Con il decreto presidenziale № 2050 del 30 novembre 1993 fu definito l’aspetto attuale dello stemma della Russia. Molto probabilmente lo conoscete già:
Naturalmente, non si tratta di una invenzione originale di un designer ubriaco dei primi anni ’90. Lo stemma russo attuale richiama la sua versione in uso prima delle rivoluzioni del 1917. Infatti, l’aquila mutante si affermò in qualità del simbolo statale della Russia alla fine del XV secolo, mentre nell’aprile del 1857 (poco più di 160 anni fa) l’imperatore Aleksandr II approvò la riforma araldica russa mettendo la propria firma su 110 disegni degli stemmi russi. In particolare, l’uccello mostruoso adeguato nel suo aspetto agli standard araldici tedeschi divenne il simbolo ufficiale della Russia sullo stemma. È quest’ultima sua versione che possiamo oggi riconoscere sullo stemma della Federazione Russa.
Una delle teorie più popolari sul motivo della comparsa del mostro in Russia è la sua migrazione dall’Impero bizantino nella seconda metà del XV secolo. Nel 1453, proprio grazie alla immagine di questa aquila a due teste ricamata in oro sui vestiti, fu riconosciuto il corpo del caduto (e letteralmente fatto a pezzi) in battaglia l’ultimo imperatore bizantino Costantino XI Paleologo dopo la presa della Costantinopoli da parte dell’esercito del sultano Maometto II. Il Gran Principe di Mosca Ivan III sposò nel 1469 la nipote (figlia del fratello) di Costantino XI di nome Sofia Paleologa, portando dunque sul territorio del Gran Principato di Mosca anche lo stemma familiare della sposa. Mentre prima di tale matrimonio (il secondo per egli) Ivan III utilizzò in qualità dello stemma la figura all’epoca chiamata «iezdetz» (traducibile come «cavaliere»).
Due secoli e mezzo più tardi, ai tempi di Pietro I, quella figura fu proclamata la rappresentazione di San Giorgio, seppur in origine si intese un altro cavaliere che oggi ci sembra anonimo (non abbiamo alcuna informazione utile per identificarlo). Pure ora, nel XXI secolo, bisogna ricordare che sullo stemma della Federazione Russa è raffigurato non San Giorgio, ma, ufficialmente, «un cavaliere d’argento con un mantello azzurro su un cavallo d’argento che colpisce con una lancia d’argento un drago nero buttato sulle spalle e calpestato dal cavallo».
Purtroppo l’ipotesi sulla importazione dell’aquila da parte dei Paleologo è fortemente messa in crisi dal fatto che ancor prima del matrimonio tra Sofia e Ivan III l’aquila a due teste fu cognata sulle monete del Principe di Tver – cioè di un vecchio rivale del Gran Principe di Mosca – che non sposò alcuna principessa bizantina né prima né dopo la caduta della Costantinopoli. Tutti gli altri governanti del mondo che utilizzarono l’aquila a due teste nella propria simbologia araldica – dai re ittiti del secondo millennio A.C. ai sultani mamelucchi o selgiuchidi – molto probabilmente nemmeno ritennero necessario prendere in considerazione l’esempio bizantino. Vollero solamente vedere sul proprio stemma una creatura nota e allo stesso tempo di fantasia, quindi decisero di aggiungere la seconda testa alla aquila. I più svariati significati araldici – che siano legati a Zeus, Giovanni evangelista, Est-Ovest o altro ancora – furono di volta in volta inventati dai saggi di corte in base alle correnti necessità politiche.
La versione corrente della aquila russa a due teste viene descritta dall’articolo 1 della Legge Federale russa del 2000 in questo modo:
«Lo stemma di Stato della Federazione Russa è rappresentato da uno scudo araldico rosso, appuntito in basso, a quattro angoli, con gli angoli inferiori arrotondati e con l’aquila d’oro a due teste che alza le ali sciolte. L’aquila è coronata con due corone piccole e – sopra di esse – con una grande legate tra esse da un nastro. Nella zampa destra dell’aquila è posizionato uno scettro, nella zampa sinistra un globo crucigero».
[la traduzione è mia, quindi molto probabilmente ho sbagliato qualche termine araldico specifico]
Sullo stemma degli USA l’aquila (l’aquila di mare testabianca) nella zampa destra tiene un ramo d’ulivo con 13 foglie e olive, mentre nella zampa sinistra 13 frecce metalliche. È facile intuire che tali oggetti simboleggiano la pace e la guerra. Però la testa della aquila è una sola ed è girata a destra, cioè verso la pace. L’aquila russa, avendo due teste, non è costretta a scegliere tra lo scettro (il potere statele) e il globo crucigero (lo Stato unitario). Sullo stemma della Repubblica Federale Tedesca l’aquila guarda a destra, ma le sue zampe sono vuote (l’immagine risale ai tempi del Sacro Impero Romano, anche se all’epoca questa l’aquila degli Habsburg fu a due teste). Sullo stemma della Polonia l’aquila ha una testa e guarda a destra, le sue zampe sono vuote (l’uccello è lì dal X secolo, cioè dalla salita al potere della dinastia dei Piast). Sullo stemma austriaco, invece, l’aquila tiene una falce nella zampa destra e un martello nella zampa sinistra: di conseguenza, la sua testa rivolta verso destra dovrebbe testimoniare la preferenza verso il settore agricolo della economia invece che verso quello industriale.
Tra tutti i popoli europei, gli austriaci sono stati quelli più lenti a decidere sulla quantità delle teste da lasciare «sulle spalle» della aquila:
– fino al novembre 1918 l’aquila austriaca ebbe una testa e le zampe vuote;
– nel 1919 l’aquila austriaca ritornò ad avere una sola testa, ma in compenso ottenne anche la falce e il martello;
– nel 1934 la falce e il martello sparirono, ma la testa raddoppiò, sopra ognuna delle teste comparve un nimbo d’oro;
– nel 1938 avvenne l’anschluss e per ben 7 anni l’Austria rimase senza uno stemma;
– dopo la liberazione del 1945 ritornò l’aquila con una testa e gli strumenti di lavoro nelle zampe, senza il nimbo ma con le catene rotte in memoria di Adolf.
Beh, questa storia della testa doppia può portarmi ancora più lontano… Ma penso che abbiate già capito tutto.
P.S.: l’articolo italiano della Wikipedia, pur essendo brevissimo, riesce a dire un sacco di stronzate sull’argomento.
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Ed ecco che ci siamo. Oggi è l’anniversario ufficiale della rivoluzione d’ottobre. Il centesimo.
Uno dei primi concetti che dovrei trasmettere ai miei lettori italiani – anche se nel corso degli anni mi sono un po’ stancato di farlo – è un semplice dato quantitativo: nel primo quinto del XX secolo in Russia ci furono tre (3) rivoluzioni: una nel 1905 e due nel 1917. L’anniversario odierno potrebbe essere un buon motivo per (ri)scoprire questo pezzo di storia anche senza aspettare che io (o qualcun’altro) faccia un riassunto del manuale di storia. Quante volte ho chiesto di essere più precisi di fronte alle domande sulla «rivoluzione russa» o sulla «rivoluzione del 1917»! Si tratta di eventi molto diversi tra essi.
Un piccolo ricordo personale analogo. Nel corso dell’esame di storia contemporanea alla Statale di Milano ebbi una simpatica conversazione con il professore:
«Mi parli della guerra tra la Russia e il Giappone».
«Quella del 1905?»
«Se ne conosce altre…»
«Sì, quella del 1945!»
«In effetti, ha ragione».
In quel momento l’esame prese la strada facile verso il 30.
Un altro concetto importante da ricordare oggi potrebbe essere ancora più sconcertante per le menti vergini deboli: nessuna delle tre rivoluzioni russe ebbe come l’obiettivo o l’effetto la destituzione della monarchia. Nel 1905 e nel febbraio del 1917 la speranza della maggioranza fu quella delle riforme radicali nell’Impero, le quali avrebbero dovuto – tra le altre cose – limitare il potere del monarca. I vertici militari, molti nobili e intellettuali avevano nel febbraio del 1917 chiesto a Nikola II di abdicare a favore del suo unico figlio Aleksei (all’epoca tredicenne). Il principe – al quale Nikola II fu particolarmente affezionato – fu però affetto da emofilia, che si manifestò in una grave forma già dai primi mesi della sua vita. Di conseguenza, rendendosi conto della situazione nella capitale su molti tratti del fronte bellico, Nikola II abdicò prima a favore del figlio (il 2 marzo 1917) e, dopo una notte di riflessioni personali e discussioni con dei medici e politici, a favore del fratello Michail. Quest’ultimo, a sua volta, non abdicò ma cedette quasi subito il potere al Governo provvisorio specificando che deve essere una Assemblea costituente a decidere sulle future forme di Stato e di Governo in Russia.
Tale Assemblea fu realmente creata, ma si riunì solo una volta – il 5 gennaio 1918 nella sede della ex Duma del periodo pre-rivoluzionaria – dopo di che fu sciolta dai bolshevichi.
Se siete attenti alle date, potete accorgervi che nel mezzo tra gli eventi appena citati vi fu la rivoluzione dei bolshevichi (proprio quella che oggi compie 100 anni). I miei lettori sono bravi, mentre all’epoca in pochissimi si erano accorti di tale evento. In sostanza, solo gli abitanti di Pietrogrado (per una ennesima nottata di disordini) ed i rappresentanti di quei partiti rivoluzionari che nel corso delle accese discussioni sul futuro dello Stato si accorsero all’improvviso che un gruppo minoritario si autoproclamò con la forza come il partito di governo.
Per allineare la realtà dei fatti con la suddetta autoproclamazione ci vollero altri cinque anni. Solo nel 1922 fu infatti istituita l’URSS. Proprio in quel periodo tra il 1917 e il 1922 si verificò la lotta armata e attiva di un determinato gruppo di persone per il potere e contro tutte le forze preesistenti.
Però la minoranza che vuole ottenere il potere vuole sempre spacciarsi per la maggioranza. E, dato che un periodo di cinque anni è un po’ troppo lungo per eliminare fisicamente la presunta minoranza, nella storiografia sovietica (e poi mondiale) la rivoluzione sarebbe avvenuta in un breve periodo del 1917.
Molte delle «conquiste» di quella rivoluzione mi ricordano qualcosa che si osserva attualmente in uno degli Stati dell’Est. In quello Stato, infatti, un gruppetto di persone, senza fare troppo rumore, si è appropriato del potere eliminando (spesso fisicamente) tutti i concorrenti; non ammette la critica e definisce come nemici coloro che si permettono di criticare; giustifica la propria permanenza al potere attraverso la contrapposizione con l’Occidente; attribuisce all’Occidente la colpa di tutti i mali possibili, etc.etc.
L’unica differenza sta nel fatto che evita in maniera paranoica la sola parola rivoluzione. La paranoia è tanto forte da non permettere nemmeno di ricordare la rivoluzione del 1917 nell’anno del suo centenario. In quello Stato, infatti, le Istituzioni evitano in tutti i modi di parlarne o di permettere a parlarne.
Ieri pomeriggio avevo notato una certa quantità di repost della notizia sul ritrovamento di una fossa comune di oltre quattrocento bambini in Scozia. Penso che per la maggioranza delle persone si tratti di un evento eccezionale se non singolare. Male, molto male. La conoscenza della Storia in generale e della storia giudiziaria in particolare aiutano tanto a non rimanere sorpresi di fronte alle cose in realtà banalissime (purtroppo banalissime).
Come è indicato in tutti gli articoli sul caso in questione che mi è capitato di leggere, tutti i bambini sarebbero morti tra il 1864 e il 1981. I primi 37 anni di quel periodo coincidono dunque con l’età vittoriana, cioè quella epoca nel corso della quale nel Regno Unito nasce la cosiddetta attività di baby-farming. Troverete tanti dettagli al link, mentre io sottolineo gli aspetti più interessanti in questo momento. Tante madri che rifiutando i propri neonati o comunque figli piccoli, avevano la possibilità di affidarli alle baby-farm gestite solitamente dai privati/famiglie, ma anche da altre «formazioni sociali». L’obiettivo dichiarato delle baby-farm era quella di trovare una nuova sistemazione permanente per i bambini abbandonati. In cambio del proprio lavoro prendevano una somma settimanale oppure una importante somma «una tantum»: in entrambi i casi quei soldi servivano anche per il mantenimento dei bambini.
I lettori potrebbero chiedere: perché le madri non potevano o non volevano occuparsi direttamente del destino dei propri figli non voluti? Non lo potevano fare a causa di una doppia morale ipocrita che ha caratterizzato praticamente tutta l’epoca vittoriana: infatti, i valori protestanti convivevano con, per esempio, con le case di lavoro, forti disparità nelle famiglie e una totale tolleranza della prostituzione (quasi la metà di Londra fu di fatto composta di case chiuse più o meno legali/professionali). Così, più in concreto, rimaneva in vigore «Poor Law Amendment Act» del 1834, uno dei punti del quale vietava alle madri non sposate chiedere gli alimenti ai padri dei loro figli. Attraverso tale norma si sperava di raggiungere tre obbiettivi: 1) escludere ogni possibilità di estorsione da parte delle donne (gli uomini non avevano ancora i mezzi scientifici per dimostrare la propria non-paternità); 2) stimolare i matrimoni formali e legali; 3) non moltiplicare il parassitismo delle donne povere perennemente incinte a spese degli uomini costretti a mantenerle. Nella vita reale, naturalmente, le donne furono costrette a scegliere tra l’aborto clandestino, l’abbandono del neonato o il ricorso al baby-farming. La terza scelta fu economicamente la più sensibile ma anche la più umana: permise a tante madri di sperare nella sopravvivenza e in un futuro non troppo grigio dei propri figli. La situazione fu aggravata da una formale disapprovazione delle madri sole: non ebbero la possibilità di trovare un lavoro fuori dalle case di lavoro (previste dallo stesso Atto) o ottenere aiuti.
Di conseguenza, il baby-farming fu un fenomeno molto richiesto dalle donne del Regno Unito dell’epoca. Molto richiesto e, allo stesso tempo, esercitato dalle persone con una concezione di onestà non omogenea. Alcune di esse svolsero la propria attività in modo responsabile, cercando e spesso trovando delle nuove famiglie per i bambini affidati a loro. Altri operatori del baby-farming, invece, si comportarono in un modo che avreste già potuto ipotizzare da voi: prendendo la somma totale per il mantenimento del bambino per liberarsi dell’assistito (uccidendolo, non curandolo se malato o lasciandolo morire di fame – all’epoca fu facile mettersi d’accordo con gli ispettori). Prendendo «in gestione» tanti bambini si raccoglieva, col tempo, un buon capitale. Proprio a uno dei casi più rilevanti di tale comportamento criminale è dedicato il libro che potrei consigliarvi:
Alison Rattle, Allison Vale, «Amelia Dyer: Angel Maker: The Woman Who Murdered Babies for Money», Andre Deutsch, 2007
Non so se nell’orfanotrofio scozzese, dalla storia del quale siamo partiti, sia mai stata utilizzata la stessa logica commerciale o, nel corso del XX secolo, una qualche sua forma modernizzata (in realtà non voglio finire sotto processo). Vi solo accennato della prassi storica che ricopre una parte del periodo al quale appartengono i corpi ritrovati.
Radiooooo (http://radiooooo.com/) è un progetto interessante.
Scegliendo il decennio dalla lista e lo Stato sulla mappa, è possibile ascoltare la musica che giravano alla radio in quel periodo storico da quelle parti.
Una persona attenta (o, se preferite, pignola) potrebbe chiedersi sul perché in Russia e quasi tutta l’ex URSS la vittoria nella Seconda guerra mondiale si festeggi il 9 maggio invece che l’8 (come si usa in Europa). Penso che oggi sia il giorno giusto per spiegare questo fenomeno.
Andiamo in ordine cronologico. Il 7 maggio 1945 nella città francese Reims fu firmato l’atto di capitolazione delle forze armate tedesche.
Dall’atto furono previsti la cessazione dei combattimenti, la resa di tutti i militari tedeschi e il passaggio agli Alleati della coalizione vincente di tutti gli armamenti del Wehrmacht. Per la Germania firmò il colonnello-generale Alfred Jodl, mentre per gli alleati il generale statunitense Walter Bedell Smith e il maggior-generale sovietico Ivan Susloparov.
L’entrata in vigore dell’ordine di resa per le forze armate tedesche fu prevista per le ore 23:01 CET dell’8 maggio 1945. Subito dopo la firma della resa Henry Truman e Winston Churchill comunicarono ai propri concittadini la notizia ufficiale della fine della guerra. Ecco la reazione dei newyorkesi:
Iosif Stalin, però, si rifiutò di riconoscere la resa firmata a Reims e pretese che tutta la cerimonia venisse rifatta sul territorio tedesco occupato dalle forze dell’URSS. Inoltre, chiese l’annullamento dell’atto di resa appena firmato a Reims. La seconda richiesta fu fermamente declinata da Truman e Churchill perché le popolazioni dei loro Stati non avrebbero compreso il senso di tale sottile gioco politico. Avere due atti di resa è comunque meglio che averne uno. Quindi il testo di Reims con alcune modifiche apportate dalla parte sovietica fu firmato l’8 maggio a Karlshost (Berlino). Firmarono i generali Keitel e Stumpff e l’ammiraglio Friedeburg per la Germania, il maresciallo Arthur Tedder per gli Alleati occidentali e il maresciallo Zukov per l’URSS.
La data e l’ora della resa già stabiliti a Reims non furono modificate, quindi gli Alleati occidentali da sempre festeggiano la Vittoria l’8 maggio. Negli Stati del Commonwealth i festeggiamenti partirono già il 7 maggio 1945 dopo la diffusione delle prime notizie sulla firma di Jodl.
In URSS il primo comunicato ufficiale sulla resa firmata dalla Germania fu diffuso alle ore 02:10 del 9 maggio 1945. Di conseguenza, proprio il 9 maggio fu proclamato in URSS la Giornata della Vittoria. Dal 1947 al 1964 è stato un giorno lavorativo.
Oggi è l’anniversario della catastrofe tecnologica di Chernobyl. Per ora ho poco da aggiungere a quanto ho già scritto sull’argomento nel 2016. Quindi oggi mi limito a pubblicare una raccolta di video e foto della città di Pripyat, concentrandomi su quel che resta degli appartamente privati.
Tutte le foto sono di Sergei Melnikov.
Due settimane fa avevo postato una porzione delle foto ritraenti la vita quotidiana sovietica degi anni ’50–’80.
Oggi, invece, vi consiglio l’autore di altre foto interessanti: il maggiore Martin Manhoff (ne avevo già scritto un mese e mezzo fa in un’altra occasione). Manhoff fu l’addetto militare della ambascita statunitense a Mosca dal 1952 al 1954 e fino al momento di essere stato espulso per spionaggio scattò tante belle foto dell’URSS di quegli anni. Non solo a Mosca, ma anche a Leningrado, alcune altre città e lungo la ferrovia Transiberiana.
Un certo Douglas Smith (non ho capito bene chi sia questo tipo) dopo la morte della vedova di Manhoff si è appropriato delle foto e ha iniziato a pubblicarle: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10155847922929625&id=629794624
Il fazzoletto rosso sul collo è la «cravatta del pioniere»: di forma triangolare, doveva essere portata in quel modo.
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La Russia contemporanea ha ereditato dall’URSS una serie di feste, la maggior parte delle quali non ha mai avuto alcun senso. Alcune di queste fortunatamente sono state abrogate (come, per esempio, la festa dalla rivoluzione), altre non sono più delle festività ufficiali. Qualcuna, come la «festa del difensore della patria» (23 febbraio), sopravvive ancora.
Solo due feste del periodo sovietico sono generalmente riconosciute dai russi: il Capodanno (ritenuto importante quanto il Natale in Europa) e il Giorno dei cosmonauti (che si festeggia il 12 aprile).
Appena (?) 56 anni fa, il 12 aprile 1961, è stato lanciato nello Spazio il primo uomo della Storia, Yuri Gagarin. A partire dalle 10:48 (l’ora di Mosca) di quel grande giorno Gagarin è una delle persone più strumentalizzate del mondo: lo è stato in sette anni di vita che gli erano rimasti, in occasione della morte, ma pure ora. Oggi, per esempio, anche negli Stati che non festeggiano l’anniversario del suo famoso volo orbitale si parlerà molto di lui. Solo oggi e solo di lui: al suo nome si associa uno dei pochissimi successi positivi sovietici. Nonostante la competizione nel settore spaziale abbia condannato a decenni di fame l’intero popolo, oggi il volo di Gagarin è un successo che non viene messo in discussione nemmeno dai più critici. Ma lui, Gagarin, fu stato solo fortunato: lo scelsero tra altri 20 candidati per il sorriso fotogenico. E, soprattutto, fu il primo uomo a essere tornato vivo dallo Spazio.
Non è stato altrettanto fortunato Sergei Korolev, il progettista dei primi razzi, satelliti e navicelle sovietici. E’ stato lui a far compiere alla umanità il passo più grande: quello la portò nello Spazio. Oggi, purtroppo, è festeggiato da pochissimi. Eppure lo Stato che grazie ad egli ottenne una delle feste più belle, rischiò di ammazzarlo con le proprie mani nei campi di lavoro. Viste le statistiche delle repressioni staliniane, c’è da chiedersi quanti altri korolev non sono proprio sopravvissuti.
Ah, e noi, nonostante le fantasie di moltissimi scrittori, non ci siamo ancora allontanati dal sistema solare.
Thomas Taylor Hammond (1920–1993) fu il professore della storia russa alla University of Virginia dal 1949 al 1991. Ma noi dobbiamo ammirarlo per un’altra cosa.
Dalla fine degli anni ’50 all’inizio degli anni ’80 Hammond venne più volte nell’URSS (ed è normale perché deve approfondire la materia studiata sul campo), visitando diverse città: Mosca, Leningrado, Kiev, Jaroslavl, Samarkanda e alcune altre. La cosa per noi importantissima è che Hammond scattò, nel corso dei suoi viaggi, un sacco di fotografie a colori. Non furono delle solite foto del cazzo che i turisti «normali» fanno in giro (tipo i monumenti storici o i piatti presi al ristorante), ma le foto della vita quotidiana sovetica. Ma è proprio la vita quotidiana a sparire per sempre mentre i monumenti restano ai loro posti per secoli (sì, io sono uno dei pochi a capirlo).
Grazie all’impegno di Thomas T. Hammond anche voi potete vedere un po’ della vita quotidiana sovetica, un po’ di storia delle persone normali. L’intero archivio si trova sotto questo link (2885 scatti, 9,5 GB), mentre io vi faccio vedere solo alcuni esempi.
La cabina del telefono pubblico, modello anni ’50–’60:
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