Dopo avere pubblicato il post musicale dedicato alla compositrice francese Louise Farrenc, mi sono accorto di non avere mai postato alcunché del compositore tedesco Felix Mendelssohn. Non è assolutamente giusto!
Infatti, nonostante una vita relativamente breve (1809–1847), Mendelssohn ha fatto in tempo a comporre una buona quantità di musica interessante e diventare uno dei maggiori rappresentanti del romanticismo nella musica (sicuramente è successo anche grazie al fatto che i genitori, pur appartenendo al mondo pratico e pragmatico bancario non hanno mai ostacolato – anzi! – lo sviluppo degli interessi artistici del figlio). Anche le tipologie delle composizioni di Mendelssohn sono abbastanza numerose e varie: sinfonie, opere liriche, concerti, oratori, musica per organo, musica da camera…
Però per il primo post dedicatogli vorrei selezionare qualcosa di realmente famoso di Felix Mendelssohn.
Come prima composizione del post metterei la marcia composta nel 1842 per la commedia shakespeariana «Sogno di una notte di mezza estate». Non conosco abbastanza bene le tradizioni italiane in materia (e non ho avuto l’occasione di raccogliere abbastanza osservazioni empiriche), ma in diversi Stati – la Russia compresa – questa marcia si usa largamente in qualità di marcia nuziale.
La seconda composizione di Felix Mendelssohn che metterei oggi è la Sinfonia n. 1 in Do minore. Il compositore la terminò a marzo del 1824 – all’età di 15 anni – ma nella primavera del 1829 sostituì la sua terza parte. Proprio questa versione modificata della sinfonia ebbe un ruolo importantissimo nel riconoscimento internazionale di Mendelssohn in qualità di un bravo compositore.
Bene, così la prossima volta – quando capita – mi dedico a qualche composizione più grande di Felix Mendelssohn.
L’archivio della rubrica «Cultura»
Nel 1959 il gruppo statunitense Hank Ballard and The Midnighters aveva pubblicato la canzone «Look at Little Sister»: era sul lato B di un altro singolo, poi era stata inserita nell’album «Mr. Rhythm and Blues» del 1960. Non è tra le canzoni più note del gruppo.
È molto più nota l’interpretazione della «Look at Little Sister» registrata nel 1985 dal gruppo Double Trouble di Stevie Ray Vaughan (fa parte del loro album «Soul to Soul»). Addirittura, molte persone conoscono solo questa versione della canzone.
Stevie Ray Vaughan aveva anche suonato/cantato questa canzone con Jeff Healey, creandone di fatto un’altra, diversa, versione.
Tra queste tre interpretazioni, ovviamente, ce n’è una che posso definire la mia preferita. Ma l’ho scelta in un modo consapevole, ascoltando anche le altre. Ora lo potete fare pure voi.
Qualche tempo fa mi ero improvvisamente accorto di avere postato, nella mia rubrica musicale, tante composizioni dei compositori uomini e nessuna composizione delle compositrici donne. È una situazione pericolosa: prima o poi qualcuno potrebbe accusarmi di misoginia. Oltre a essere pericolosa, è anche una situazione po’ ingiusta: nella storia della musica classica ci sono state delle compositrici valide, non peggio di alcuni compositori uomini ben conosciuti e apprezzati anche ora.
Così, si potrebbe fare l’esempio della compositrice francese Louise Farrenc (1804–1875), figlia dell’importante scultore dell’epoca Jacques-Edme Dumont e moglie del flautista Aristide Farrenc (che divenne l’impresario e l’editore della moglie). Negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo Louise Farrenc fu nota e apprezzata a livello europeo come pianista: tanto apprezzata da essere nominata professoressa di pianoforte al Conservatorio parigino (dove insegnò dal 1842 al 1872). Pur essendo impegnata tanto nell’insegnamento, riuscì a dedicarsi anche alla composizione.
Avendo pubblicato nel corso della propria vita circa cinquanta composizioni, per lo più strumentali, Farrenc ricevette recensioni entusiastiche da parte di Berlioz e Liszt, ma in patria fu percepita come una compositrice «troppo poco francese». Infatti, tra i principali compositori francesi dell’epoca andavano di moda le opere liriche molto lunghe, mentre le composizioni di Louise Farrenc furono molto laconiche, ispirate al classicismo musicale e, dunque, contro la moda corrente.
Di conseguenza, in qualità della compositrice non fu tanto popolare. Eppure, le sue composizioni migliori non sono peggio di quelle dei suoi contemporanei come, per esempio, Mendelssohn o Schumann.
A questo punto vorrei illustrare quanto scritto fino a questo punto con un esempio concreto. Potrebbe andare bene, a tal fine, la Sinfonia n. 3 in Sol minore (Op. 36, composta nel 1847).
Bene, ora non rischio più di apparire un divulgatore maschilista.
E sono pure contento per avere portato musica bella.
Il gruppo britannico-statunitense Fleetwood Mac si formò nel 1967, ebbe dei periodi più o meno fortunati, cambiò più volte quasi tutta la formazione e il genere della musica suonata, ma a differenza di tanti gruppi concorrenti seppe rimanere popolare almeno fino all’inizio del XXI secolo: si potrebbe definirlo un record.
Allo stesso tempo, non posso dire che la lunga popolarità del gruppo si sia in qualche modo rispecchiata anche nelle mie preferenze musicali. Infatti, secondo me già a partire dalla metà degli anni ’70 il gruppo ha delle brutte tendenze verso il pop (il quale non mi piace). Di conseguenza, ritengo che solo nei primi cinque album del gruppo si possa trovare qualcosa, ma proprio qualcosa, di ascoltabile. Ma, ovviamente, dipende tutto dalle preferenze musicali di chi ascolta. In più, la tendenza stilistica che reputo negativa mi ha impedito di dedicarmi a uno studio relativamente approfondito di tutta la musica prodotta dal gruppo nel corso della sua storia.
Mentre aspetto di scoprire di essermi perso qualche canzone veramente geniale del periodo intermedio o tardo dei Fleetwood Mac, posto dunque due brani tratti dal loro primo album in studio «Peter Green’s Fleetwood Mac» del 1968.
La prima canzone scelta per oggi è la «My Heart Beat Like a Hammer»:
La seconda canzone scelta dallo stesso album è la «Long Grey Mare»:
Oppure mi conviene non preoccuparmi e ricordare il gruppo solo per il loro periodo iniziale? Boh, potrebbe essere…
Il chitarrista belga Francis Goya suona e compone, praticamente da sempre, la musica leggera: molto probabilmente proprio questa sua caratteristica lo aveva trasformato velocemente, più o meno fin dall’inizio, in un fenomeno musicale statisticamente anomalo. Infatti, è uno dei relativamente pochi esecutori della musica puramente strumentale che nel corso della propria carriera sono riusciti a diventare famosi a livello individuale e a vendere decine di milioni di copie dei propri dischi. Potrei dire che solitamente – almeno al giorno d’oggi – succede ai musicisti tendenti al pop. Ma a questo punto aggiungo anche che quello di Francis Goya è un pop di una qualità abbastanza alta (qualora, appunto, fosse corretto definirlo pop).
E allora faccio ricomparire Francis Goya, dopo diversi anni di pausa, nella mia rubrica musicale. Lo faccio selezionando due brani dal suo album d’esordio «Nostalgia» (del 1975).
Il primo brano scelto è proprio la «Nostalgia», una melodia con la quale iniziò a diventare internazionalmente famoso:
Mentre il secondo brano scelto per oggi è il «Nautilus» (tratto dallo stesso album e uscito pure sul lato B del singolo «Nostalgia»):
Bene, così tra un po’ si potrà continuare la pubblicazione della musica di Francis Goya in un modo sistematico.
Quando fu ancora in vita, il musicista italiano Giovanni Viotti (1755–1824) fu considerato (e apprezzato come) più un violinista virtuoso che un compositore. Debuttò come violinista a Parigi nel 1782 e, se fortunato, avrebbe potuto rimanervi per tutta la — per nulla povera — vita, ma non fu fortunato: i legami con la casa reale non rivelarono un buon bagaglio quando iniziò la Rivoluzione, dunque Viotti fuggì a Londra. Nemmeno in Inghilterra fu però fortunato: lo espulsero con l’accusa (non tanto fondata, se ho capito bene) di essere un sostenitore dei giacobini. Dopo un periodo relativamente breve di soggiorno in Germania, Viotti tornò in Inghilterra, ma non riuscì a inserirsi nuovamente nella scena musicale nazionale e finì per dedicarsi alla prodizione di vino. Gli affari gli andarono però molto male (non è una sorpresa: non si diventa imprenditori di colpo), molto presto Viotti andò in bancarotta. Anche il resto della sua vita fu segnato dai fallimenti, dunque morì all’età di 68 anni in totale povertà. Al momento della morte i suoi averi materiali furono pochi: un paio di manoscritti, alcune tabacchiere, un orologio e due violini (uno dei quali avrebbe dovuto, secondo la volontà di Viotti, essere venduto per pagare i suoi debiti).
Non so se ne sarebbe stato contento (se fosse capace di osservare il nostro mondo dall’ipotetico mondo parallelo in cui si trova ora), ma almeno Viotti è stato raggiunto dal meritato riconoscimento postumo: oggi è considerato uno dei padri-fondatori della scuola violinistica francese del XIX secolo. Le composizioni più famose di Viotti sono i 29 concerti per violino e orchestra, che hanno avuto una influenza significativa sulla musica di diversi compositori noti anche ai non esperti.
Tra questi compositori «influenzati» c’è anche Niccolò Paganini, probabilmente il primo che viene in mente a una persona media che sente la parola violinista. Così, per esempio, il secondo movimento del Secondo Concerto di Paganini inizia in maniera quasi identica al secondo movimento del Concerto n. 24 in si minore di Viotti (composto presumibilmente negli anni 1793–1797). Nella edizione odierna della mia rubrica musicale pubblico proprio quel concerto:
È bello e giusto ricordare i geni del passato, soprattutto se sono stati ingiustamente trascurati in vita.
Nel 1930 due amici universitari della Indiana University Bloomington – anche se ormai laureati da un po’ – Hoagy Carmichael e Stuart Gorrell scrissero la famosa canzone «Georgia on My Mind». Carmichael suonò, a una festa dove entrambi furono presenti, la melodia da poco composta, mentre Gorrell decise a quel punto di scriverne le parole. Dopo una notte di lavoro congiunto, la canzone fu pronta. Per Carmichael si trattò solo di una delle tante canzoni jazz famose composte nel corso della carriera musicale; per Gorrell, invece, si trattò dell’unico testo di una canzone scritto (o, per lo meno, reso pubblico) nella vita (divenne un banchiere impegnato solo nel proprio ambito professionale originale).
Quell’unica canzone nata dalla collaborazione dei due amici – la «Georgia on My Mind», appunto, – non solo divenne famosa, ma ha anche conservato la propria popolarità nel corso dei decenni. Il nome Georgia può essere interpretato in due modi diversi – come il nome dello Stato americano e come un nome femminile –, ma il 24 aprile 1979 la canzone è diventata pure l’inno ufficiale dello Stato americano di Georgia…
Però nel contesto di questo post musicale sono principalmente interessato a mostrare in quali modi la canzone è stata interpretata dai vari musicisti bravi e famosi. Ovviamente, non posto tutte le interpretazioni esistenti (sono diverse decine), ma solo quelle che mi hanno incuriosito maggiormente in questo momento storico (si tratta dunque di una scelta dettata dall’umore e dal momento).
Inizierei dalla interpretazione della «Georgia on My Mind» registrata dall’autore stesso – Hoagy Carmichael con la sua Orchestra – e pubblicata il 6 gennaio 1931:
E ora passiamo alle interpretazioni registrate dagli altri musicisti nei decenni seguenti. Poco più di un mese fa mi era già capitato di postare quella più famosa di tutte, registrata da Ray Charles nel 1960, dunque ora metto l’interpretazione di un altro grande del jazz: Louis Armstrong (registrata nel 1957):
Una interpretazione interessante, non esattamente in stile jazz ma di un altro grande cantante: James Brown (pubblicata nel 1970):
Ma la «Georgia on My Mind» è stata cantata anche dalle donne. Ecco l’interpretazione di una grande voce jazz femminile: Ella Fitzgerald (pubblicata nel 1962):
In qualità del Bonus Track (perché il post sta diventando un po’ lungo per i miei standard) aggiungo una interpretazione Continuare la lettura di questo post »
Questa settimana – il martedì 2 luglio – c’è stato un altro anniversario importante nel mondo della musica: il compositore austriaco Christoph Willibald Ritter von Gluck «avrebbe compiuto» 310 anni. Ovviamente, non potevo non sfruttare l’occasione per ricordare nella mia rubrica musicale uno dei più grandi compositori della storia.
Come sicuramente sapete, Gluck fu particolarmente attivo nella composizione delle opere liriche. Grazie alla sua grandezza riconosciuta già nel corso della vita, al nome di Gluck è associata la riforma dell’opera seria e della tragedia lirica francese nella seconda metà del XVIII secolo. Le opere di Gluck stesso non sono state ugualmente popolari in tutte le epoche storiche, mentre le sue idee hanno determinato lo sviluppo del teatro dell’opera nel corso del tempo.
In ogni caso, per il post musicale di oggi mi sembrava logico selezionare una opera lirica di Gluck e non una delle sue rare composizioni sinfoniche. Allo stesso tempo, mi sembrava poco pratico postare qualcosa di particolarmente lungo… E allora ho scelto l’opera da un atto «L’arbre enchanté, ou Le tuteur dupé»: una opera comica, il cui libretto si basa su uno dei racconti del «Decamerone» di Boccaccio.
Questa opera fu per la prima volta rappresentata il 3 ottobre 1759 a Vienna, mentre la versione del video è la rappresentazione del 30 agosto 1989 al Teatro Principal della città spagnola di San Sebastián.
Circa due settimane fa ho per caso sentito una nuova «invenzione» del chitarrista australiano Tommy Emmanuel: la versione acustica della canzone «Somewhere Over the Rainbow»:
Dopo averla ascoltata, ho pensato: perché non mi è ancora capitato di postare qualcosa di Tommy Emmanuel nella rubrica musicale? Per esempio, qualcuno dei suoi brani più famosi, tipo «Angelina»…
Mentre il secondo… ah, no, era già il secondo brano di oggi. Penso che siano sufficienti questi due per stimolare lo studio più approfondito della musica di Tommy Emmanuel.
Mentre voi vi organizzate, io scelgo la data del prossimo post musicale da dedicargli, ahahaha
Dopo avere pubblicato dei post sulla recente visita di Putin in Corea del Nord, mi sono ricordato – in realtà, con un piccolo aiuto esterno – di non avervi mai segnalato un bel documentario su quello Stato estremamente chiuso: anche se ci vai da turista, riesci a vedere solo le cose che ti mostrano le guide facenti parte di chissà quali servizi.
In realtà, una cosa del genere poteva capitare al regista documentarista russo Vitaly Mansky…
Un disclaimer importante. Mansky è un grande rappresentante della sua professione e una persona normale da tutti i punti di vista, quindi non temete di beccarvi un servo dello Stato russo nella sua versione attuale: si tratta proprio del caso opposto.
Ecco: nel 2015 è uscito il documentario di Vitaly Mansky «Under the Sun». Il film è stato realizzato con l’assistenza e sotto il controllo delle autorità nordcoreane, che si aspettavano che il film presentasse l’immagine propagandistica di una famiglia nordcoreana felice. La parte nordcoreana ha preparato in anticipo un copione di propaganda, che comprendeva una storia fittizia sulla famiglia da filmare. Il materiale girato è stato esaminato quotidianamente dalle autorità di censura per garantire che non ci fossero delle scene indesiderate; alla famiglia ripresa è stato severamente vietato di parlare con la troupe. Tuttavia, il regista continuò a filmare segretamente le scene tra una ripresa ufficiale e l’altra, registrando ciò che accadeva su una seconda scheda di memoria di cui le autorità di censura non erano a conoscenza. Inoltre, Mansky riuscì a filmare segretamente qualcosa al di fuori dei set ufficiali del film. Nella versione finale del film, con 26 minuti in più rispetto al concordato, il regista inserì i suoi commenti critici.
Il risultato è stato dunque l’esatto opposto di quanto sperato dalle autorità nordcoreane.
Non so perché il tipo che ha caricato il film su YouTube abbia dato quel titolo al video. Ma a noi interessa il film stesso.