizione di Franz Schubert il Quartetto per archi n. 14 in Re minore (D 810), chiamata anche «La morte e la fanciulla». La prima versione di questa composizione fu un breve tema per pianoforte scritto dallo stesso Schubert nel 1817: in quella occasione si trattò di un breve dialogo tra una giovane ragazza, che cerca di convincere il Tristo Mietitore a non toglierle la vita, e la Morte, che si definisce amica e afferma di aver portato con sé solo il dolce sogno dell’oblio.
Quella prima composizione fu però solo il primo passo verso la creazione di qualcosa di più grande. In una buona misura la nuova composizione – il Quartetto, appunto – riflette lo stato d’animo del compositore in quel momento della sua vita. Nel 1824, all’epoca del lavoro sulla creazione del suddetto Quartetto, Schubert – che già non fu portatore di una buona salute – si ammalò gravemente e si fu ricoverato in ospedale. I pensieri sull’approssimarsi della morte lo visitarono spesso (in più fu pure praticamente in bancarotta e questo aspetto non contribuì al miglioramento dell’umore).
Il Quartetto è composto da quattro movimenti che rappresentano un’unica storia sulla vita, la morte e la successiva resurrezione dell’anima.
Questa composizione, eseguita per la prima volta nel 1826 in una casa privata di Vienna, fu presentata al grande pubblico nel 1831: ormai tre anni dopo la morte del compositore. Ma è oggi meritatamente considerata uno dei pilastri del repertorio cameristico.
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Negli ultimi tempi mi capita, con una certa periodicità, di leggere qualcosa sulla creazione delle opere d’arte ai tempi di guerra: da parte degli artisti che vivono negli Stati-aggressori e quelli che vivono negli Stati-vittime. Sono delle letture lunghe, spesso interessanti, a volte discutibili, e in ogni caso difficili. Di conseguenza, almeno per ora non tento di riassumerle: richiederà un impegno al quale non sono pronto io e, molto probabilmente, nemmeno la maggioranza dei potenziali lettori.
Allo stesso tempo, da quelle letture posso ricavare qualche idea «pratica», qualche opera artistica bella e interessante indipendentemente dalle circostanze nelle quali è stata creata. Prendiamo uno degli esempi che ho scoperto di recente: il «Quartetto d’archi» del compositore francese Jacques Ibert…
Nel 1937 Ibert fu nominato direttore dell’Accademia di Francia a Roma (la prima volta dal 1666 che un musicista veniva nominato a questa carica). Con l’inizio della Seconda guerra mondiale, Ibert ricoprì il ruolo di addetto navale presso l’Ambasciata francese a Roma. Il 10 giugno l’Italia entrò in guerra e il giorno successivo Ibert, insieme alla sua famiglia, partì da Roma con un treno diplomatico. Già nell’agosto del 1940 fu collocato a riposo, con un decreto speciale del governo di Vichy il suo nome fu cancellato dall’elenco degli ufficiali di marina e le sue opere furono vietate. Per i quattro anni successivi, Ibert visse in condizioni di semi-legalità pur continuando a comporre e, tra le altre cose, nel 1942 completò il Quartetto per archi che aveva iniziò nel 1937.
Si era dedicato a quello che sapeva fare meglio, aveva raggiunto dei risultati interessanti e, sicuramente, trovava del tempo per contribuire anche alla soluzione delle questioni attuali per quegli anni.
Proprio questo sabato capita un anniversario musicale che avreste potuto saltare: i 150 anni dalla nascita del compositore britannico Gustav Holst.
Come tutti i compositori rilevanti, pure Holst aveva iniziato a comporre musica da adolescente, ma, a differenza di molti, non era mai riuscito a trasformare la composizione nella propria attività professionale principale. La sua musica veniva eseguita in pubblico, riceveva delle buone recensioni, ma rendeva poco dal punto di vista economico. Di conseguenza, Holst aveva sempre affiancato la composizione ad altri lavori musicali: orchestrale trombonista fino al 1903 (aveva iniziato lo studio del trombone da ragazzino nel tentativo di combattere gli attacchi dell’asma) e insegnante di musica nelle scuole fino alla propria morte nel 1934.
Solo nel 1921 aveva avuto una improvvisa parentesi di grande popolarità da compositore: dopo la pubblicazione della sua suite per grande orchestra in sette movimenti «The Planets» (composta negli anni 1914–1916 ed eseguita per la prima volta il 10 ottobre 1918).
Proprio quella suite è il «tema» del post musicale di oggi:
Gusta Holst, però, si era dimostrato totalmente impreparato e indisponibile alla popolarità: rifiutava tutti gli onori e le interviste, era stato addirittura categoricamente contrario al firmare gli autografi.
Sempre tormentato da problemi di salute, è morto il 25 maggio 1934 a Londra a causa di un’insufficienza cardiaca dovuta a un intervento chirurgico per un’ulcera intestinale.
E io penso di dedicargli ancora almeno un post musicale. Ormai, la popolarità non potrà più infastidirlo!
Dopo avere pubblicato il post musicale dedicato alla compositrice francese Louise Farrenc, mi sono accorto di non avere mai postato alcunché del compositore tedesco Felix Mendelssohn. Non è assolutamente giusto!
Infatti, nonostante una vita relativamente breve (1809–1847), Mendelssohn ha fatto in tempo a comporre una buona quantità di musica interessante e diventare uno dei maggiori rappresentanti del romanticismo nella musica (sicuramente è successo anche grazie al fatto che i genitori, pur appartenendo al mondo pratico e pragmatico bancario non hanno mai ostacolato – anzi! – lo sviluppo degli interessi artistici del figlio). Anche le tipologie delle composizioni di Mendelssohn sono abbastanza numerose e varie: sinfonie, opere liriche, concerti, oratori, musica per organo, musica da camera…
Però per il primo post dedicatogli vorrei selezionare qualcosa di realmente famoso di Felix Mendelssohn.
Come prima composizione del post metterei la marcia composta nel 1842 per la commedia shakespeariana «Sogno di una notte di mezza estate». Non conosco abbastanza bene le tradizioni italiane in materia (e non ho avuto l’occasione di raccogliere abbastanza osservazioni empiriche), ma in diversi Stati – la Russia compresa – questa marcia si usa largamente in qualità di marcia nuziale.
La seconda composizione di Felix Mendelssohn che metterei oggi è la Sinfonia n. 1 in Do minore. Il compositore la terminò a marzo del 1824 – all’età di 15 anni – ma nella primavera del 1829 sostituì la sua terza parte. Proprio questa versione modificata della sinfonia ebbe un ruolo importantissimo nel riconoscimento internazionale di Mendelssohn in qualità di un bravo compositore.
Bene, così la prossima volta – quando capita – mi dedico a qualche composizione più grande di Felix Mendelssohn.
Qualche tempo fa mi ero improvvisamente accorto di avere postato, nella mia rubrica musicale, tante composizioni dei compositori uomini e nessuna composizione delle compositrici donne. È una situazione pericolosa: prima o poi qualcuno potrebbe accusarmi di misoginia. Oltre a essere pericolosa, è anche una situazione po’ ingiusta: nella storia della musica classica ci sono state delle compositrici valide, non peggio di alcuni compositori uomini ben conosciuti e apprezzati anche ora.
Così, si potrebbe fare l’esempio della compositrice francese Louise Farrenc (1804–1875), figlia dell’importante scultore dell’epoca Jacques-Edme Dumont e moglie del flautista Aristide Farrenc (che divenne l’impresario e l’editore della moglie). Negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo Louise Farrenc fu nota e apprezzata a livello europeo come pianista: tanto apprezzata da essere nominata professoressa di pianoforte al Conservatorio parigino (dove insegnò dal 1842 al 1872). Pur essendo impegnata tanto nell’insegnamento, riuscì a dedicarsi anche alla composizione.
Avendo pubblicato nel corso della propria vita circa cinquanta composizioni, per lo più strumentali, Farrenc ricevette recensioni entusiastiche da parte di Berlioz e Liszt, ma in patria fu percepita come una compositrice «troppo poco francese». Infatti, tra i principali compositori francesi dell’epoca andavano di moda le opere liriche molto lunghe, mentre le composizioni di Louise Farrenc furono molto laconiche, ispirate al classicismo musicale e, dunque, contro la moda corrente.
Di conseguenza, in qualità della compositrice non fu tanto popolare. Eppure, le sue composizioni migliori non sono peggio di quelle dei suoi contemporanei come, per esempio, Mendelssohn o Schumann.
A questo punto vorrei illustrare quanto scritto fino a questo punto con un esempio concreto. Potrebbe andare bene, a tal fine, la Sinfonia n. 3 in Sol minore (Op. 36, composta nel 1847).
Bene, ora non rischio più di apparire un divulgatore maschilista.
E sono pure contento per avere portato musica bella.
Quando fu ancora in vita, il musicista italiano Giovanni Viotti (1755–1824) fu considerato (e apprezzato come) più un violinista virtuoso che un compositore. Debuttò come violinista a Parigi nel 1782 e, se fortunato, avrebbe potuto rimanervi per tutta la — per nulla povera — vita, ma non fu fortunato: i legami con la casa reale non rivelarono un buon bagaglio quando iniziò la Rivoluzione, dunque Viotti fuggì a Londra. Nemmeno in Inghilterra fu però fortunato: lo espulsero con l’accusa (non tanto fondata, se ho capito bene) di essere un sostenitore dei giacobini. Dopo un periodo relativamente breve di soggiorno in Germania, Viotti tornò in Inghilterra, ma non riuscì a inserirsi nuovamente nella scena musicale nazionale e finì per dedicarsi alla prodizione di vino. Gli affari gli andarono però molto male (non è una sorpresa: non si diventa imprenditori di colpo), molto presto Viotti andò in bancarotta. Anche il resto della sua vita fu segnato dai fallimenti, dunque morì all’età di 68 anni in totale povertà. Al momento della morte i suoi averi materiali furono pochi: un paio di manoscritti, alcune tabacchiere, un orologio e due violini (uno dei quali avrebbe dovuto, secondo la volontà di Viotti, essere venduto per pagare i suoi debiti).
Non so se ne sarebbe stato contento (se fosse capace di osservare il nostro mondo dall’ipotetico mondo parallelo in cui si trova ora), ma almeno Viotti è stato raggiunto dal meritato riconoscimento postumo: oggi è considerato uno dei padri-fondatori della scuola violinistica francese del XIX secolo. Le composizioni più famose di Viotti sono i 29 concerti per violino e orchestra, che hanno avuto una influenza significativa sulla musica di diversi compositori noti anche ai non esperti.
Tra questi compositori «influenzati» c’è anche Niccolò Paganini, probabilmente il primo che viene in mente a una persona media che sente la parola violinista. Così, per esempio, il secondo movimento del Secondo Concerto di Paganini inizia in maniera quasi identica al secondo movimento del Concerto n. 24 in si minore di Viotti (composto presumibilmente negli anni 1793–1797). Nella edizione odierna della mia rubrica musicale pubblico proprio quel concerto:
È bello e giusto ricordare i geni del passato, soprattutto se sono stati ingiustamente trascurati in vita.
Questa settimana – il martedì 2 luglio – c’è stato un altro anniversario importante nel mondo della musica: il compositore austriaco Christoph Willibald Ritter von Gluck «avrebbe compiuto» 310 anni. Ovviamente, non potevo non sfruttare l’occasione per ricordare nella mia rubrica musicale uno dei più grandi compositori della storia.
Come sicuramente sapete, Gluck fu particolarmente attivo nella composizione delle opere liriche. Grazie alla sua grandezza riconosciuta già nel corso della vita, al nome di Gluck è associata la riforma dell’opera seria e della tragedia lirica francese nella seconda metà del XVIII secolo. Le opere di Gluck stesso non sono state ugualmente popolari in tutte le epoche storiche, mentre le sue idee hanno determinato lo sviluppo del teatro dell’opera nel corso del tempo.
In ogni caso, per il post musicale di oggi mi sembrava logico selezionare una opera lirica di Gluck e non una delle sue rare composizioni sinfoniche. Allo stesso tempo, mi sembrava poco pratico postare qualcosa di particolarmente lungo… E allora ho scelto l’opera da un atto «L’arbre enchanté, ou Le tuteur dupé»: una opera comica, il cui libretto si basa su uno dei racconti del «Decamerone» di Boccaccio.
Questa opera fu per la prima volta rappresentata il 3 ottobre 1759 a Vienna, mentre la versione del video è la rappresentazione del 30 agosto 1989 al Teatro Principal della città spagnola di San Sebastián.
La Sinfonia n. 1 in Do maggiore, composta da Georges Bizet appena diciasettenne nell’autunno del 1855, è a volte soprannominata «giovanile». A differenza delle opere realmente giovanili – in generale e non in relazione a Bizet –, l’esistenza di tale sinfonia non fu mai in alcun modo pubblicizzata dall’autore: nemmeno nella corrispondenza privata. Di conseguenza, non fu nemmeno eseguita durante la sua vita. Il manoscritto, in sostanza, fu trovato tra le carte del compositore (che nel frattempo cambiarono più volte il proprietario) solo all’inizio degli anni ’30 del XX secolo. La prima esecuzione pubblica, poi, è avvenuta il 26 febbraio 1935: quasi ottant’anni dopo la composizione e sessanta dopo la morte di Bizet. In quella occasione era stata proclamata un capolavoro giovanile.
Ecco, io spero che si stacchi, prima o poi, la parola «giovanile».
Nelle ultime settimane (o mesi? non mi ricordo più bene) la Georgia è comparsa nei media occidentali per dei motivi tristi e/o stupidi. È iniziato tutto con le vicende legate alla approvazione della prima delle leggi copiate dalla Russia putiniana, mentre ora siamo passati al fatto che la squadra nazionale di Georgia è arrivata per la prima volta nella storia alla fase finale degli Europei di calcio.
Fortunatamente, io posso pareggiare con qualcosa di bello: dedico il post musicale odierno al compositore georgiano Zacharia Paliashvili (1871–1933).
Paliashvili, considerato il più grande rappresentante della musica classica georgiana, è noto prevalentemente per la composizione delle opere liriche e, in una misura minore, per la raccolta e la registrazione delle oltre trecento canzoni popolari georgiane. Le musiche tratte da due sue opere liriche più note – «Daisi» e «Abesalom e Eteri» – sono state utilizzate, nel 2004, per la composizione dell’inno nazionale georgiano.
Qualsiasi opera lirica (non necessariamente una di quelle di Zacharia Paliashvili), anche se molto bella, è solitamente troppo lunga per essere portata in blog (almeno secondo me). Di conseguenza, ho pensato di aggiungere, in qualità del secondo video musicale di oggi, «il meglio di Paliashvili»: così, probabilmente, vi fate una idea generale del compositore…
E io, probabilmente, un giorno tornerò ancora a Zacharia Paliashvili.
Oggi è il 220-esimo anniversario dalla nascita del compositore russo Mikhail Glinka, il quale in varia misura influenzò con il proprio lavoro artistico – nonostante una vita relativamente breve, appena 52 anni – lo stile dei principali compositori russi della seconda metà del XIX secolo e dell’inizio del XX. In sostanza, dal punto di vista cronologico fu il primo dei grandi compositori russi attualmente riconosciuti come tali. Diversamente di quanto succede a molti pionieri, Glinka stesso non è però artisticamente a tanti suoi eredi famosi. Non potevo dunque non dedicargli la puntata odierna della mia rubrica musicale.
Mi era già capitato di postare due esempi delle composizioni sinfoniche di Glinka, dunque per oggi ho provato a selezionare due sue composizioni da camera.
La prima composizione scelta è il «Trio Patetico» per clarinetto, fagotto e pianoforte, composto nel 1832 a Milano (durante il viaggio di Glinka in Italia):
La seconda composizione di Mikhail Glinka scelta per oggi è il «Gran Sestetto per pianoforte e archi», composto sempre nel 1832:
Direi che per questo compleanno possa andare bene.