Alla fine di febbraio avevo letto di una iniziativa interessante, bella, utile dal punto di vista tecnologico e quasi disperata dal punto di vista giuridico.
I musicisti e programmatori Damien Riehl e Noah Rubin hanno generato tutte le possibili melodie all’interno della stessa ottava – più di 68 milioni di melodie – e le hanno messe a disposizione del pubblico, rinunciando ai propri diritti d’autore. L’obiettivo di tale lavoro è stato quello di porre fine alla diffusissima nel mondo pratica del contenzioso giudiziario sulla materia del plagio, la quale limita la libertà creativa degli artisti.
Infatti, nelle cause che riguardano la violazione del diritto d’autore nell’ambito musicale diventa spesso decisiva la questione se il convenuto avesse mai potuto sentire, almeno una volta, quella melodia di cui «furto» è accusato. Qualora la risposta dovesse essere positiva, il giudice può giungere alla conclusione che il convenuto, pur non avendo l’intenzione di copiare una melodia altrui, l’abbia usata inconsciamente per la propria opera, violando dunque il diritto d’autore (per spiegare la decisione in termini popolari, si potrebbe usare l’espressione «senza dolo», ma evito). Indipendentemente dal risultato finale – spesso incerto, – il relativo processo giudiziario potrebbe comportare delle spese milionarie alla persona accusata del plagio.
Riehl e Rubin hanno dunque creato un algoritmo che ha composto tutte le possibili combinazioni di 12 note all’interno di una ottava. In sostanza, si tratta dello stesso principio che gli hacker utilizzano per la ricerca di una password: creano tutte le possibili combinazioni di simboli utilizzabili.
I 68,7 miliardi delle melodie ottenute occupano lo spazio di 2,6 terabyte. I link per il download delle melodie e del codice sorgente dell’algoritmo sono disponibili sul sito del progetto. Il codice, in particolare, potrebbe essere utile per coloro che vogliono provare a contribuire alla causa e generare le melodie in altre ottave. Le melodie, poi, hanno la licenza Creative Commons Zero che le rende di dominio pubblico.
Tuttavia, l’iniziativa di Damien Riehl e Noah Rubin potrebbe essere considerata giuridicamente disperata per più di un motivo. In primo luogo, gli autori non hanno generato tutte le possibili melodie, ma si sono limitati a una sola ottava. Appartenendo a un «campo ristretto», le melodie generate non hanno alcuna componente creativa e quindi difficilmente potranno essere fatte rientrare nel diritto d’autore. Inoltre, la somiglianza tra due melodie – quella originale e quella «rubata» – viene valutata dal giudice non solo sulla base della combinazione delle note, ma anche dal modo nel quale vengono suonate. Quest’ultimo dettaglio non viene preso in considerazione dall’algoritmo di Riehl e Rubin.
L’archivio della rubrica «Cultura»
Molto probabilmente mi era già capitato di scriverlo: a eccezione dei primi due album, non mi piacciono i «The Rolling Stones».
Il cantante del gruppo – Mick Jagger – da solista mi sembra invece più ascoltabile. Ha fatto appena quattro album e, considerati l’età e alcuni problemi di salute, difficilmente ne farà altri notevoli. Quindi accontentiamoci…
La prima canzone di Mick Jagger selezionata per il post musicale di oggi è «God Gave Me Everything» (dall’albume «Goddess in the Doorway» del 2001):
E la seconda canzone è «Hard Woman» (dal primo album «She’s the Boss» del 1985):
Il testo che quasi tutti i web-designer e i programmatori utilizzano in qualità di segnaposto (cioè con il solo scopo di illustrare la visibilità del testo nel design sviluppato) è una pseudo-citazione caotica dello scritto «De finibus bonorum et malorum» di Cicerone (45 a.C.). Per la prima volta nella storia tale citazione fu utilizzata nel XVI secolo da un tipografo il cui nome si è perso nel tempo. Sappiamo, però, che il suo obiettivo fu quello di illustrare alcuni tipi di carattere.
Quindi il testo sarebbe questo:
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Un sacco di professionisti lo considera un testo canonico, quindi lo utilizza nel proprio lavoro, lo inserisce nei propri manuali e articoli sul design o tipografia. Purtroppo, però, nel corso dei secoli il suddetto testo ha perso ogni forma di parentela con il 32-esimo paragrafo del trattato originale:
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Non so quando le parole centrali della frase (dolore ipsum …) siano diventate l’inizio del testo tipografico tradizionale. Ma so di certo che il testo andrebbe controllato attentamente prima dell’uso: con il passare dei secoli è stato riempito di numerosi scherzi di qualità molto variabile.
Infine, colgo l’occasione per pubblicizzare ancora il mio paragrafo di Inerario (§ 21) dedicato all’uso di «Lorem ipsum» sul web.
Il compositore austriaco Joseph Haydn è particolarmente noto – tra le altre cose – per essere uno dei fondatori della musica classica scritta per quartetto d’archi, intesa come un «sottogenere» musicale. Oltre ad essere un semplice pioniere, ha pure raggiunto dei notevoli risultati su tale strada (un fenomeno molto più raro di quanto possa a volte sembrare).
Quindi appare abbastanza evidente il principio di selezione della opera musicale che ho applicato per il post odierno.
L’unico mio dubbio è stato quello di scegliere tra una opera completa (Opus 74 del 1793)…
… e una parte breve di una opera notevolmente più famosa (da Opus 76 del 1976)…
Come potete vedere, ci sto ancora pensando.
Gli italiani, purtroppo, sono ancora molto limitati nella scelta del cognome per se e per i propri figli. Addirittura, sono ingiustamente limitati nella correzione dei cognomi ridicoli o vergognosi (la legge consente in tal caso di cambiare solo una lettera, lasciando dunque ampio spazio alle battute– a volte anche pesanti –dei compagni di classe, ai pensieri tristi degli adulti etc). Quindi c’è poco da scherzare.
Nessun italiano, però, è obbligato a chiamare la propria azienda con il proprio cognome. Perché anche un cognome normale è capace di creare un nome d’azienda terribile. Un nome che, a sua volta, farà scappare l’eventuale clientela. Insomma, nessuno obbliga a usare i cognomi, e dunque possiamo serenamente deridere tutta la stupidità umana che incontriamo in giro.
Ma avreste trovato il coraggio di entrarci?
P.S. importante: se proprio volete produrre delle combinazioni del cazzo come il nome della foto, fate almeno in modo che non siano gli altri a soffrire per i vostri problemi mentali.
Questa volta il post musicale è dedicato esclusivamente al duetto atomico di Joe Bonamassa e Tina Guo.
Non mi vengono in mente (ma nemmeno nei risultai di ricerca) dei brani capaci di svolgere efficientemente la funzione del tradizionale secondo video, quindi mi limito a ricordare altri miei post dedicati a Joe Bonamassa (uno dei miei musicisti contemporanei preferiti).
Tempo fa mi era capitato di dedicare un post musicale al duo Simon and Garfunkel.
La stretta collaborazione tra i due componenti si è di fatto conclusa all’inizio degli anni ’70, ma ognuno di loro ha continuato la propria carriera musicale nei lunghi decenni successivi. Anzi, Paul Simon la sta continuando ancora, sebbene abbaia rinunciato nel 2017 di continuare a esibirsi nei concerti.
Ho pensato che possa avere senso dedicare i singoli post al lavoro da solisti di Paul Simon e Art Garfunkel. Comincerei dal primo.
Si dice che il famoso duo si sarebbe sciolto anche grazie al crescente (e non condiviso) interesse di Simon verso la sperimentazione con la musica popolare di varie zone del mondo. Quel interesse è stato poi coltivato nel corso di tutta la sua vita professionale, ma per noi non sempre è percettibile con la stessa intensità. Lo possiamo notare (o almeno tentare di farlo) anche confrontando due canzoni registrate nelle epoche relativamente lontane tra esse.
Come al solito, ho preparato due esempi.
La prima canzone è «Something So Right» (dall’album «There Goes Rhymin’ Simon» del 1973):
E la seconda è «Graceland» (dall’album «Graceland» del 1986):
Per fortuna è riuscito a non scivolare nella etnomusicologia estrema.
Da quando i personal computers hanno iniziato a fare il loro ingresso nelle tipografie (in Europa, quindi, a partire dalla metà degli anni ’80), sul nostro mondo è calato il buio dell’analfabetismo totale. La gente ha iniziato a dimenticare la differenza tra i vari caratteri. Pensiamo, per esempio, alle linee orizzontali: la gente non conosce più la differenza tra «trattino», «meno» e «lineetta».
Il primo simbolo, il più corto, si usa nelle parole composte. In verticale si allinea a metà delle lettere minuscole.
Il secondo simbolo, il segno meno, è di lunghezza intermedia e si allinea a metà delle lettere maiuscole (perché le cifre hanno l’altezza delle lettere maiuscole).
Il terzo simbolo, la lineetta, è quello più lungo. In alcune tradizioni tipografiche nazionali è lunghissimo (per esempio negli USA o in Russia), mentre in altre è poco più lungo del segno meno (per esempio in Germania o in Italia).
Gli esempi dell’uso improprio dei tre simboli sono ormai innumerevoli. Ma alcuni di essi meritano di essere studiati singolarmente. Cosa significa, per esempio, il cartello che vieta «trattino18»?
Evidentemente, qualcuno voleva scrivere «meno 18», ma anche se avesse indovinato il simbolo, sarebbe rimasto lontano dalla regolarità grammatica.
Quindi io proporrei un simbolo come questo:
Si capisce meglio ed è più difficile da sbagliare.
Il compositore francese Georges Bizet è troppo famoso per esservi presentato pure da me. Quindi il tentativo di dedicargli un post un po’ meno banale di quello che verrebbe in mente alla maggioranza delle persone può essere basato sulla seguente logica. Dato che Bizet fu considerato dai suoi contemporanei un pianista virtuoso, proviamo ad ascoltare qualche sua composizione per il pianoforte. Conoscendo infatti perfettamente lo strumento, poté esprimere al meglio le proprie capacità da compositore proprio scrivendo per questo strumento.
Metterei due composizioni brevi.
La prima è «Chasse fantastique» («Caccia fantastica» del 1865):
E la seconda è «Jeux d’enfants» («Giochi dei bambini» del 1871):
Nei giorni scorsi mi è stato segnalato che già a partire dal 9 gennaio è possibile vedere nei cinema italiani il secondo film del giovane regista russo Kantemir Balagov: «La ragazza d’autunno» del 2019. Non so perché abbiano tradotto il titolo in questo modo: forse per mancanza di un correspettivo dell’originale «Dylda» – una persona eccessivamente alta, magra e poco proporzionata.
In ogni caso, è un bel film che merita di essere visto. Prima o dopo lo avrei sicuramente consigliato anche per iniziativa propria. Seppure con un po’ di ritardo, in questi giorni posso inoltre augurare a tutti i lettori di organizzarsi in tempo per vederlo sullo grande schermo. Il tentativo dei germogli ancora verdi di sopravvivere in un mondo arrugginito – metafora non casuale – si osserva meglio così.
Approfitto della occasione per ribadire: secondo il mio giudizio personale, il primo film di Kantemir Balagov («Tesnota» del 2017) è uno dei migliori film russi del XXI secolo.