L’archivio della rubrica «Nel mondo»

Il paradosso elettorale

Cosa è comparso prima: l’uovo o la gallina?
Cosa si forma prima: l’opinione pubblica o il giudizio dei mass media importanti?
La reazione alle elezioni presidenziali statunitensi di quest’anno possono essere commentate anche con almeno una di queste due domande. Infatti, in questi giorni possiamo vedere che Donald Trump ha  rotto i coglioni  stufato talmente tanto alla gente in giro per il mondo che tutti si sono messi a festeggiare la vittoria di Joe Biden ancor prima che quest’ultimo venisse eletto.
Non voglio apparire uno che ci spera ancora: Trump mi è più antipatico di Biden. Però ricordo che dobbiamo essere onesti: prendere la maggioranza dei voti popolari tecnicamente non significa vincere le elezioni presidenziali americane. Non lo è neanche essere proclamato vincitore dai mass media. Nemmeno quando è stata teoricamente «raccolta» la maggioranza dei grandi elettori. Per esempio, perché i grandi elettori che votano per un candidato diverso da quello per il quale hanno ricevuto il mandato di votare (quindi i cosiddetti faithless electors) capitano a quasi tutte le elezioni. Solitamente questi «elettori infedeli» sono pochi e non influiscono quindi sul risultato finale, ma capitano.
Non so se e quanti faithless electors si manifesteranno questa volta. Ma se Donald Trump avesse raccolto la maggioranza dei voti popolari, proprio grazie a quei «infedeli» avremmo avuto l’occasione di vedere la sua reale popolarità all’interno del partito. Invece ora non saprei; bisogna osservare bene.

Comunque, per prendere meno voti di un candidato anziano (in tutti i sensi) e noioso che di fatto non ha condotto una campagna elettorale bisognava impegnarsi veramente tanto.


Studiare le elezioni americane

Come avete probabilmente già letto negli ultimi giorni, Donald Trump si sta lamentando di molti aspetti tecnici delle elezioni presidenziali 2020. Sicuramente non smetterà di farlo per un certo tempo ancora.
Noi, invece, da osservatori estranei possiamo non limitarci al contemplare il suo attaccamento al potere e studiare un po’ meglio anche la storia delle elezioni statunitensi. Per esempio, potremmo iniziare dallo studio di questo database delle frodi elettorali americane dal 1979 ad oggi. Sì, i casi esistono, ma sono pochissimi e, soprattutto, hanno tutti avuto delle loro conseguenze legali.


Qualcosa di positivo

Nei giorni delle notizie riguardanti quasi esclusivamente tre argomenti, tutti un po’ deprimenti (Covid, Trump e terrorismo), è bello leggere che almeno da qualche parte del mondo l’ignoranza ha iniziato a retrocedere. In seguito alle proteste popolari, il Governo polacco ha rimandato l’entrata in vigore delle nuove limitazioni in materia degli aborti.
La grande fonte dell’ottimismo sta nel fatto che le religioni si comportano, nel lungo periodo, come i virus: si adattano alle condizioni nelle quali devono vivere. Finché è troppo forte, muore assieme ai propri portatori. Per sopravvivere deve indebolirsi e quindi mutare fino a diventare una male quotidiano poco significante. E a quel punto si sradica completamente con una certa facilità.
Però… in questo periodo potrei mettermi a pubblicare i testi motivazionali. Ci penserò.


Lo show elettorale

Qualcuno non sa ancora che negli USA è iniziato il giorno ufficiale delle elezioni presidenziali? Chi non lo sa non usa l’internet, quindi andiamo avanti.
Qualcuno ritiene scontata – in base ai dati sulle probabilità pubblicati negli ultimi mesi – la vittoria di Joe «sleepy» Biden? Chi lo pensa, probabilmente non si ricorda che la volta scorsa la probabilità di vittoria di Hillary Clinton era attorno al 70%. Pure io ritenevo ovvia la sua vittoria, ma ora non voglio più ripetere l’errore ahahaha
Qualcuno ritiene che le elezioni di oggi siano solo un fatto interno americano? Farebbe bene a ricordarsi che gli USA sono – indipendentemente da quanto possa piacere questo fatto – la principale potenza mondiale (in tutti i sensi). Quindi conviene essere informati su quale dei due vecchietti (così diversi tra loro) avrà la carica presidenziale e il controllo del Congresso.
Qualcuno sente comunque la necessità di commentare queste elezioni prima della pubblicazione dei risultati definitivi? Io, a questo punto, dovrei ricordare che in alcuni Stati la pubblicazione dei risultati ufficiale avverrà non prima del 28 novembre. E, la cosa più importante, in ogni Stato il nome del vincitore potrebbe cambiare anche più volte nel corso dei prossimi giorni o settimane. Infatti, i cittadini statunitensi possono scegliere tra quattro modi di votare – anticipatamente, via posta, il giorno ufficiale delle elezioni e il cosiddetto voto preventivo (messo da parte e conteggiato solo se lo stesso cittadino non ha poi votato in alcun altro modo) – e in ciascun Stato c’è il proprio ordine per lo scrutinio dei diversi tipi di voto. A questo punto dobbiamo ricordare che gli elettori di Biden vengono ritenuti più portati al voto via posta, mentre quelli di Trump più portati al voto «in presenza» il 3 novembre. Di conseguenza, ognuno dei due schieramenti potrebbe avere una iniziale illusione di vincere largamente e poi vedere ridursi il vantaggio (o, addirittura, scoprire di avere perso).
Secondo me sarà interessantissimo osservare la reazione popolare a questa «altalena» dei voti conteggiati. Soprattutto se consideriamo che tale reazione sarà quasi sicuramente incoraggiata dai candidati principali. Anzi, uno dei due mi sembra molto più propenso a spacciare i risultati intermedi a lui favorevoli per quelli «reali ma rubati».
Saranno le elezioni molto interessanti. E i commercianti americani, logicamente, preferiscono osservarle dai loro negozi blindati per l’occasione.

Ah, per questa volta io non ho un candidato preferito.


Come cambia la moda

In questi giorni si osserva anche un’altra crescita – in questo caso decisamente più positiva e ancora meno spiegabile – della quale nessuno racconterà perché la moda è passata due o tre anni fa. Ebbene, negli ultimi giorni il valore del bitcoin ha registrato un nuovo balzo in alto: quasi due mila dollari in più.

Coloro che si dedicano allo studio della questione «chi sta economicamente bene nel 2020?» dovrebbero dunque tornare a osservare anche questa alternativa alla economia reale. Almeno perché potrebbe essere considerata una delle forme di digitalizzazione della vita.
E i pochi detentori del bitcoin potrebbero valutare l’opportunità di vendere.


Le vostre scoperte geografiche

Come molto probabilmente non sapete, in Canada esiste una cittadina di nome Asbestos, traducibile come Amianto. Logicamente, tale nome era dovuto al fatto che nella zona si trovano (e venivano sfruttate) delle riserve naturali del famoso minerale. Tale minerale, in realtà, può esistere anche nelle forme non cancerogene, ma non importa: la sua immagine popolare è oggi abbastanza negativa. Di conseguenza, gli amministratori della cittadina canadese hanno a un certo punto deciso di cambiarne il nome per migliorare la sua immagine e attirare più facilmente gli investimenti internazionali.

Non saprei immaginare quale interessamento internazionale possa ottenere un comune di poco più di sette mila abitanti. Ma, intanto, al referendum del 19 ottobre il 51,5% degli abitanti ha votato per Val-des-Sources come il nuovo nome della cittadina. Esso deve ancora ottenere l’approvazione ufficiale ministeriale.
Noi, intanto, possiamo costatare due cose. In primo luogo, vediamo che spesso per diventare famosi è sufficiente pubblicizzare i propri difetti – reali o presunti – ai quali nessuno ha mai prestato l’attenzione. In secondo luogo, dobbiamo ricordare che esiste almeno un’altra cittadina con lo stesso nome: la russa Asbest (si trova nella regione di Ekaterinburg). Con chi scommetto che tra poco ci si trasferisce qualche canadese nostalgico? Ahahaha


Le sanzioni contro Lukashenko

Pare che i Ministri degli Esteri dell’UE si siano finalmente decisi di adottare delle sanzioni – non si capisce ancora bene quali – anche contro Aleksander Lukashenko (il diretto interessato dei brogli alle elezioni presidenziali del 9 agosto e repressioni nei confronti dei manifestanti scontenti ma pacifici). Le sanzioni europee adottate precedentemente, infatti, erano rivolte solo contro circa quaranta funzionari bielorussi di livello medio e alto.
Se l’idea delle nuove sanzioni dovesse realizzarsi, sarà un intervento del tutto logico: il concetto precedente «non puniamo Lukashenko per lasciare lo spazio alla possibilità del dialogo» equivale al «nel bel mezzo del 1943 facciamo le sanzioni contro Goebbels e Himmler, ma non contro Hitler per poter dialogare con quest’ultimo».
La fine di Lukashenko al potere oggi sembra essere molto, molto più vicina rispetto a soli sei mesi fa e, quasi sicuramente, non saranno le sanzioni europee ad avvinarla ancora in una maniera rilevante. Ma quando ci si mette a fare a una cosa, è giusto farla come si deve. Altrimenti non andrebbe fatta proprio.
Purtroppo, l’UE non si distingue tanto spesso per la capacità di correggere la propria posizione una volta presa.


Il vero James Bond

È solo una storia curiosa. Ma allo stesso tempo è una storia vera.
Il 22 settembre l’archivio dell’Istituto della memoria nazionale della Polonia ha comunicato sulla propria pagina di Facebook un fatto curioso: a febbraio 1964 in Polonia era arrivato il 36-enne britannico di nome James Albert Bond. Lo aveva fatto per motivi di lavoro in quanto era il nuovo archivista dell’addetto militare alla ambasciata britannica. E, abbastanza velocemente, aveva attirato l’attenzione degli addetti al controspionaggio (che avevano poi seguito lui e la sua famiglia durante tutta la permanenza in Polonia).
Al momento dei fatti erano già usciti 11 dei 14 libri su James Bond e i primi 2 relativi film con Sean Connery.
The Telegraph, a sua volta, comunica che James Albert Bond è nato nel 1928 a Bideford da genitori impiegati nel settore agricolo. Nel 1954 si è sposato e aveva poi avuto un figlio. Ha lavorato nell’esercito britannico quasi fino ai 60 anni ed è morto nel 2005.

Il direttore dell’Istituto della memoria nazionale della Polonia Marzena Kruk sottolinea che James Albert Bond solo in parte ricordava il personaggio letterario: amava anche lui le donne, ma preferiva bere la birra.
Secondo i dati contenuti negli archivi polacchi, per almeno due volte James Albert Bond aveva tentato di infiltrarsi nelle basi militari controllate dall’URSS, ma non aveva stabilito dei contatti con la popolazione locale. Già nel 1965 aveva lasciato la Polonia a causa, pare, di una promozione.
Finché non vengano resi pubblici i relativi archivi britannici, possiamo solo ipotizzare i motivi per i quali James Albert Bond sia stato inviato proprio in uno Stato del Patto di Varsavia. Secondo me, poteva benissimo essere solo uno scherzo, un modo di prendere un po’ in giro i «colleghi» sovietici.


Nagorno Karabakh

Dato che i media occidentali in qualche modo tentano di parlare del conflitto che si è riacceso nel Nagorno-Karabakh, provo a fare pure io un commento. Non mi metto a raccontare tutta la storia pluridecennale del problema – chi si interessa se la (ri)legge da solo – ma vi aggiorno sulle sue particolarità attuali. L’obiettivo è dimostrare che non tutti i problemi possono essere risolti dalle «potenze» geograficamente più vicine.
Formalmente, il conflitto in corso vede confrontarsi due Stati (l’Armenia e l’Azerbaigian) per il controllo del territorio Nagorno Karabakh (in teoria sarebbe uno Stato non riconosciuto più o meno da tutto il mondo).
Quindi da una parte c’è l’Armenia: è l’unico Paese menzionato nelle cronache babilonesi che al giorno d’oggi esiste ancora. Nel corso dei millenni trascorsi tra la suddetta citazione e la data odierna, l’Armenia ha perso quasi tutti i suoi territori, compreso il suo grande simbolo: il Monte Ararat. Tutti quei territori sono stati staccati, a pezzi, dai vicini-invasori.
Quando parliamo dei vicini-invasori, prima di tutto dobbiamo pensare alla Turchia e all’Azerbaigian (la seconda parte formale del conflitto), i quali si offendono tantissimo ogni qualvolta si tenta di ricordare a loro anche la storia più o meno recente. Così, per esempio, molte edizioni delle guide e promemoria distribuiti ai turisti in visita in Turchia avvisano esplicitamente: mai chiamare Istanbul col nome Costantinopoli in presenza dei turchi. I turchi di oggi vivono nella capitale dell’Impero Bizantino che i loro antenati hanno conquistato in una guerra offensiva. Conquistato e, dopo avere massacrato la popolazione, anche semi-distrutto fisicamente. Ancora oggi lo Stato turco (solo per non ripetere i nomi delle nazionalità) continua a convertire le chiese cristiane in moschee, ma allo stesso tempo non ama che qualcuno gli ricordi quanto appena scritto. Ci sono moschee e santuari musulmani sul territorio dell’Armenia. Non ci sono chiese armene (quindi cristiane) sul territorio della Turchia e dell’Azerbaigian (l’Armenia, tra l’altro, è il primo Paese al mondo ad aver adottato ufficialmente il cristianesimo). Gli antichi cimiteri e santuari armeni, finiti in diversi anni all’interno dei confini della Turchia e dell’Azerbaigian assieme ai territori conquistati, sono tutti distrutti. E lo Stato turco non riconosce tuttora il genocidio armeno condotto cento anni fa. Anzi, manifesta delle reazioni furiose quando qualcuno tenta di parlarne.
In continuazione della logica storicamente affermata (purtroppo), anche il Nagorno-Karabakh – tradizionalmente abitato dagli armeni – è sempre stato l’oggetto dell’odio in Turchia e in Azerbaigian. Naturalmente, i piani per l’annessione di questa regione venivano preparati da molto tempo (oggi i politici turchi e azerbaigiani parlano di una «soluzione definitiva della questione»).
Proprio per questo l’Armenia contemporanea ha inizialmente puntato praticamente tutto sulla Russia. Proprio per questo le unità militari russe sono state ufficialmente di stanza in Armenia per tutti questi anni: la Russia aveva promesso all’Armenia di fare da garante della pace nella regione e di fornire una protezione quando i turchi o gli azerbaigiani dovessero finalmente attaccare militarmente. Nessuno ha mai dubitato di quest’ultima opzione: né l’Armenia, né la Turchia con l’Azerbaigian. Non si tratta dunque dell’intento dichiarato di richiedere un aiuto militare nel caso di una invasione attesa. Si tratta delle truppe russe presenti sul territorio in modo permanente – nelle proprie basi militari – già pronte da anni a intervenire. Trattandosi più di una certezza che di un rischio, lo Stato armeno ha sempre dimostrato la disponibilità di tollerare anche degli episodi abbastanza gravi: per esempio, la fuga di un soldato russo impazzito finita con l’uccisione una famiglia armena: l’accordo di protezione con la Russia ha l’importanza vitale per l’intero Stato.
Quindi nella situazione attuale, quando gli azeri hanno nuovamente radunato le proprie forze armate e hanno iniziato l’invasione del Nagorno-Karabakh, la Russia avrebbe potuto fermare la guerra con una mossa semplice e poco impegnativa: solo per ricordare di essere una alleata dell’Armenia, avrebbe potuto far fare un volo esemplare ai suoi aerei stanziati sulle basi locali. Non sarebbe servito nemmeno un bombardamento, nemmeno un episodio di combattimento da parte delle truppe russe: solo una dimostrazione di forza e di volontà politica. E la guerra sarebbe finita subito. Né l’Azerbaigian né la Turchia (che era entrata in guerra dalla sua parte su un territorio straniero) avrebbero trovato oppotuno scontrarsi militarmente con la Russia.
Ma la Russia non farebbe mai nemmeno quella semplice mossa. Perché? Prima di tutto, Putin è un – usiamo un termine un po’ diplomatico – fifone. In tutti i vent’anni che si trova al potere, non ha preso una sola decisione realmente forte. Tutto quello che sa fare è agire alla chetichella. Sa mandare in uno Stato vicino i sabotatori in uniforme senza i gradi, contrabbandare le attrezzature militari all’estero mascherandole con un convoglio umanitario, far applicare delle sostanze velenose sulle porte altrui, e, ogni volta beccato, ripetere: non siamo stati noi, noi non c’entriamo niente…
In secondo luogo, bisogna ricordare che la Russia è il peggior alleato che si possa immaginare. La Russia non ha amici: la Russia ha litigato con tutto il mondo che la circonda, ha rovinato i rapporti non solo con le grandi potenze mondiali, ma anche con quasi tutti i propri vicini. In tempi di pace, la Russia può anche prendere impegni con l’Armenia e garantirle generosamente la protezione. Può farlo per dei piccoli guadagni a breve termine. Ma sicuramente non rispetterà gli impegni presi nel momento decisivo, quando ce ne sarà il reale bisogno.
La Russia – intesa come un insieme delle personalità al governo – ha i suoi problemi e suoi obbiettivi. È in corso lo scandalo con l’avvelenamento dell’oppositore Navalny, di conseguenza si intuiscono le nuove sanzioni occidentali in arrivo, la caduta del rublo, la minaccia di non poter completare/sfruttare il nuovo gasdotto Nord Stream-2. Ecco perché la Russia, e prima di tutto Putin, fa tutto il possibile per «non ricordare» degli impegni presi. Anzi, in un certo senso la guerra in Armenia conviene alla Russia. Perché permette di «invitare le parti alla pace», fare la faccia triste davanti alle telecamere, inviare un paio di scatole di bende nelle zone di combattimenti e apparire un umile pacificatore nella speranza di rafforzare, in questo modo, la propria immagine internazionale scossa. Ma l’aiuto concreto all’Armenia nell’ambito dell’accordo di alleanza non è assolutamente nei piani della Russia.
In realtà questa è la risposta alla domanda perché tutti Stati del mondo – anche quelli che geograficamente, culturalmente e spesso politicamente sono più vicini alla Russia – si rivolgono alla NATO in ogni occasione di difficoltà. Lo fanno perché capiscono: una alleanza con la NATO è mille volte più sensata e sicura di una alleanza con la Russia. Perché la Russia tradirà nel momento del primo problema serio.
L’Armenia ha sempre puntato tutto – o quasi – sulla sua amicizia con la Russia: questo è stato un suo errore fatale.
La Turchia è da tempo nella NATO (il fatto di cui la NATO si sta pentendo da tempo). Ora la Turchia ha gli F-16 con armamenti missilistici e droni, i quali, pur essendo vecchi, possono, nel caso di un conflitto diretto, distruggere facilmente qualsiasi mezzo militare di produzione russa. Le armi russe di produzione contemporanea, purtroppo, non possono assolutamente competere con anche le più antiche generazioni di quelle occidentali. Non c’è dunque alcun problema per la Turchia a dichiarare di essere un alleato all’Azerbaigian e di andare in guerra sul territorio di un altro Stato semplicemente per l’amicizia e per la ricerca della «soluzione finale della questione». Ma la Russia si aggrapperà certamente alla scusa che il Karabakh non è esattamente l’Armenia, quindi gli accordi non funzionano e bla bla bla…
Bene, ora avete qualche elemento in più per orientarvi bene nella situazione.


La cucina aziendale

In Italia (come anche in Russia e, immagino, in quasi tutto il mondo) gli uffici di molte piccole aziende si trovano negli ex appartamenti convertiti, dal punto di vista edilizio, in un modo più o meno avanzato. Mi è capitato di visitare – e in un caso anche lavorarci per qualche mese – un po’ di uffici del genere negli ultimi 25+ anni.
Ora posso constatare che gli uffici-appartamenti migliori sono quelli dove è stata conservata la cucina vera (e non un angolo buio con un frigo e un microonde). Nelle condizioni normali, ovviamente, poche persone potranno o vorranno sprecare il tempo lavorativo per cucinarsi il pranzo. Ma quando i vari ristoranti o mense sono costretti a limitare l’accesso della clientela (per esempio, a causa di una pandemia) oppure chiudono solo perché il mese corrente si chiama agosto, la cucina aziendale potrebbe diventare una interessante soluzione.
Vorrei proprio vedere se ci sarà una evoluzione degli uffici in questo senso.