Più o meno tutte le persone normali da quasi quattro mesi stanno leggendo abbastanza sulla guerra in Ucraina. Molto probabilmente una buona parte di quelle persone si è anche accorta di leggere molto sulle decisioni di Vladimir Putin e poco o niente sulle decisioni dei generali russi.
Ebbene, tale percezione della realtà non è sbagliata. Quindi per questo sabato vi consiglio un buon articolo (e di lunghezza non esagerata) sull’argomento dei rapporti di Putin con i generali russi.
E aggiungo la domanda di fine lettura: ci potrebbe essere il rischio che qualcuno rimanga fortemente insoddisfatto della situazione creatasi?
L’archivio della rubrica «Russia»
Quando il viceministro delle finanze tedesco Jörg Kukis annuncia – nel corso di una conferenza a Sydney – che la Germania smetterà di acquistare il carbone russo dall’1 agosto 2022 e il petrolio russo dal 31 dicembre 2022, fa solo una semplice cosa. Ricorda solo che la Germania rispetterà le sanzioni europee prese nell’ambito dell’acquisto delle materie prime russe. Ma io, purtroppo, continuo a non vedere una tendenza «di massa» tra gli Stati europei verso l’obiettivo prefissato.
Se qualcuno avesse l’impressione che le sanzioni contro la Russia non funzionino, bisogna evidenziare almeno due cosa. La prima è banalissima: le sanzioni economiche tecnicamente non possono funzionare come un interruttore della corrente. La seconda cosa si osserva quasi altrettanto facilmente: a volte sembra che l’adozione e la messa in pratica delle sanzioni sia troppo timidi, ma in realtà tra i Governi europei non si hanno delle idee chiare su come convincere i produttori alternativi (alternativi alla Russia) di produrre e vendere di più.
Fortunatamente, non troppe persone si sono preoccupate dell’avvertimento di Vladimir Putin, secondo il quale «Non abbiamo ancora cominciato». Capisco che qualche persona particolarmente emotiva avrebbe potuto pensare alla presunta constatazione del fatto che Putin non ha ancora cominciato a usare le armi di distruzione di massa o qualcosa del genere… Ma in realtà la situazione è molto più tranquilla: non solo perché vediamo — per fortuna! — che l’esercito russo si confronta a fatica con quello ucraino, ma anche, per esempio, perché potremmo ricordare il messaggio di Putin alle Camere riunite del Parlamento russo pronunciato il 1 marzo 2018. Quel messaggio nel quale per la prima volta si era parlato degli armamenti russi super innovativi e nel corso del quale erano stati mostrati dei cartoni animati sul funzionamento degli armamenti in questione.
Ebbene, vediamo i «risultati» di quel messaggio di oltre quattro mesi fa.
Secondo Putin, i missili «Sarmat» erano all’epoca del discorso in fase di sperimentazione attiva. Ora, a quanto pare, sono in una fase di sperimentazione iperattiva: non sono ancora in servizio regolare.
Il sottomarino autonomo «Poseidon»: il vettore non è ancora pronto, ma è promesso per il 2027.
Il missile a propulsione nucleare «Burevestnik»: nel corso delle sperimentazioni c’è stato un incidente radioattivo, sono morte di diverse persone, la conclusione dei lavori è promessa per il 2025.
Le armi laser: è stato annunciato che il «Peresvet» sarebbe stato realizzato, ma non si sa nulla della sua applicazione pratica.
Il missile supersonico «Zirkon»: i test sono in corso.
Il missile supersonico «Pugnale»: usato una volta. Non ci sono più stati dei tentativi di utilizzarlo.
Il sistema missilistico ipersonico «Avangard»: Putin si è vantato del presunto fatto che con i 27 Mach di tale sistema l’esercito russo sarebbe in vantaggio rispetto a tutti gli altri nell’ipersonico. Non si ha ancora alcuna prova di questa cosa.
Il carro armato «Armata»: si dice che ne siano stati prodotti ben 30 esemplari. Nella realtà che ormai conosciamo quei cari armati sarebbero stati sufficienti per alcuni giorni di operazioni di combattimento. Ma gli «Armata» non sono stati proprio visti in Ucraina. Al loro posto combattono i rottami T-62 prodotti negli anni ’60 e ’70.
Il caccia di quinta generazione: è stato prodotto un solo aereo (sì, 1). Non ha mai raggiunto la zona di difesa aerea, probabilmente perché si ha troppa paura di perderlo…
A questo punto dovrebbe essere evidente a tutti che, effettivamente, Putin e i suoi complici non hanno ancora cominciato: a costruire un esercito temibile. Se poi ripensate a tutto quello che avete letto negli ultimi quattro mesi e mezzo sulla organizzazione dell’attuale esercito russo, vi rasserenate ancora di più.
Dicono che la Germania sta bloccando da oltre un mese un pacchetto da nove miliardi di aiuti destinati dall’UE all’Ucraina. Allo stesso tempo, sembra che la Germania sia intenzionata a restituire alla Gazprom la turbina della Siemens riparata ma bloccata in Canada a causa delle sanzioni.
A questo punto si potrebbe pensare che nell’ottica della guerra in Ucraina il comportamento della Germania, come pure di diversi altri Stati europei, sia abbastanza strano. Più uno Stato è lontano dalle zone dei combattimenti e più è strano il suo comportamento (anche sulla questione della fornitura degli armamenti). È strano anche perché dopo il comprensibile entusiasmo iniziale nell’adottare le sanzioni contro la Russia, l’Europa sta lentamente passando alla necessità di «salvare la faccia» (© Macron) propria e non di Putin: azzerando, appunto, ogni forma di partecipazione politica-economica al conflitto incorso ma continuando a stare dalla parte del bene.
E quindi spero che si trovi almeno il modo di adottare l’idea alternativa (l’ho già sentita da più economisti) che consiste nell’acquistare più risorse naturali possibile dalla Russia, far precipitare i prezzi e applicare una sorta di tassa o dazio su tale prezzo (per esempio il 30%) a beneficio del bilancio ucraino. In tal modo verrebbero raggiunti almeno tre obiettivi:
1) lo Stato russo incasserà molto meno, anche rispetto ai tempi pre-bellici;
2) gli aiuti all’Ucraina non costeranno alcunché ai contribuenti europei;
3) in Europa non ci sarà la crisi del gas e del petrolio.
Tutto questo non aiuta molto a fermare la guerra, ma almeno potrebbe aiutare a raggiungere dei risultati positivi più visibili e immediati.
Ogni volta che vedo arrivare, in un periodo di tempo breve, due notizie così complementari, mi diverto tantissimo.
La prima notizia è molto diplomatica. I ministri degli Esteri del G20 riuniti a Bali hanno rinunciato alla tradizionale foto di gruppo per evitare di comparire sulla stessa immagine con il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Il Ministero degli Esteri russo non ha commentato la notizia. Allo stesso tempo, i rappresentanti degli Stati del G7 presenti a Bali si sono rifiutati di partecipare pure alla cena di benvenuto (tenutasi il 7 luglio) a causa della presenza di Lavrov. Maria Zakharova, la portavoce del Ministero degli Esteri russo, ha dichiarato che Lavrov «non si era accorto della assenza di boicottatori».
La seconda notizia è, invece, molto «umana».
Il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha deciso di lasciare la riunione ministeriale del G20 a Bali prima del previsto: non parteciperà al pranzo ufficiale e alla sessione di lavoro pomeridiana. Ha lasciato la sala della sessione subito dopo il proprio discorso e ha evitato di rispondere alle domande del ministro degli Esteri tedesco Annalena Berbock.
Come potete facilmente notare, la seconda notizia costituisce un bellissimo commento alla prima. Infatti, si vede subito che Lavrov non si era proprio accorto di essere evitato dai rappresentanti di tutti gli Stati più seri, ahahahaha
Beh, tanti anni fa era un diplomatico vero e serio, quindi forse qualcosa capisce ancora…
Mentre in Europa stanno pensando al come liberarsi dalla dipendenza dal gas e dal petrolio russi, alla Gazprom continuano a succedere delle cose strane. Strane e, soprattutto, apparentemente connesse tra loro.
Ieri, il 6 luglio, è stato trovato nella periferia di San Pietroburgo il corpo di Yuri Voronov (61 anni), il capo della compagnia di trasporti Astra Shipping (coinvolta nei contratti artici di Gazprom). Voronov è stato trovato in una piscina, ucciso con un colpo alla testa. Accanto al corpo è stata trovata una pistola «Grand Power», la quale è in realtà una arma traumatica.
Prima, a gennaio, il 60-enne Leonid Shulman, un ex dirigente della «Gazprom Transgaz», si è suicidato in un cottage vicino a San Pietroburgo, lasciando un biglietto d’addio.
Il 25 febbraio Alexander Tyulyakov (61 anni), il vicedirettore generale del Centro unificato per la sicurezza aziendale della Gazprom, è stato trovato morto nello stesso villaggio. In precedenza, aveva ricoperto la carica del vice-direttore generale per la sicurezza aziendale e le risorse umane alla «Gazprom Transgaz San Pietroburgo», che esportava e trasportava carburante in diverse regioni russe. La polizia ha stabilito in via preliminare che l’uomo si è suicidato. Accanto al suo corpo c’era un biglietto con un messaggio.
Il 18 aprile l’ex vice-presidente del Gazprombank Vladislav Avaev, sua figlia e sua moglie sono stati trovati morti a Mosca. I corpi sono stati trovati in un appartamento da una parente che non riusciva a contattare gli Avaev da diversi giorni. Secondo la versione preliminare degli investigatori, Avaev avrebbe sparato alla moglie e alla figlia di 13 anni con una pistola e poi si è ucciso. La polizia è giunta a questa conclusione perché l’arma era nelle mani di Avaev.
Il 21 aprile l’ex top manager della «Novatek» (una azienda con la partecipazione della Gazprom, si occupa della estrazione del gas) Sergey Protosenya, sua moglie e sua figlia sono stati trovati morti in Spagna. I loro corpi sono stati trovati in una casa di Lloret de Mar, nella provincia di Girona. La polizia stava valutando l’ipotesi che Protosenya potesse aver ucciso la moglie e la figlia e poi essersi suicidato.
In un futuro non tanto lontano questa serie delle morti potrebbe esserci spiegata con il tentativo – fatto dagli «ucraini cattivi» – di compromettere l’attività della principale industria russa.
Ma io, in attesa delle spiegazioni più serie (per le quali prevedo delle attese paragonabili alla durata della vita di un noto politico), non posso non osservare una interessante somiglianza. La somiglianza con gli anni ’90, il periodo in cui gli imprenditori russi si eliminavano (fisicamente) a vicenda, pagando la polizia per la non interferenza. Questo è uno dei principali aspetti degli anni ’90 che viene da anni utilizzato dalla propaganda statale russa per illustrare i presunti vantaggi dell’attuale regime.
Il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha scelto bene il momento e ha dichiarato (citando l’economista americano Jeffrey Sachs) che gli USA dovrebbero risarcire i Paesi colpiti dalla pandemia del coronavirus perché le autorità statunitensi potrebbero essere coinvolte nella diffusione del virus. L’accusa si basa sulla ipotesi che il virus della SARS-CoV-2 possa essere stato creato in un laboratorio biologico statunitense. Da anni – sì, ormai da anni – sappiamo che non ci sono prove a sostegno della teoria della origine artificiale del coronavirus.
Come succede quotidianamente in Russia, anche la dichiarazione appena menzionata di Volodin ha solo un semplice obiettivo: pronunciarsi in qualche modo contro gli USA per sottolineare di essere «dalla parte giusta». Di conseguenza, sarebbe una ennesima stronzata non degna di attenzione.
Ma io ne vorrei approfittare per ricordare: con l’inizio della guerra in Ucraina il mondo si è dimenticato abbastanza facilmente il periodo della pandemia e tutte le conseguenze economiche dei vari relativi lockdown. Vedo tantissime persone che attribuiscono la colpa della crisi corrente esclusivamente alla guerra e alle sanzioni contro Putin. Di conseguenza, sottolineo che bisogna fare uno sforzo mentale e ricordarsi di fare una distinzione tra i motivi delle difficoltà economiche attuali. Per esempio: l’inflazione è dovuta prevalentemente alle misure di sostegno delle economie durante la pandemia, mentre l’aumento dei prezzi del gas e del petrolio è invece dovuto alla guerra. Oppure: la carenza del grano in certe zone del mondo è dovuta alla logistica rovinata durante la pandemia e non perché meno del 3% del grano mondiale è bloccato in Ucraina.
Naturalmente, tutto questo non giustifica Vyacheslav Volodin, la guerra i complottisti vari.
Non so se tutti abbiano già letto di una nuova grande vittoria del «tattico geniale» (ahahaha, ormai posso iniziare a pubblicare una serie di post specifici sull’argomento). Questa volta mi riferisco all’uso del gas naturale in qualità di una arma economica contro l’Occidente.
Ebbene, il giugno è stato il primo mese nella storia – praticamente dagli anni ’70 del secolo scorso – in cui l’UE ha importato più gas sotto forma di GNL dagli Stati Uniti che attraverso i gasdotti dalla Russia.
Ma dato che quasi sicuramente ve ne siete già accorti tutti, posso aggiungere qualche altra piccola osservazione utile, anche se non tanto sconosciuta. In sostanza, in questo periodo la Gazprom si sta autocancellando dal mercato europeo. In parte questo fenomeno è dovuto alla volontà di Putin di ricevere i pagamenti in rubli, in parte a causa delle sanzioni occidentali e in parte a causa delle «sanzioni di risposta» russe. Il risultato di tutto questo è molto curioso:
1) gli Stati europei hanno deciso – logicamente – di porre fine alla dipendenza dalle risorse naturali russe, ma si sono rese conto di realizzare tale progetto in pochi mesi: di conseguenza, i prezzi sono cresciuti bruscamente;
2) la Gazprom (tradotto in italiano parlato significa Putin) ha deciso di non sfruttare la situazione: anzi, insiste nel ridimensionare la propria posizione sul mercato europeo per non incassare troppo.
Ed ecco che è arrivato il momento della domanda di fine capitolo: contro chi viene utilizzata la famosa arma economica?
Proviamo a rispondere senza ridere.
Mi era già capitato di scrivere del molto «divertente» trucco del Comune di Mosca: dedicare il pezzo della via in cui si trova l’ambasciata statunitense alla cosiddetta Repubblica Popolare di Donetsk. Il trucco, ovviamente, aveva per l’obiettivo costringere i diplomatici americani a un mezzo-riconoscimento – tramite l’indicazione del nuovo indirizzo sui documenti ufficiali – della entità territoriale affiliata alla Russia.
Ma gli americani hanno dimostrato di avere una buona fantasia e abbastanza senso dello humor. Ora indicano, sui documenti e sul sito ufficiale della ambasciata, non l’indirizzo ma le coordinate:
Respect!
A partire da oggi – il 1 luglio 2022, il 128-esimo giorno della guerra – i russi hanno bisogno del visto per andare in Ucraina. Per ottenere un visto ucraino, i russi possono rivolgersi a uno dei centri visti di VFS Global; i diplomatici ucraini che lavorano nei Paesi terzi esamineranno le domande presentate. Allo stesso tempo, le autorità ucraine hanno precisato che il visto non garantisce l’ingresso nel Paese: la decisione finale spetterà alle guardie di frontiera ucraine. È quindi finito il periodo della libera circolazione tra i due Stati che durava dal 1997.
Ecco: la stranezza della introduzione così tardiva dei visti si aggrava ulteriormente dal fatto che si tratta non di una misura di sicurezza voluta dallo Stato, ma solo della reazione a una petizione creata sul sito ufficiale del Presidente ucraino. Tale petizione è stata creata l’11 febbraio (quasi due settimane prima dell’inizio della guerra) e alla data del 25 maggio ha raccolto 26,7 mila firme (il Presidente ucraino esamina solo le petizioni che abbiano raccolto almeno 25 mila firme). Capisco che a febbraio la petizione in questione era dovuta anche al fatto che è ben nota l’usanza – relativamente recente – delle forze militari russe di inviare i propri soldati sui territori ex-sovietici con dei mezzi pubblici e «mascherati» da civili. Ma è comunque strano rendersi conto del fatto che tra l’Ucraina e la Russia esistano ancora dei rapporti turistici, fino a ieri così stretti (per non parlare di quelli commerciali, ancora non interrotti).
Comunque, è solo una questione di tempo: il 19 giugno, per esempio, il Parlamento ucraino aveva già vietato l’import e la riproduzione in pubblico delle opere culturali create dagli autori russi che non abbiano condannato pubblicamente la guerra in corso.
Nelle ultime settimane mi è capitato di sentire alcuni esperti secondo i quali la priorità di Putin sarebbe quella di «riunificare» la parte più slava e «russificata» dell’ex URSS. Indipendentemente dal fatto che sia una tesi realistica o meno, Putin sta per ora raggiungendo dei grandi risultati di segno opposto.