Diciotto anni fa, il 20 agosto 2000, l’ultimo imperatore russo Nikola II, la sua moglie Aleksandra e i loro cinque figli sono stati canonizzati dalla Chiesa ortodossa russa come portatori della passione. Non avrei mai ritenuto necessario scriverne se questa non fosse stata una delle prime importanti «operazioni congiunte» politiche tra la Chiesa ortodossa russa e lo Stato nella storia recente della Russia.
Negli anni ’90 del XX secolo, cioè nel periodo dei preparativi all’evento, la sola idea della monarchia era per nulla popolare nella società russa (divisa in nostalgici del periodo comunista e i sostenitori della democrazia). Inoltre, i 22 anni e mezzo di regno di Nikola II ci forniscono ben pochi elementi per considerarlo – almeno dal punto di vista della morale contemporanea – un santo. Repressioni politiche, guerre, il rammarico più volte espresso per i troppi pochi manifestanti uccisi dalla polizia, il quasi totale disinteresse per propri obblighi «lavorativi» da monarca, la passione per la caccia tale da sparare a ogni animale o uccello incontrato per strada (ebbene sì, i cani e i gatti compresi), una visione particolare della Chiesa ortodossa tanto originale da autoproporsi (all’inizio del ’900) come candidato alla posizione di Patriarca, etc. L’unico pregio indiscutibile: fu un buon padre di famiglia. Ma questa ultima caratteristica non proprio sufficiente per diventare un santo.
Insomma, negli anni ’90 i vertici politici della Russia non avevano il coraggio di riproporre almeno in una minima parte il quadro socio-politico precedente alla rivoluzione (oggi, invece, hanno il coraggio: tra sei anni potremmo avere di nuovo uno zar, indovinate il nome). Quindi avevano deciso di mascherare la riabilitazione dell’istituto stesso della monarchia con la canonizzazione dell’ultimo monarca. E il pretesto «tecnico» capace di soddisfare almeno la metà della popolazione consiste proprio negli ultimi sedici mesi della sua vita. Cioè nel come ha affrontato il periodo più pesante della sua vita: i mesi sotto l’arresto e la morte. Nei suoi diari, infatti, possiamo leggere che Nikola II destituito affronta tutte le difficoltà senza cattiveria o/e sete di vendetta, quasi con umanità e umiltà, accettando tutto come la volontà di colui in chi credeva.
Di conseguenza, è stato canonizzato non per la vita condotta in modo giusto e non come un martire (ucciso dai creatori di un regime politico ancora più disumano del suo), ma come un portatore della passione. Quest’ultima espressione, utilizzata prevalentemente dalla Chiesa ortodossa, indica le persone che affrontano la morte sofferente dalla mano dei loro nemici non per la fede, ma per cattiveria, cupidigia o perfidia.
L’intenzione di fare un primo passo verso la riabilitazione della monarchia è inoltre coincisa con la volontà di canonizzare una vittima esemplare (oppure è meglio dire simbolica?) del regime comunista. In tal senso la scelta è stata fatta bene: in seguito alle turbolenze politiche del 1917 l’imperatore Nikola II ha perso molto più di qualsiasi altro russo.