L’archivio del tag «storia»

Il padre del Ded Moroz

Due anni fa mi era già capitato di scrivere della figura di Ded Moroz, cioè il personaggio che in Russia (e tanti altri Stati dell’ex URSS) porta i regali la notte del Capodanno invece che per il Natale. La scelta di sostituire la festa e il relativo personaggio «mitologico» ha una chiara fondatezza ideologica.
Ebbene, poco fa ho scoperto che il personaggio politico sovietico che per primo – negli anni ’30 – formulò l’idea di dare alla popolazione una festa sostitutiva del vietato Natale, si è guadagnato un articolo storicamente decente sulla Wikipedia italiana.
Come sanno o immaginano alcuni miei lettori, l’autore del presente post è un agnostico con delle forti tendenze all’ateismo. (Tra parentesi: l’ateismo vero presuppone un livello di conoscenza che devo ancora raggiungere.) Di conseguenza, l’opinione condivisa da tutta la redazione del mio blog personale è la seguente: qualora la sopracitata fortunata proposta di Pavel Postyshev fosse stata la sua unica azione politica e professionale, oggi avremmo avuto un nome concreto da ricordare positivamente durante uno dei numerosi brindisi della notte di Capodanno.
E invece siamo costretti a prendere il meglio da una persona del cazius…


Non per festeggiare

Tre giorni fa, il 18 dicembre, c’è stato un anniversario che il nostro mondo avrebbe felicemente evitato: 140 anni dalla nascita di Iosif Stalin. E io avrei felicemente evitato l’argomento se esso non fosse caratterizzato da un dettaglio curioso.
Come molto probabilmente sanno i miei lettori, non si ha una certezza assoluta sulla effettiva data di morte di Stalin. Allo stesso tempo, non tutti potrebbero sapere che pure sulla data di nascita ci sono stati alcuni dubbi. Infatti, per lunghi decenni la storiografia sovietica e gli organi politici sostennero che Iosif Stalin fosse nato il 21 dicembre 1879.
Allo stesso tempo, sul registro della chiesa dove fu battezzato Stalin, la data è indicata correttamente. Proprio su quella registrazione si basano le informazioni sulla nascita di Stalin contenute nei verbali di arresto e nei testi delle condanne penali del periodo zarista. Sempre corretta è la data di nascita sull’unico documento indubbiamente compilato da Stalin stesso (un questionario compilato su richiesta del giornale social-democratico svedese Folkets Dagblad Politiken). Di conseguenza, è evidente che Stalin non ebbe mai l’intenzione di nascondere la propria data di nascita reale.
Come si spiega dunque la data sbagliata? La spiegazione più plausibile è anche quella più semplice: un errore di battitura mai corretto. Gli storici e gli archivisti, infatti, si sono da tempo accorti che la data di nascita sbagliata di Stalin compare per la prima volta nei documenti del VI Congresso del Partito social-democratico operaio dei bolshevichi (in sostanza il futuro Partito comunista sovietico). Quel Congresso si tenne dall’8 al 16 agosto del 1917. È facile dunque che in quel momento storico e in quelle circostanze vi furono poche persone particolarmente brave nell’uso delle macchine da scrivere. L’anno 1878 è dunque diventato 1879 e il 6 dicembre è diventato il 9 (entrambi i giorni indicati ancora secondo il calendario giuliano, utilizzato in Russia fino al 1918).
Chi ripeteva l’errore nei propri testi, non aveva dei motivi di mettere in dubbio la data indicata dalla propria fonte di riferimento, mentre Stalin non leggeva di certo tutte le note biografiche riguardanti la sua persona (o, almeno, prestava l’attenzione ad altri dettagli).
Quale è stato l’obbiettivo di questo mio post? Liberare i miei lettori dai possibili dubbi nel caso della lettura di due date diverse sia nel giorno che nell’anno.
L’unica data corretta è il 18 dicembre 1878.


L’altro ingresso

Nella vita reale è importantissimo capire un semplice principio (possiamo anche chiamarlo life hack): se non riuscite a trovare la soluzione di un problema, cercatela dalla parte opposta.
Vediamo subito un esempio storico. L’ex presidente Theodore Roosevelt, essendo molto insoddisfatto del proprio successore William Taft, decise nel 1912 di tornare alla Presidenza. Durante la campagna elettorale, dunque, pensò di distribuire 3 milioni di opuscoli con il testo di un proprio discorso e una foto sulla copertina.
Nella parte bassa della foto è ben visibile la scritta «copyright 1910 by moffett studio chicago». Vediamola subito per capire di cosa si tratta.

Solo quando gli opuscoli furono ormai stampati, il capo della squadra di Roosevelt (un certo George Walbridge Perkins I) si accorse di quella scritta. E comprese subito tutta la catastroficità dell’errore: non fu ottenuta l’autorizzazione all’uso della foto. La legge sui diritti d’autore avrebbe dunque consentito al fotografo di chiedere 1 dollaro per ogni copia della foto distribuita. I 3 milioni di dollari del 1912 equivalgono ai 60 milioni di dollari di oggi. Si volle dunque evitare una spesa del genere. Allo stesso tempo, la ristampa degli opuscoli con una foto diversa avrebbe comunque comportato delle spese (e una perdita di tempo).
G. W. Perkins decise di contattare il fotografo Moffett per cercare di concordare le condizioni migliori. E gli inviò un telegramma: «Intendiamo distribuire tre milioni di opuscoli con la foto di Roosevelt sulla copertina. È una ottima opportunità per il fotografo. Quanto è disposto a pagare se scegliamo una delle sue foto? È necessaria una risposta immediata». Maffett fu veloce a rispondere: «Vi ringrazio per l’opportunità, sono disposto a pagare 250 dollari».
P.S.: come avrete capito da questa storia, un altro life hack si chiama «studiate». Ma lo conoscete già senza il mio aiuto.


Un momento

Ora mi è tutto chiaro…
Nel medioevo esisteva una unità di misura del tempo chiamata «momento». Era pari a 90 secondi, cioè 1/40 dell’ora solare.
Ed io conosco delle persone che usano tutt’ora questa unità nella vita quotidiana.


La lingua nazionale

Da dove arrivarono gli antenati degli statunitensi: la nazionalità dominante nei quadrati del territorio 100×100 miglia.

Al giorno d’oggi negli Stati Uniti quasi 50 milioni di persone si autodefiniscono discendenti degli immigrati tedeschi: molti più di quelli originari del Regno Unito. Nella maggioranza delle città americane esisteva almeno un giornale locale in lingua tedesca; a New York ce n’erano dodici.
Nel 1917, però, gli USA entrano nella Prima guerra mondiale e l’uso del tedesco diventa anti-patriottico. Cambiano molti termini comunemente diffusi (per esempio, frankurter diventa hot dog) e cognomi (per esempio, Schmidt diventa Smith), in molti Stati viene vietato l’insegnamento della lingua tedesca nelle scuole (a volte anche nelle scuole private). Nel 1923 la Corte Suprema riconosce l’incostituzionalità di tutte le limitazioni, ma il danno ormai è fatto. La lingua tedesca è quasi completamente sparita dall’uso nei luoghi pubblici e quindi nella vita quotidiana.
A causa di una aggressiva politica imperiale russa lo stesso succede oggi nelle ex Repubbliche sovietiche con la lingua russa.
Alla base c’è sempre la stupidità.


Una famiglia di santi

Diciotto anni fa, il 20 agosto 2000, l’ultimo imperatore russo Nikola II, la sua moglie Aleksandra e i loro cinque figli sono stati canonizzati dalla Chiesa ortodossa russa come portatori della passione. Non avrei mai ritenuto necessario scriverne se questa non fosse stata una delle prime importanti «operazioni congiunte» politiche tra la Chiesa ortodossa russa e lo Stato nella storia recente della Russia.
Negli anni ’90 del XX secolo, cioè nel periodo dei preparativi all’evento, la sola idea della monarchia era per nulla popolare nella società russa (divisa in nostalgici del periodo comunista e i sostenitori della democrazia). Inoltre, i 22 anni e mezzo di regno di Nikola II ci forniscono ben pochi elementi per considerarlo – almeno dal punto di vista della morale contemporanea – un santo. Repressioni politiche, guerre, il rammarico più volte espresso per i troppi pochi manifestanti uccisi dalla polizia, il quasi totale disinteresse per propri obblighi «lavorativi» da monarca, la passione per la caccia tale da sparare a ogni animale o uccello incontrato per strada (ebbene sì, i cani e i gatti compresi), una visione particolare della Chiesa ortodossa tanto originale da autoproporsi (all’inizio del ’900) come candidato alla posizione di Patriarca, etc. L’unico pregio indiscutibile: fu un buon padre di famiglia. Ma questa ultima caratteristica non proprio sufficiente per diventare un santo.
Insomma, negli anni ’90 i vertici politici della Russia non avevano il coraggio di riproporre almeno in una minima parte il quadro socio-politico precedente alla rivoluzione (oggi, invece, hanno il coraggio: tra sei anni potremmo avere di nuovo uno zar, indovinate il nome). Quindi avevano deciso di mascherare la riabilitazione dell’istituto stesso della monarchia con la canonizzazione dell’ultimo monarca. E il pretesto «tecnico» capace di soddisfare almeno la metà della popolazione consiste proprio negli ultimi sedici mesi della sua vita. Cioè nel come ha affrontato il periodo più pesante della sua vita: i mesi sotto l’arresto e la morte. Nei suoi diari, infatti, possiamo leggere che Nikola II destituito affronta tutte le difficoltà senza cattiveria o/e sete di vendetta, quasi con umanità e umiltà, accettando tutto come la volontà di colui in chi credeva.
Di conseguenza, è stato canonizzato non per la vita condotta in modo giusto e non come un martire (ucciso dai creatori di un regime politico ancora più disumano del suo), ma come un portatore della passione. Quest’ultima espressione, utilizzata prevalentemente dalla Chiesa ortodossa, indica le persone che affrontano la morte sofferente dalla mano dei loro nemici non per la fede, ma per cattiveria, cupidigia o perfidia.
L’intenzione di fare un primo passo verso la riabilitazione della monarchia è inoltre coincisa con la volontà di canonizzare una vittima esemplare (oppure è meglio dire simbolica?) del regime comunista. In tal senso la scelta è stata fatta bene: in seguito alle turbolenze politiche del 1917 l’imperatore Nikola II ha perso molto più di qualsiasi altro russo.


La casa di Giulietta

Alla fine di giugno avevo pubblicato il rapporto sul mio viaggio a Verona. Una parte di quel racconto è dedicate alla cosiddetta «casa di Giulietta». Quella casa che alla fine degli anni ’30 del XX secolo è stata ristrutturata per assomigliare alle scenografie del film «Romeo e Juliet» di George Cukor (1936). I turisti non vanno delusi, vero?
Per assicurare la salvezza delle foto che testimoniano le condizioni della casa precedenti ai lavori in questione, oggi le posto sul mio blog (dato che nei reportage c’è lo spazio per le foto scattate da me).
La prima foro è della fine del XIX secolo:

La seconda foto è degli anni ’40 del XX secolo:

Bonus Photo: chi non conoscesse l’aspetto attuale della «casa di Giulietta» e non avesse la voglia di leggersi il mio racconto, ecco la foto scattata nel dicembre del 2017:


Un altro centinario

La notte tra il 16 e il 17 luglio 1918 a Ekaterinburg è stato fucilato l’ultimo imperatore russo Nikolai II (non so perché in Italia si preferisce chiamarlo con il riduttivo zar), i membri della sua famiglia, il loro medico e i tre domestici.
Non trovo comunque che la data odierna – un centenario simbolico quasi come quello delle rivoluzioni del 1917 – sia più o meno tragica di tutte quelle legate agli avvenimenti che hanno preceduto o seguito il cambio del regime in Russia. Se pensiamo al ruolo politico e sociale ovviamente nullo che Nikolai II ebbe negli ultimi mesi della sua vita, la sua morte divenne solo una delle numerose voci della cronologia.
(Circa l’opportunità di utilizzare la parola morte nel presente contesto è comunque da leggere il bel libro «Nikolas II» dello storico francese Marc Ferro.)
Utilizzo dunque il prestesto storico per ricordare una informazione banale, facilmente reperibile, ma inspiegabilmente ignorata dalla maggioranza delle persone capaci di leggere e di comprendere del mondo. Nikolai II, i suoi antenati e i suoi figli non appartenevano alla dinastia Romanov.
Infatti, la dinastia Romanov governò la Russia dal 1613 al 1730 ed ebbe sei esponenti: gli zar Mikhail (dal 1613 al 1645), Aleksei (dal 1645 al 1676), Fedor (dal 1676 al 1682), Ivan V (dal 1682 al 1696), Petr I (dal 1682 al 1725, nel 1971 divenne Imperatore) e Petr II. Come potete notare, Ivan V e Petr I iniziarono a governare nello stesso anno: furono due fratelli; il passaggio del potere a uno solo di loro è l’argomento di molti libri di storia. Ai fini del presente post conta il fatto che al momento della morte di Petr I (detto il Grande) non ebbe figli maschi legalmente capaci di ereditare il trono.
Dopo la morte di Petr I al trono salì la sua vedova Ekaterina I. Dopo la morte di quest’ultima divenne l’Imperatore Petr II (il nipote di Petr I dal primo matrimonio) ma morì nel 1730 all’età di 14 anni senza lasciare eredi (non fu una grande sorpresa nemmeno per quei tempi).
In seguito alla morte di Petr II e alcuni intrighi che vi risparmio al trono si stabilì la dinastia tedesca dei Holstein-Gottorp. Proprio questa dinastia si autorizzò praticamente da sola ad aggiungere al proprio cognome anche la componente «Romanov» (marketing reale) e governò la Russia fino al 1917. Di conseguenza, non trovo tento corrette – almeno dal punto di vista storico – le battute sulla scarsa fortuna dei tedeschi in terra russa. Hanno governato la Russia senza grossi problemi per quasi due secoli!
Concludo il post di oggi con due disegni applicati oggi sulle pareti di un sottopassaggio a Ekaterinburg. Uno di fronte all’altro. I fucilati da una parte e i loro boia di fronte.


L’efficienza

Nel 1858 le ferrovie inglesi introdussero un metodo originale di risparmiare il tempo: per non fermarsi alle stazioni intermedie i treni espresso semplicemente «sganciavano» poco prima dell’arrivo le carrozze con i passeggeri diretti a quella stazione. La carrozza continuava il moto per inerzia e veniva fermata in corrispondenza della banchina con il freno avviato dal suo addetto.
Tale pratica venne mantenuta fino al 1960.


Una lettura estiva

Si avvicina un periodo in cui molte persone vanno (o si preparano a farlo) in vacanza. Di conseguenza, è il momento giusto per consigliare un libro grande e bello: «Everything was Forever, Until it was No More: The Last Soviet Generation» di Alexei Yurchak.
Questo libro è un tentativo di spiegare perché lo Stato sovietico, apparentemente così solido e «immortale», di fatto si polverizzò in pochi giorni d’agosto del 1991. Direi che si tratta di uno dei tentativi migliori che mi sia capitato di leggere. Non è una lettura facile. È un testo scientifico serio, un mix tra scienza politica, filosofia, sociologia e psicologia. Ma dopo averlo letto capirete molte cose dell’URSS e, probabilmente, della Russia post-sovietica.

Per tutti coloro che si specializzano nello studio della Russia si tratta di un libro consigliato con una forza che lo rende obbligatorio.