Esistono i cantanti che sanno cantare (relativamente pochi).
Esistono i cantanti che non sanno cantare ma si ostinano nel tentare di farlo (tantissimi, direi la maggioranza schiacciante).
Esistono i cantanti che non sanno cantare, lo sanno e quindi per non fare una brutta figura semplicemente parlano, cercando di seguire il ritmo della musica (numerosi, ma non tantissimi).
Tra i rappresentanti della terza categoria dei cantanti a volte capitano degli esempi interessanti, meritevoli di attenzione. Il post musicale di oggi è dedicato a uno di loro: Mark Knopfler.
La sua prima canzone selezionata per oggi è la «Silvertown blues» (dall’album «Sailing to Philadelphia» del 2000):
Mentre la seconda è la «What It Is» (dallo stesso album):
L’archivio del tag «rock»
Il post musicale di oggi si apre con una lezione di Joanna Connor su come far divertire i propri vicini di casa senza farli diventare dei nemici mortali (solo la gente con scarsa fantasia si ripete ogni anno con le solite grigliate).
In qualità del secondo video metterei un breve pezzo della sua esibizione al Western MD Blues Festival.
Mi ricordo che anni fa, quando avevo visto per la prima volta Joanna Connor in un video (e non conoscendola ancora), non riuscivo proprio a concentrarmi sulla musica. Ma poi mi sono abituato.
All’inizio di settembre avevamo già incontrato Chris Isaak nella mia rubrica musicale. Oggi propongo di approfondire la ricerca del perché del suo soprannome «Elvis dei giorni nostri» (datogli negli anni ’80 del XX secolo). A tal fine ascoltiamo due sue canzoni.
La prima è la «You Owe Me Some Kind of Love» (dall’album «Chris Isaak» del 1986):
E la seconda è la «Baby Did A Bad Bad Thing» (dall’album «Forever Blue» del 1995):
Sarà giustificato il soprannome?
Devo raccontarvi chi era Elvis Presley? Non penso.
Dato che quattro giorni fa, l’8 gennaio, avrebbe compiuto 84 anni, lo ricorderei nella mia rubrica musicale con due brani – entrambi dall’album «His Hand In Mine» del 1960. Nonostante fosse morto oltre quarant’anni fa, penso che molte sue canzoni siano ancora ascoltabili.
La prima canzone è «His Hand In Mine».
E la seconda è «I’m Gonna Walk Dem Golden Stairs».
Un mese e mezzo fa avevo postato due canzoni di Alan Parsons’ Project. E subito avevo pensato di dover postare, un giorno, anche qualcosa di Alan Parsons stesso. Sarebbe logico, vero? Ebbene, il momento è giunto.
In realtà la differenza principale tra Alan Parsons’ Project e Alan Parsons è la libertà di Parsons di registrare cosa e come egli voleva (senza concordare il tutto con il collega dell’APP Eric Woolfson). Mentre per il resto il modo di lavorare è rimasto lo stesso.
Beh, la libertà è una prova che ognuno supera come può.
La prima delle canzoni di Alan Parsons scelte è la «Back Against the Wall» (dall’album «Try Anything Once» del 1993):
Mentre la seconda è la «Wine from the Water» (sempre dall’album «Try Anything Once» del 1993):
La data odierna è una delle più adatte per dedicare il post musicale del sabato ai Queen. Considerando però la larga notorietà del gruppo, mi sembra poco utile pubblicare i video delle loro canzoni più note (altrettanto poco utile è spendere il tempo e le forze per tentare di sceglierne solo due).
Per illustrare i lati purtroppo poco noti del loro valore musicale (ed è importante precisare che per i Queen intendo sempre e solo la formazione classica Mercury – May – Deacon – Taylor) ho scelto le seguenti due canzoni.
Prima di tutto la «Sail Away Sweet Sister» (dall’album «The Game» del 1980):
E poi un po’ cupa, ma allo stesso tempo fiabesca, «White Queen» (dall’album «Queen II» del 1974):
The Alan Parsons Project è stato un gruppo anomalo già dal momento della sua nascita: è stato formato da due trentenni (Eric Woolfson e Alan Parsons) che prima di allora non avevano mai fatto una esperienza del genere (si solito si inizia a suonare e formare i gruppi con circa quindici anni di età in meno). Inoltre, il gruppo non ha mai avuto – almeno formalmente – una formazione stabile (oltre ai due fondatori). Il terzo elemento importantissimo della anomalia del gruppo è la stilistica musicale: l’utilizzo costante della orchestra e la scelta della voce più adatta per ogni singolo brano.
Nel post musicale di oggi inserisco due opere del periodo migliore del gruppo.
La prima è la «Eye in the Sky» (dall’album «Eye in the Sky» del 1982):
E la seconda è la «The Turn of a Friendly Card» (dall’album «The Turn of a Friendly Card» del 1980), cioè la canzone con la quale ho avuto la fortuna di scoprire il gruppo tanti anni fa.
Il tastierista statunitense Tony Carey fece parte – secondo il mio parere da consumatore – di una delle formazioni migliori degli Rainbow. Il leader del gruppo (un certo Ritchie Blackmore che molto probabilmente conoscete) ebbe però la mania di cambiare la formazione del gruppo con una frequenza piuttosto alta. Il protagonista del post di oggi resistette nel gruppo per oltre 20 mesi (un risultato superiore a circa la metà degli altri ex componenti del gruppo), ma alla fine venne cacciato anche egli. Anziché consolarsi con le statistiche del gruppo e, ovviamente, con le proprie capacità musicali, fece però la strana scelta di accettare la proposta di andare a lavorare in Germania. Direi che con tale mossa in termini di popolarità si è sparato a una gamba. In effetti, gli epicentri della gloria rock si trovano, per ovvi motivi, negli Stati di lingua inglese.
Pur acquistando un certo livello di popolarità in Germania, Tony Carey mi sembra quasi dimenticato dalle altre parti del mondo. Secondo me non è giusto. Di conseguenza, approfittando del suo recente compleanno (il 16 ottobre ha compiuto 65 anni) vi ricordo di egli con due sue canzoni.
La prima e «Room with a View» (scritta per il telefilm tedesco «Wilder Western Inclusive» del 1988)
Mentre la seconda è «A Fine Fine Day» (dall’album «Some Tough City» del 1984).
Ca**o, mi sono ricordato che in un certo periodo – breve – della mia adolescenza mi piacevano i Kansas… Non ho una spiegazione razionale a questo fatto della mia biografia. Ma dedico comunque la edizione odierna della mia rubrica musicale a questo gruppo. Almeno per dimostrare che gli sfasamenti dovuti alla crescita di una persona vengono [quasi] sempre superati con successo.
La prima canzone scelta è «Dust in the Wind» (dall’album «Point of Know Return» del 1977):
Mentre la seconda canzone è «Carry on Wayward Son» (all’album «Leftoverture» del 1976):
Negli anni ’80 del secolo scorso Chris Isaak fu definito «Elvis dei giorni nostri». Effettivamente, dopo l’ascolto di alcune sue canzoni tale analogia sembra quasi scontata, almeno se ci limitiamo all’aspetto stilistico. Ma io oggi vorrei ricordare due sue canzoni leggermente diverse.
La prima è «Wicked Game» (dall’album «Heart Shaped World» del 1989):
Mentre la seconda è «Only The Lonely» (dall’album «Baja Sessions» del 1996, in origine cantata da Roy Orbison):