Nella recente intervista a The Times l’ex premer britannico Boris Johnson ha definito come «total nonsense» e «Russian propaganda» le voci secondo le quali sarebbe stato egli a far saltare, nella primavera del 2022, le «trattative di pace» tra l’Ucraina e la Russia. Almeno in questo caso possiamo essere certi al 101% che Johnson dice la perfetta verità. Possiamo esserne certi per due motivi: uno logico e uno storico.
Il motivo logico per il quale possiamo credere a Johnson consiste nel fatto che all’epoca della propria permanenza alla carica del premier è sempre stato uno dei sostenitori più attivi e coerenti della Ucraina. Non poteva certo dare tutto quell’aiuto militare, diplomatico e morale e, allo stesso tempo, non capire quali fossero le reali intenzioni dello Stato russo. Non poteva non capire che almeno da parte russa non c’era in corso alcuna «trattativa di pace»: era appena stata fallita la missione iniziale di «conquistare Kiev in tre giorni», ma non c’era l’intenzione di accontentarsi di alcune zone dell’est ucraino. Prima o poi gli accordi sarebbero stati violati da Putin e la guerra sarebbe ripartita.
A quanto appena detto si collega il motivo storico per il quale possiamo credere a Boris Johnson: alle famose «trattative» la parte russa era rappresentata solamente da personaggi che non avevano alcun potere decisionale e/o peso rilevante nella struttura del regime putiniano. Le figure più note e «rilevanti» erano, infatti, l’ex ministro della cultura Vladimir Medinsky (un personaggio un po’ particolare, finge di essere uno storico senza esserlo e dichiara che la storia va scritta sulla base delle necessità dello Stato: viene regolarmente sfruttato per questa sua caratteristica) e il ben noto a voi Roman Abramovich (il cui ruolo è rimasto totalmente sconosciuto: non c’entra alcunché con la direzione dello Stato russo). Insomma, «il Cremlino» aveva affidato le trattative alle persone le cui firme, promesse, dichiarazioni e quant’altro valeva più o mento quanto la carta igienica sporca: in qualsiasi momento si poteva disdire tutto perché «creduloni ucraini, vi siete messi d’accordo con la gente che non decide nulla».
Di conseguenza, Boris Johnson non poteva far saltare una trattativa che nessuna delle parti aveva l’obiettivo di realizzare (l’Ucraina non ha mai avuto l’obiettivo di arrendersi di lasciare alla Russia i propri territori).
È bello quando i politici (almeno quelli quasi-ex) dicono la perfetta verità.
L’archivio della rubrica «Russia»
The Financial Times scrive che la Commissione europea, reagendo alle lamentele di alcuni giornalisti bielorussi di opposizione, ha invitato Google, Meta e altre grandi aziende tecnologiche ad aiutare i media indipendenti di Bielorussia e Russia promuovendo le loro storie nei feed di notizie e negli aggregatori più in alto rispetto alle pubblicazioni filogovernative.
L’idea potrebbe anche sembrare (almeno a me) utile e interessante, ma non so quanto sia realizzabile dal punto di vista pratico. Conosco molte persone, soprattutto tra gli oppositori russi fuggiti all’estero per motivi politici, capaci di stilare una lista molto ampia e rappresentativa dei media «giusti»: quelli indipendenti dallo Stato dal punto di vista formale e non-filogovernativi nei contenuti. Ma non so se ci sarà la possibilità di tenere aggiornata quella lista. Infatti, sul mercato dei media di lingua russa a volte nascono dei progetti nuovi oppure, al contrario, quelli esistenti vengono a volte banditi dallo Stato con delle accuse del tutto inventate e private dei marchi a favore dei media vicini allo Stato.
I miei dubbi, poi, vengono rafforzai dal fatto che, per esempio, su Facebook (appartenente alla Meta) i moderatori dei contenuti in lingua russa si sono sempre comportati in modo strano: usano bannare, senza entrare nei dettagli, i singoli utenti per i contenuti contrari alla politica statale russa reagendo alle segnalazioni infondate degli agenti filogovernativi. Il fenomeno potrà verificarsi anche a danni dei media non governativi?
L’idea, comunque, è giusta: bisogna iniziare a promuoverla e realizzarla in qualche modo.
È accaduta una cosa stranissima. Ho alzato lo sguardo e ho visto il soffitto: sono rimasto molto sorpreso e quasi scioccato da questo fatto…
Anzi, non è quello che volvo scrivere. Volvo scrivere che questo sabato vi propongo una lettura che può essere interpretata come la testimonianza di una forma di pazzia oppure come un testo in un certo divertente. Vi segnalo l’articolo nel quale sono raccolte alcune reazioni degli abitanti della città russa di Belgorod (si trova a 40 km dal confine ufficiale della Ucraina) al fatto che la guerra abbia iniziato a piovere pure sulle loro teste.
Capisco che l’esercito ucraino non ha la voglia e/o le munizioni per attaccare a caso o colpire gli obiettivi civili. Immagino anche che gli attacchi del territorio russo siano iniziati su autorizzazione della parte statunitense (che prima era esplicitamente contraria). Ma tutto questo verrà analizzato più avanti. Ora mi «diverto» a osservare le reazioni delle persone.
Proverei iniziare il nuovo anno con una barzelletta politica…
Ieri, il 1 gennaio, Vladimir Putin ha fatto visita in un ospedale militare vicino a Mosca per fare gli auguri di buon anno nuovo alle – come si dichiara ufficialmente – persone rimaste ferite nella guerra che lui ha iniziato in Ucraina. E, tra le altre cose, ha commentato l’attacco ucraino alla città russa di Belgorod del venerdì 29 dicembre:
Quello che è successo a Belgorod è senza dubbio un atto terroristico. Perché sotto la copertura di due razzi, hanno usato lanciarazzi multipli, MLRS. Come militari, sapete cosa sono gli MLRS. Sono armi indiscriminate che colpiscono le aree. E hanno usato queste armi per colpire il centro della città. Un attacco mirato alla popolazione civile
E poi ha aggiunto che l’esercito russo «risponde» agli attacchi del genere colpendo esclusivamente obiettivi militari…
Loro [gli ucraini] vogliono intimidirci e creare insicurezza nel Paese. Intensificheremo i nostri attacchi. Nessun crimine contro i civili resterà impunito
Ah, no: quello che ho appena descritto è successo veramente. Non so se funziona bene come una barzelletta, anche se politica.
A quale argomento potrei dedicare l’ultima «lettura del sabato» segnalata ai visitatori? Per esempio, potrei dedicarla all’arte, più precisamente alla poesia…
Il giovedì 28 dicembre a Mosca i poeti Artem Kamardin e Yegor Shtovba sono stati condannati, rispettivamente, a 7 e a 6,5 anni di reclusione perché giudicati colpevoli di «incitamento di gruppo all’odio» nei confronti dei membri delle formazioni armate delle autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk, nonché di invito ad attività contro la sicurezza dello Stato. I reati sarebbero stati commessi il 25 settembre 2022 in una delle piazze centrali di Mosca, un luogo tradizionale delle letture pubbliche delle poesie da parte dei poeti dissidenti.
È da qualche decennio che i poeti russi non vengono condannati per le poesie, quindi non potevo assolutamente farvi ignorare questo raro evento. E pubblico il link ai testi dei discorsi che hanno pronunciato i due poeti condannati nel corso dell’ultima udienza in tribunale (quella che precede la pronuncia del verdetto). Non sono dei discorsi lunghi.
Il quotidiano finanziario giapponese Nikkei scrive, basandosi sulle fonti proprie, che nel marzo 2023, durante la visita di Xi Jinping a Mosca, Vladimir Putin ha detto al Capo di Stato cinese che la Russia intende continuare la guerra in Ucraina per almeno cinque anni. Sulla base di queste parole, il Nikkei conclude che «non si dovrebbe dare valore» ai segnali di Putin, trasmessi attraverso i canali diplomatici, sulla disponibilità a negoziare un cessate il fuoco.
Ebbene, noi (a differenza del Nikkei) sappiamo da tempo che Putin parla della guerra come di una nuova realtà permanente, non come di un evento che può avere una fine almeno all’orizzonte. Di conseguenza, sarebbe molto interessante sapere perché Putin abbia deciso di scegliere, per i «partner cinesi», proprio la cifra 5 e non qualsiasi altro numero. Un tale lasso di tempo si adatta alla sua idea di pianificazione a lungo termine? Per esempio: cari fornitori cinesi di qualsiasi cosa di questo mondo, guardate per quanti anni siamo generosamente disposti a dare il nostro intero mercato nazionale solo a voi?
Non sono sicurissimo che Xi Jinping possa essere felice di una simile promessa: i buoni rapporti con il resto del mondo sono chiaramente per lui più importanti dei cinque anni di piena «fedeltà» della povera e sottoposta alle sanzioni Russia.
Dopo quasi due anni di guerra l’alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrel ha finalmente iniziato a capire qualcosa e ha dichiarato, in una intervista a The Guardian:
Putin cannot be satisfied with a piece of Ukraine and to let the rest of Ukraine belong to the European Union, but he cannot be satisfied with a limited territorial victory. He will not give up the war, especially not before the American election, which may present him with a much more favourable scenario. So we must prepare for a conflict of high intensity for a long time.
Si vede che l’impegno di alcuni politici d’opposizione russi esiliati ha iniziato a produrre i suoi primi risultati positivi… Ma ci sono ancora delle cose da spiegare qualche migliaio di volte. Infatti, nella stessa intervista Borrel dice:
Putin has decided to continue the war until the final victory.
Il problema che nel corso di tutti i propri discorsi pubblici Putin — ma anche i suoi complici più o meno stretti — ha di fatto mostrato tre cose:
1) gli obbiettivi dello Stato russo nella guerra in Ucraina mutano nel corso del tempo (resistono solo la «denazificazione» e la «demilitarizzazione» della Ucraina);
2) non è mai stato definito il concetto della vittoria (la «denazificazione» e la «demilitarizzazione» della Ucraina non possono essere dei sinonimi della vittoria perché, se ci pensate bene, sono due fenomeni non misurabili);
3) da quanto la conquista di Kiev in pochi giorni è diventata un obbiettivo irraggiungibile, parla della guerra come di una condizione di vita permanente.
Di conseguenza, Putin non continuerà la guerra fino alla vittoria. Continuerà la guerra fino alla fine. Bisogna solo vedere se fino alla fine della vita propria, della Russia, dell’Occidente o del pianeta. L’opzione destinata a realizzarsi dipende anche dall’impegno di Borrel.
Prima delle festività di qualsiasi genere il mondo non diventa più buono, dunque nemmeno l’articolo che segnalo questo sabato è tanto «festivo». E, sicuramente, non è natalizio: parla dei numerosi immigrati russi che sono scappati dal rischio di essere mandati in guerra e dalla generale politica putiniana in Serbia, ma si sono trovati di fronte a delle nuove forme di repressione e di caccia. Repressione da parte delle autorità e dei cittadini locali e caccia da parte dei servizi russi.
Un lettore europeo medio potrebbe chiedere: ma perché hanno scelto proprio la Serbia? La risposta includerebbe diversi fattori: alcune somiglianze culturali, una certa facilità nell’ottenere e rinnovare i documenti per il soggiorno, la presenza delle filiali di alcune aziende russe (dunque, molte persone non hanno dovuto inventare dei nuovi modi di lavorare anche in presenza). Insomma, per tante persone era molto più facile andare in Serbia che in qualche Stato dell’UE.
Io, invece, mi chiedo: perché le autorità serbe non sono state abbastanza furbe per sfruttare la situazione creatasi e guadagnare con l’ingresso di tanti «cervelli» e la loro capacità di creare nuova ricchezza. Il regime putiniano che cerca di essere amico con i «fratelli slavi» non è eterno, mentre i vantaggi economici e politici avrebbero potuto essere a un termine molto più lungo.
La redazione del programma televisivo olandese EenVandaag scrive che Igor Salikov, l’ex istruttore della PMC Wagner e uno dei comandanti della PMC Redut (controllata dal Ministero della «Difesa» russo), è arrivato nei Paesi Bassi e si è detto pronto a rilasciare una dichiarazione alla Corte penale internazionale sui crimini di guerra della Russia. In base alle sue dichiarazioni, Salikov avrebbe preso parte ai combattimenti nell’est dell’Ucraina negli anni 2014–2015. Ai giornalisti dell’EenVandaag Salikov ha raccontato che, quando era nell’esercito si è rifiutato di eseguire un ordine di uccidere dei civili, dopo di che è stato deferito alla corte marziale ma è riuscito a fuggire dalla Russia.
Ovviamente, in questo momento non posso dire se il personaggio stia raccontando la verità e, nel caso di una risposta positiva, non so se possa anche provare le proprie dichiarazioni. Ma posso dire che si tratta di una grande occasione per la Corte penale internazionale e per l’Europa in generale. Infatti, hanno avuto la prima possibilità di dimostrare pubblicamente che ogni militare o militante russo può contare sulla protezione e sulla non-sottoposizione alle sanzioni occidentali in cambio delle informazioni utili (ovviamente veritiere e documentate) sulle azioni dell’esercito russo sul territorio ucraino. Dimostrandolo, riusciranno a incentivare anche le altre persone a lasciare la parte del male: meglio tardi che mai.
In questo modo potremmo sperare di avvicinare almeno per un po’ la sconfitta dell’esercito putiniano.
L’Agenzia ucraina per la prevenzione della corruzione ha annunciato la sospensione della inclusione della Raiffeisen Bank dalla lista degli «sponsor internazionali della guerra» (tale banca è oggi l’unica occidentale a continuare a operare, con delle notevoli limitazioni autoimposte, in Russia). In risposta, secondo le fonti di Reuters, le autorità austriache hanno accettato di approvare il dodicesimo pacchetto delle sanzioni contro la Russia.
A un lettore occidentale non particolarmente informato dei dettagli questo evento potrebbe sembrare puramente tecnico, puramente politico o puramente mercantile. Ma in realtà è infinitamente più importante per la vita quotidiana di molti russi contrari alla guerra e, in una certa misura, per l’andamento della guerra. Infatti, il Governo austriaco – non importa se volontariamente e/o consapevolmente o meno – ha lasciato ai russi in fuga dal regime putiniano quella ultima possibilità di portarsi via anche i propri soldi che ancora avevano. Il trasferimento dei soldi verso l’Occidente attraverso la Raiffeisen Bank è una possibilità abbastanza scomoda e costosa (le commissioni e le somme minime trasferibili sono alte), ma ancora in qualche modo funzionante. Permette di non lasciare le proprie finanze nel sistema interno russo e di garantirsi qualche periodo di stabilità economica nello Stato verso il quale si intende scappare.
Il togliere a Putin i soldi e le persone più attive e capaci dovrebbe essere il vero obbiettivo delle sanzioni occidentali. Di fatto, l’Austria, con la sua insistenza, ha contribuito un po’ al raggiungimento di questo obbiettivo. Da persone educate e da tifosi della Ucraina, dobbiamo ringraziare.