Una delle letture migliori che possano essere fatte in questo finesettimana è sicuramente quella sui vincitori dell’Ig Nobel Prize 2020.
(Ricordo che si tratta di un premio «scientifico» per le ricerche e le scoperte più assurde o divertenti dell’anno.)
Non so se quest’anno il premio migliore sia quello per il management (ai killer cinesi in subappalto) oppure quello per la pace (ai diplomatici indiani e pakistani che reciprocamente bussavano alla porta di notte).
Ma in ogni caso sono felice per il fatto che pure quest’anno diverse persone hanno trovato le forze morali e mentali per ridere o per svolgere la ricerca scientifica seria.
L’archivio della rubrica «Nel mondo»
È abbastanza strano che i media di tutto il mondo abbiano dato tanta importanza al primo problema reso noto nella sperimentazione del vaccino contro il Covid-19.
I problemi imprevisti e gli ipotetici problemi costituiscono una parte inalienabile di una qualsiasi ricerca. Anzi, direi che in una certa misura sono uno degli obiettivi della ricerca. Perché in assenza della possibilità di un errore non ci sarebbe alcun bisogno della ricerca: ci sarebbe già tutto chiaro in partenza, avremmo potuto risolvere ogni genere di problema già al momento della sua prima manifestazione.
Quindi dalla notizia di oggi sul vaccino di AstraZeneca dobbiamo trarre solo tre semplicissimi concetti:
1. È successa una cosa normalissima e quotidiana.
2. Un vaccino completamente nuovo non si fa in poco tempo.
3. Sperare nella ricerca scientifica è giusto, ma nel frattempo rimaniamo pure ragionevolmente vigili sui comportamenti personali quotidiani.
Siate sereni.
Oggi, finalmente, possiamo parlare di alcuni buoni segnali provenienti dal fronte covidico. Pare che all’OMS abbiano finalmente iniziato a capire qualcosa:
One of the World Health Organization’s six special envoys on Covid-19 has highlighted Sweden’s virus response as a model that other countries should be emulating in the long run.
In sostanza, stiamo andando verso il riconoscimento del fatto che il clima di panico permanente, l’adozione delle limitazioni ridicole e lo sconvolgimento totale del ritmo abituale di vita delle persone non producono alcun affetto positivo ai fini della lotta contro il coronavirus. Anzi, la creazione artificiale delle «ondate» del virus potrebbe essere paragonata a una amputazione di un arto a piccoli pezzi per fare «meno male» al paziente. Ma i difetti di tale comportamento si vedono abbastanza facilmente anche dai dati statistici (certo, i numeri vanno poi analizzati assieme al contesto nel quale sono stati ottenuti, ma ora ci interessa la portata del problema).
Proviamo, per esempio, a confrontare la situazione in tre Stati. In qualità del primo esempio prendiamo la Spagna, quindi lo Stato europeo con il lockdown probabilmente più severo del continente:
In qualità del secondo esempio prendiamo l’Italia che ha avuto un lockdown meno pesante (agli italiani potrebbe sembrare impossibile, ma è vero) ma in molti aspetti simile:
E, infine, in qualità del terzo esempio prendiamo la tanto criticata precedentemente Svezia:
A questo punto devo constatare che in Italia — dove tra meno di due settimane riaprono le scuole e poi, progressivamente, anche alcune altre cose — diverse persone devono ora pregare poiché nessuno decida di organizzarsi in massa per chiedere i danni per quei due mesi di interruzione della vita. O almeno di fare delle domande molto scomode.
P.S.: tutti i grafici sono stati presi dal sito worldometers.info
Possiamo immaginare una infinità di principi in base ai quali calcolare i propri spostamenti ottimali all’interno di una città.
Alcuni principi sono universali perché possono essere applicati in qualsiasi momento: per esempio, il principio della strada più breve.
Alcuni principi sono stagionali: per esempio, d’estate conviene scegliere le vie con tanta ombra, mentre durante un autunno piovoso le vie con tanti portici.
Alcuni principi sono situazionali: per esempio, se si è rotta una scarpa conviene evitare i ciottoli e scegliere le vie con una pavimentazione più regolare (chiamare il taxi non vale ahahaha).
E poi esistono i principi medico-sanitari: per esempio, se nel mondo è diffuso un virus molto temuto conviene tracciare il proprio percorso lungo le vie dove sono esposti i contenitori con il disinfettante per le mani. Se ci prestate una minima attenzione, notate facilmente che molto spesso quei contenitori sono esposti fuori e non dentro ai luoghi pubblici: bar, ristoranti, negozi etc. osservando bene le zone da voi più frequentate, saprete dunque raggiungere velocemente il disinfettante più vicino in caso di necessità. E, spesso, programmerete i vostri spostamenti a piedi in base alla accessibilità di quelle bottigliette magiche!
Di solito le persone incapaci di produrre o almeno comprendere gli scherzi sembrano solo un po’ stupide. A volte sono pure fortemente spaventate dalla vita circostante… Ci sarà una connessione tra la paura e l’intelligenza? Boh… Io, intanto, racconto una breve storia sull’argomento.
Questo è il logo della catena dei negozi alimentari russi «Красное&Белое» («Krasnoe&Beloe», traducibile come «Rosso&Bianco»), che inizialmente si specializzava quasi esclusivamente nel commercio degli alcolici:
Questa, invece, è la bandiera adottata dalla parte (maggiore) della popolazione bielorussa che da oltre due settimane sta protestando contro la «vittoria» di Aleksander Lukashenko alle elezioni presidenziali del 9 agosto 2020 (era stata la bandiera ufficiale della Bielorussia indipendente dal 19 settembre 1991 al 7 giugno 1995):
Ieri, il 25 agosto, un sito satirico russo (specializzato nella pubblicazione delle fake news palesemente assurde) ha pubblicato un articolo sulla catena dei negozi di cui sopra. A quanto risulta dall’articolo, il fondatore/proprietario della azienda avrebbe «ringraziato i protestanti bielorussi per la pubblicità dei suoi negozi». Avrebbe anche dichiarato che «sarebbe felicissimo se la bandiera della sua azienda diventasse la bandiera ufficiale della Bielorussia». Infine, avrebbe promesso al popolo bielorusso «un camion di alcolici e tanti sconti».
Insomma, si è trattato di uno scherzo di media qualità, per nulla offensivo. Stamattina, però, alla redazione del sito satirico è giunta una mail minacciosa proveniente dal reparto delle pubbliche relazioni della catena dei negozi. Nella mail si parlava dei «danni reputazionali» e si minacciava una causa legale nel caso della mancata rimozione dell’articolo dal sito.
È abbastanza evidente che le aziende grandi hanno sempre paura di esprimersi pubblicamente sui conflitti politici riguardanti i loro mercati di interesse. La paura aumenta quando non si ha la certezza sulla posizione del proprio Stato (in questo caso altrettanto poco rispettoso dei diritti di proprietà). Ma i danni reputazionali, per fortuna o purtroppo, sono costituiti dalla reazione della gente comune, quindi dei clienti attuali e potenziali. La paura, però, opprime la ragione. Non permette di capire che — e come — ogni scherzo altrui può essere rivolto a proprio favore: per esempio, con uno scherzo analogo.
Sì, si potrebbe fare un grafico su cui segnare, attraverso dei punti, la distanza di ogni persona da tre punti cardinali: l’intelligenza, l’umorismo e la paura.
Come ben sa il 99,99% dei miei lettori, nella confezione di ogni mobile venduto dall’IKEA è contenuta almeno una chiave a brugola per il montaggio del mobile stesso.
Ebbene, secondo me è possibile svolgere una importante indagine di mercato: quante decine di brugole dell’IKEA sono attualmente a disposizione di una famiglia media italiana e/o europea? Quante di quelle brugole dell’IKEA sono state utilizzate in più di una occasione? E se tutte le brugole conservate nelle case dei comuni cittadini venissero raccolte, quante tonnellate di metallo si sarebbero recuperate?
In realtà potrei fare anche una proposta seria: ormai si potrebbe non mettere più le brugole nelle scatole, ma regalarle alla cassa solo agli acquirenti che ne hanno un reale bisogno. Sarebbe un grandissimo risparmio per l’azienda e per l’ambiente. Anzi, per l’azienda potrebbe essere anche un guadagno in immagine.
Io, intanto, devo constatare che, per esempio, nelle confezioni dell’IKEA non vengono inclusi i cacciaviti: probabilmente perché si presume che li abbiano tutti. Lo stesso principio potrebbe essere applicato agli strumenti regalati a tutti per decenni.
Ormai da mesi nei vari negozi online è disponibile una vasta scelta delle mascherine in tessuto con dei disegni più o meno interessanti. Ogni persona può dunque trovare qualcosa di accettabile o addirittura bello per i propri gusti. Indipendentemente dalla presenza o meno di un disegno, i prognostici sui mesi futuri non ci fanno dubitare troppo sulla opportunità dell’eventuale acquisto. E, infatti, la gente compra…
Di conseguenza, mi chiedo: perché nessuna grande azienda ha ancora iniziato a distribuire anche gratuitamente – per esempio, per strada o nei propri negozi – le mascherine con la propria pubblicità stampata sopra? I costi economici di una campagna pubblicitaria del genere non dovrebbero essere particolarmente alti, mentre assieme a una infinità di agenti pubblicitari vaganti si rischia anche di migliorare la propria immagine.
Qualcuno poteva avere letto, ieri, dell’annuncio di Putin: la Russia ha registrato il primo vaccino al mondo contro il Covid-19. Penso che sia evidente più o meno a tutte le persone mentalmente sane: si tratta solo di una auto-pubblicità politica, di un tentativo di mostrare la propria superiorità sull’Occidente ostile in un argomento molto risentito. Le persone poco informate della attuale stilistica politica russa lo possono capire almeno dalle tempistiche e dalla segretezza totale (sottolineata più volte dalla comunità scientifica mondiale) che hanno accompagnato la «creazione» del «vaccino» russo.
Evito le valutazioni del gesto di Putin.
Trovo invece molto più interessante e utile sottolineare alcuni principi universali che debbano essere necessariamente chiari più o meno a tutti gli umani mentalmente sani.
Prima di tutto bisogna ricordare che la creazione di un nuovo vaccino sicuro, efficace e accessibile a larghe fasce di popolazione richiede anni. Ripeto: anni. Non so da dove saltino fuori le leggende del tipo «il primo vaccino entro la fine del 2020» o «tra un anno». I medici con i quali mi capitato di parlare e gli scienziati i cui articoli mi è capitato di leggere negli ultimi mesi sostengono che nel migliore dei casi ci vorrebbero 5 anni. Con tantissima fortuna si potrebbe farcela anche in 3 anni, ma sembra poco realistico. Non penso che sia necessario rispiegare i motivi già ben noti a tutti: oltre alla ricerca della formula del vaccino, è necessario svolgere anche dei lunghi test e poi trovare il modo di produrre velocemente tanti dosi a un costo ragionevole.
In secondo luogo, potremmo chiederci se, considerati i tempi di cui sopra, il vaccino contro il Covid-19 sia realmente necessario. La risposta è affermativa. Perché? Perché tra 3 o 5 anni il Covid-19 – lo dobbiamo almeno sperare – non ci sarà più per dei motivi naturali, ma la base scientifica acquisita grazie alla ricerca del vaccino sarà molto utile alla umanità intera.
In terzo luogo, dobbiamo necessariamente diffidare di ogni vaccino creato in pochi mesi o anni. Infatti, nel peggiore dei casi un vaccino non testato attentamente può danneggiare la salute della persona. E nel migliore dei casi non farà alcun effetto medico, ma darà alla persona la pericolosa illusione della protezione dal coronavirus. La seconda opzione, al giorno d’oggi, speso vale anche per i guanti e le semplici mascherine. A questo punto, molto probabilmente, mi conviene sottolineare: io non sono un anivaccinista e non lo sono mai stato.
In quarto luogo, ricordiamoci di una cosa banalissima ma sempre vera: il vaccino non è una cura. Quindi è utile solo se fornita alla persona ancora sana ma desiderosa di prevenire la malattia. Alle persone già affette dal coronavirus servirebbero altri farmaci.
A questo punto dovrei scrivere una specie di conclusione, una frase risolutiva. Ma io non ce l’ho quella frase.
Quindi, semplicemente, vi invito a non dare troppa attenzione né alla gente isterica né agli ottimisti spensierati. La serenità ci aiuterà a superare tutte le prove.
Probabilmente lo avete già letto o sentito da qualche parte: domenica si sono concluse le elezioni di Lukashenko presidenziali in Bielorussia. Seguendo il recente e «fortunato» esempio russo, la votazione popolare era durata più giorni (in questo caso tre), permettendo dunque di profanare tutte le regole volte a garantire la corrispondenza tra il contenuto delle urne e il reale utilizzo delle schede da parte degli elettori. Questa, però, è stata l’unica somiglianza evidente con le elezioni russe.
In generale, devo constatare che le elezioni presidenziali bielorusse ormai da due decenni è un fenomeno stranissimo. Da una parte, Aleksander Lukashenko meriterebbe non solo il titolo dell’"ultimo dittatore d’Europa«, ma anche del dittatore in un certo senso più massimalista. Se mi dovesse capitare, un giorno, di diventare un dittatore di un qualsiasi Stato, continente, arcipelago o Pianeta (mai dire mai), io avrei adottato un metodo semplicissimo per vincere le ennesime elezioni: avrei fatto contare i voti in modo «giusto». Forse perché ultimamente sono diventato troppo pigro e quindi amo raggiungere il risultato con meno mosse possibile. Lukashenko, invece, non è per nulla pigro. Ogni volta inizia la propria strada verso una nuova vittoria elettorale con alcune mosse preventive: pima di tutto, elimina tutti i candidati di opposizione più popolari. In alcuni casi li fa eliminare fisicamente, in alcuni altri li elimina attraverso l’arresto per qualche crimine palesemente inventato e la negazione della registrazione in qualità del candidato ufficiale per qualche motivo diverso dal presunto crimine. Sì, avete capito bene: l’arresto e la non-registrazione vengono utilizzati in contemporanea: probabilmente, «per sicurezza». No, in Russia si agisce in un modo un po’ diverso: solitamente i candidati di opposizione non vengono ammessi alle elezioni per dei motivi palesemente ridicoli, ma almeno formalmente legali (molto, molto in fondo).
Dall’altra parte, le elezioni presidenziali bielorusse sono strane perché ogni volta tra i candidati di opposizione troviamo qualche personaggio che fino a pochi mesi – o addirittura settimane – fa era un alto funzionario statale perfettamente integrato nel sistema di potere creato e coltivato da Lukashenko. È incredibile, ma ogni volta si trova dunque un nuovo tonto presuntuoso convinto di poter evitare la sorte di altri oppositori in generale e dei propri predecessori-candidati in particolare. Ma anche a un osservatore estraneo minimamente attento è chiaro che Lukashenko non tollera due cose: l’opposizione e il «tradimento» politico.
Altrettanto chiaro è anche un altro principio: le dittature non possono cadere in seguito a una sconfitta elettorale. Lo devono capire gli oppositori (sebbene la partecipazione alle elezioni sia l’obbligo professionale di ogni politico), come lo devono capire anche i dittatori. A questo punto non è molto chiaro che senso possa avere infastidire la gente due volte (non registrando i candidati e alterando i risultati della votazione) se si può farlo solo una volta? La forza della protesta popolare è un vaso in fase di riempimento e non un torrente già esistente da dividere in ruscelli. In ogni caso, la situazione attuale è quella che è. La Bielorussia è uno Stato con un alto livello delle repressioni. L’assenza della pluralità politica (ma anche, per esempio, dei media) è il «merito» di Lukashenko e non un difetto della società.
Secondo i dati ufficiali, Lukashenko (al potere dal 1994) avrebbe preso più dell’80% dei voti e la candidata arrivata seconda (Svjatlana Cichanoŭskaja, una casalinga senza alcuna esperienza della attività pubblica, la moglie di un candidato-oppositore arrestato) avrebbe preso poco meno del 10%. Secondo le indagini socio-politiche, invece, i due risultati reali sarebbero dell’8% per Lukashenko e del 70% per Cichanoŭskaja. La percentuale reale della candidata di opposizione, chiaramente, non è il suo risultato politico personale, ma la reazione popolare ai 26 anni della presidenza di Lukashenko. Pure le manifestazioni di protesta verificatesi a Minsk la sera e la notte dopo le elezioni non erano dunque a sostegno di Cichanoŭskaja: ella ha sempre dichiarato che il suo unico programma presidenziale è quello di organizzare le elezioni presidenziali libere in sei mesi dalla entrata in carica.
Nonostante la breve durata della protesta e la sua soppressione abbastanza forte, non penso che sia già tutto finito. Perché non ho mai visto i bielorussi deridere così apertamente Lukahenko. E non ho mai visto lo stesso Lukashenko così palesemente nevoso: probabilmente si rende conto che ora la sua permanenza al potere dipende solo dalla fedeltà dei militari e delle forze dell’ordine.
Ecco, si dimentica che nella storia queste due entità sono sempre state le prime ad abbandonare i dittatori esauriti.
Di conseguenza, ritengo che la storia mi stia offrendo la possibilità di rinviare la pubblicazione della seconda parte del testo a tempi non molto lontani.
Chi conosce la chimica meglio di me (non ci vuole molto), sostiene che il nitrato d’ammonio per esplodere in questo modo deve essere «accompagnato» da alcune altre sostanze. Almeno dal punto di vista teorico è una tesi facilmente verificabile dalle persone realmente interessate. Molto più difficile da verificare sono, per una semplice persona estranea, le condizioni nelle quali erano conservate quelle quasi tre mila tonnellate di nitrato d’ammonio.
Ma la versione iniziale sulla esplosione di un deposito dei fuochi d’artificio era già da subito credibile quanto alcuni racconti annuali sui «festeggiamenti pericolosi scongiurati» del Capodanno a Napoli.
Utilizzo il presente post prevalentemente per salvare la ripresa della esplosione da varie angolature: