Milij Balakirev è uno dei più noti compositori classici non professionisti russi. Come la maggioranza dei suoi colleghi, non svolse nemmeno gli studi musicali rilevanti dal punto di vista accademico (frequentò la Facoltà di Matematica della Università di Kazan senza però laurearsi). Ma, a differenza di alcuni colleghi non professionisti, dedicò quasi tutta la sua vita professionale alla musica: insegnò il pianoforte, diresse la Scuola musicale gratuita imperiale prima e la Cappella accademica statale poi, in alcune occasioni diresse l’orchestra sinfonica patrona dalla famiglia zarista.
In qualità di compositore non scrisse tantissimo, me nemmeno poco.
Per il post musicale di oggi ho scelto probabilmente non la più ovvia tra le sue composizioni, ma una delle mie preferite: il poema sinfonico «Tamara». La versione del video è suonata dalla Orchestra Sinfonica di Montréal (direttore Kent Nagano):
L’archivio della rubrica «Cultura»
Spero che la quarantena dovuta al coronavirus – a livello globale sta ancora continuando – insegni anche una cosa importantissima per la cultura mondiale: tutti i musei devono funzionare anche in formato «Google Street View». L’ottimo esempio di quello che intendo è questo progetto dedicato alla tomba del faraone Ramses VI (prestate l’attenzione anche al soffitto).
Una visita virtuale del genere sarebbe decisamente più interessante del semplice scrolling delle immagini di un qualsiasi museo.
Il gruppo statunitense Weather Report è stato uno degli esponenti più noti del jazz fusion e, nel periodo iniziale, formato da una parte dei musicisti-collaboratori di Miles Davis. Negli anni la formazione del gruppo è cambiata molto; un po’ è variata anche la qualità della musica. Ma per il post musicale di oggi ho selezionato due brani del loro primo album «Weather Report» (del 1971).
Il primo brano è «Umbrellas»:
E il secondo brano è «Tears»:
Qualche anno fa mi ero chiesto della origine e della spiegazione «scientifica» di quel gesto minaccioso inglese che ha la forma opposta al gesto «victory». Sì, intendo quello che si fa con il polso rivolto verso interno:
Gli esperti più sereni della lingua inglese non hanno saputo spiegarmelo, quindi ho dovuto aspettare di scoprire tutto da me.
Ed ecco che relativamente poco tempo fa ho trovato una interessante leggenda. In un momento non precisamente definito della guerra dei cent’anni i francesi avrebbero deciso di tagliare quelle due dita ai famosi arcieri inglesi imprigionati. Si trattò di una specie di umiliazione attraverso la privazione delle persone dei loro principali «organi di lavoro». In risposta a tale comportamento, gli inglesi inventarono il gesto che, in sostanza, vorrebbe dire «sono ancora attrezzato per ammazzarti».
Potrebbe essere solo una leggenda, ma a me piace. Quindi aggiungo anche il link all’articolo della Wikipedia dove se ne parla.
Non tutti se ne rendono conto, ma è assolutamente possibile ignorare serenamente tutte le cosiddette «regole della moda».
Sono tutte delle stronzate assurde le affermazioni che sarà capitato di sentire migliaia di volte anche a voi: non si indossano i calzini con i sandali, non si chiudono tutti i buttoni della giacca, la cintura non va fatta passare sotto il rettangolo con il marchio dei jeans etc..
Non sono delle regole (che nella moda non possono proprio esistere), ma frutti delle credenze popolari infondate. Non hanno alcun significato e non incidono su alcunché. È solamente un insieme di richieste casuali volte a verificare la conformità della persona a un modello inesistente e quindi incomprensibile.
Si può vestirsi in qualsiasi modo che sia funzionale e/o bello per voi.
Chi non è d’accordo è il vero pervertito.
Un giorno del 1919 la madre di Samuel Barber, un ragazzo di nove anni, trovò sulla propria scrivania una lettera del figlio:
Dear Mother: I have written this to tell you my worrying secret. Now don’t cry when you read it because it is neither yours nor my fault. I suppose I will have to tell it now without any nonsense. To begin with I was not meant to be an athlet. I was meant to be a composer, and will be I’m sure. I’ll ask you one more thing. – Don’t ask me to try to forget this unpleasant thing and go play football. – Please – Sometimes I’ve been worrying about this so much that it makes me mad (not very).
Effettivamente, Samuel fu un ragazzo insolito ed ebbe, per la sua fortuna, una brava madre che seppe leggere la lettera e non le lettere. Samuel Barber riuscì dunque a studiare seriamente la musica e diventare un buon compositore.
Nel 1936 compose «Adagio per archi», ritenuto «una delle composizioni più tristi della musica classica». Io ho scelto la versione della orchestra Los Angeles Philharmonic diretta da Leonard Bernstein:
Per farvi sentire qualcosa decisamente meno triste, aggiungerei in qualità della seconda composizione il «Copricorn Concerto» del 1944 (suona la Pacific Symphony Orchestra).
Dedicarsi a ciò che piace non è sempre una brutta idea.
Per esperienza so (e alcuni di voi forse si ricordano, ahahaha) che molti studenti sono altamente creativi nello stilare la bibliografia delle proprie tesi di laurea. Il sottoinsieme più ampio di questi studenti indica dei libri che in realtà non ha mai letto (hanno semplicemente trovato il titolo «bello» da qualche parte). Il sottoinsieme un po’ più ristretto indica dei libri rari che si trovano molto difficilmente in circolazione (non escludo che questi studenti possano essere molto fortunati nelle ricerche, ma, quando li sento parlare, spesso mi viene un lecito dubbio). E poi ci sono degli studenti che citano dei libri vecchi ma, per apparire aggiornati, nella bibliografia sostituiscono l’anno di pubblicazione del libro stesso (dal contenuto della citazione, però, a volte si scopre il trucco).
Agli studenti comuni si possono perdonare molte cose. Hanno fretta di sistemare certe formalità «noiose»; hanno tante cose interessanti da fare nella vita e la ricerca scientifica raramente è una di queste.
Però, cazius, ci sono degli autori, «ricercatori», che taroccano l’anno di pubblicazione di una opera citata senza accorgersi che nell’anno da loro riportato quella opera non è stata pubblicata.
E io che faccio? Spendo mezza mattina per cercare quella opera, mi rendo conto del trucco, mi sorprendo, bestemmio e scrivo un post per il sito.
Poi mi fermo, ragiono un po’ e esprimo un desiderio: voglio che per le bibliografie vegano resi obbligatori i link alle opere citate. Tanto, ormai, la maggior parte del patrimonio scientifico e culturale è già stato – nel peggiore dei casi – scannerizzato o fotografato.
All’inizio di febbraio mi ero promesso di dedicare i singoli post musicali ai componenti del duo Simon and Garfunkel.
Oggi è arrivato il turno di Art Garfunkel e non posso non constatare che questi, a differenza del serio Paul Simon, ha sempre mostrato nella propria attività da solista delle tendenze troppo pop. Non dovremmo stupircene troppo: tutta la qualità dei testi e della musica del vecchio e glorioso duetto era garantita esclusivamente dall’impegno del suo amico-collega.
Tentando di trovare qualcosa di serenamente ascoltabile, ho selezionate le seguenti due canzoni di Art Garfunkel.
La prima canzone è «Another Lullaby» (dall’album «Angel Clare» del 1973):
E la seconda è «Crying in My Sleep» (dall’album «Watermark» del 1977):
Da oltre dieci anni Art Garfunkel ha dei continui problemi con la voce (ma ha anche una certa età) e quindi non canta quasi più. Ma io preferisco che entri nella storia musicale – meritatamente! – come la voce alta di Simon and Garfunkel.
La parola «coniuge» è una delle più cazzute in tutte le lingue del mondo che la dispongono. Può essere ammissibile nel linguaggio burocratico/notarile, mentre nel lessico umano quotidiano fa vomitare. Lo stesso vale per la parola «partner» applicata alla persona con la quale si ha un determinato rapporto intimo.
«Ciao, io sono Tizio e lei è la mia coniuge Caia».
«Buongiorno, Tizio. Io sono Maria e lui è il mio partner Sempronio».
Parlate da umani!
Si usa dire e scrivere che il film «Jojo Rabbit» di Taika Waititi parli di un bambino che è cresciuto nell’atmosfera della propaganda nazista, che vuole diventare un vero nazista e che ha un amico immaginario chiamato Adolf Hitler. Altrettanto diffusa è l’idea idillica che il bambino inizi ad allontanarsi, crescendo, dalla ideologia nazista. E poi che il bambino ama gli animali… Effettivamente, sarebbe troppo bello e facile vedere solo queste cose. Ma in realtà il film è molto più profondo e interessante di tutti gli effetti visivi elencati.
Anche se non avete ancora visto il film (veramente?), non abbiate paura di leggere qualche spoiler nel mio testo. Un buon film non è fatto di sole scene inquadrate, come un buon libro non è fatto di sole storie raccontate.
Prima di tutto bisogna rendersi conto del fatto che il protagonista del film è caratterizzato dal non compiere alcuna azione. Il nostro simpatico bambino rispetta rigorosamente (a volte anche troppo) tutte le formalità estetiche del regime sotto il quale è cresciuto (l’abbigliamento e le parole giuste), ma non riesce a fare alcunché di concreto e, allo stesso tempo, ha sempre paura. In ogni episodio della sua vita le proporzioni della paura e della incapacità variano, ma il risultato è sempre lo stesso: zero azioni. Non riesce a partecipare alle attività collettive perché ha paura; ha paura di apparire incapace e quindi non riesce ad adempiere ai compiti individuali nel bosco, sul campo e in città. Alla fine non va nemmeno a difendere fisicamente il regime e si nasconde negli sotterranei, ma lo fa sempre per paura e non per convinzione.
E infatti dobbiamo capire che il film non parla di un bambino. Il film parla di una comune persona piccola. Di quel omino che vuole necessariamente sentirsi parte di una entità grande, forte e ammirata, ma sceglie la via più semplice per raggiungere l’obiettivo: si schiera dalla parte di un leader carismatico che sa fare le promesse, che ha già una soluzione semplice per tutti, che adula abilmente i sentimenti primitivi comuni alle grandi masse delle piccole persone comuni. Gli esempi storici non si limitano al solo Hitler: anche negli anni più recenti abbiamo visto salire alla guida di molti Stati dei leader del genere. La persona piccola ascolta avidamente le belle favole del/sul proprio leader, le coltiva nella propria mente, le ritrasmette al mondo circostante. Le ritrasmette non per informare o predicare, ma per convincere gli altri (e forse se stesso) delle proprie utilità e importanza. Ma non fa nulla di concreto. Ha solo paura. Ha paura non di andare contro il sistema (un pensiero del genere non verrebbe mai nella sua mente), ma di vivere la vita attiva piena di rischi e responsabilità personali. È solo una piccola persona comune, «umile e onesta».
Le persone del genere devono essere guidate per mano nel corso di tutta la vita. Quando il grande leader del turno sparisce per sempre (prima o poi succede a tutti gli umani), la persona piccola inizia a cercarsi un’altra guida, un altro leader. Lo cerca quasi inconsciamente, lo cerca perché non sa vivere diversamente come un bambino comune non sa vivere senza la mamma. E il nuovo leader – che sorpresa – è sempre una persona presente nelle vicinanze già da tempo, ma fino a poco fa considerata un nemico che merita solo minacce e beffe.
La persona piccola si pentirà? Si pentirà almeno del proprio passato? Si pentirà per avere sostenuto qualcosa di disumano? Si pentirà per essersi comportato in modo disumano anche solo dal punto di vista morale, senza compiere delle azioni fisiche concrete? Si farà delle domande? Capirà, almeno, che ha un bisogno vitale di essere guidato, non importa molto da chi? Nella maggioranza dei casi umani la risposta è, purtroppo, no. Nemmeno se per la colpa di quel passato disumano ha perso una delle persone più care. Pure tra i parenti e i discendenti delle vittime delle repressioni staliniane ci sono tuttora moltissimi stalinisti convinti. Ma, in ogni caso, il nostro protagonista continuerà a seguire tranquillamente la corrente della vita.
«Jojo Rabbit» è un tristissimo film sul destino di una piccola persona comune.
Guardate il film se non lo avete ancora fatto. È molto attuale anche per l’Italia.