Ieri il giornale francese Liberation ha scritto che Evgeny Prigozhin si sarebbe incontrato con Putin nel Cremlino il 1° luglio, una settimana dopo la «rivolta».
Dmitry Peskov, il portavoce di Putin, ha reagito a tale notizia comunicando che Putin e Prigozhin si sarebbero incontrati nel Cremlino il 29 giugno e che l’incontro sarebbe durato quasi tre ore.
I giornalisti russi si sono ricordati che il 29 giugno Peskov aveva dichiarato di non sapere dove si trova Prigozhin.
Mentre io (e non solo io) ho sempre immaginato che Prigozhin non avrebbe potuto, all’inizio di luglio, girare liberamente per Mosca e San Pietroburgo, ritirare personalmente i soldi, le armi e i beni vari precedentemente sequestratigli, senza avere un permesso personale di Putin. Anzi: non solo il permesso, ma anche una garanzia credibile della sicurezza fisica.
Non voglio sprecare la fantasia per ipotizzare cosa e perché si siano detti i due personaggi, indipendentemente dalla data reale dell’incontro. Voglio solo scoprire su cosa basava il coraggio di Prigozhin di presentarsi fisicamente nel Cremlino dopo avere costretto Putin di apparire una persona impaurita, indecisa e disorientata: sa bene, ancora meglio di noi, che le promesse di Putin non valgono molto.
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È interessante vedere, nell’ottica degli ultimi eventi, i risultati dei sondaggi condotti dall’ente russo «Levada Center» (una organizzazione russa indipendente e non governativa, che conduce sondaggi e ricerche sociologiche).
I sondaggi sulla figura di Evgeny Prigozhin: nel sondaggio del 25–28 giugno, il 29% degli intervistati ha dichiarato di vedere positivamente l’attività di Prigozhin (l’11% che approva pienamente le sue attività, il 18% che le approva parzialmente). Rispondendo alla stessa domanda il 22–23 giugno, il 30% degli intervistati aveva dichiarato di approvare pienamente le attività di Prigozhin, mentre il 28% ha dichiarato di approvarle parzialmente.
I sondaggi sulla figura del Ministro della «Difesa» Sergei Shoigu: una settimana fa il 60% degli intervistati approvava le sue attività (il 30% approvava pienamente e il 30% solo in parte), mentre ora il grado di approvazione è al 48% (il 24% in totalmente e il 24% in parte).
I sondaggi sulla figura di Vladimir Putin: il grado di approvazione è quasi invariato. Prima della «rivolta», l’82% degli intervistati aveva dichiarato di appoggiare in tutto o in parte le sue attività; il giorno della «rivolta» il 79%; e dopo la rivolta ancora l’82%.
Allo stesso tempo, i politici regionali dichiarano che il Cremlino ha comunicato loro che il livello di fiducia di Putin è sceso del 9–14%. E, di conseguenza, in questi giorni viene organizzata una tournée di Putin nelle regioni russe mai vista prima: si sta comportando quasi come un comune politico occidentale che per qualche motivo si interessa del rapporto reale con i potenziali elettori.
Ma il problema è: la cerchia di Putin (ma anche il pubblico internazionale) ha improvvisamente visto che il presidente, in realtà, non ha due cose. In primo luogo, non ha l’appoggio reale delle numerose strutture armate create negli ultimi due decenni (alcune non lo hanno difeso contro Prigozhin nascondendosi non si capisce dove, altre «erano bloccate nel traffico» come i combattenti di Kadyrov). In secondo luogo, nessuno di quei oltre l’80% dei cittadini si era organizzato per difendere – almeno attraverso delle manifestazioni da piazza – l’"amato" presidente.
Di conseguenza, nonostante tutti i sondaggi possiamo sperare che Putin ora rischi un po’ di più a essere «scaricato» da chi si sente più forte di lui.
Provo a schematizzare le mie prime considerazioni… Per capire appieno quella iperveloce «rivolta» di Evgeny Prigozhin che sabato ha scosso un po’ tutto l’Occidente, bisogna capire le motivazioni di almeno quattro suoi protagonisti.
1. Evgeny Prigozhin. Bisogna ricordare che non è un personaggio pubblico né dal punto di vista attivo né da quello passivo. Questo significa che utilizza i social media per rivolgersi alle persone le cui attenzione e reazione gli interessano, ma non cerca il consenso popolare (anche se, ovviamente, c’è chi lo legge); allo stesso tempo, non è un personaggio pubblico dal punto di vista passivo perché i mass media russi ne parlano poco (al massimo dicono «guardate cos’altro ha detto quel pazzo»); più una testata è vicina allo Stato e meno parla di Prigozhin. In generale, si può dire che il personaggio è molto più noto e seguito in Europa che in Russia.
Ovviamente, in Russia non è necessario essere noto e/o popolare per conquistare e mantenere il potere. È sufficiente conquistare i principali posti di comando a Mosca. A quel punto la maggior parte della popolazione resterà totalmente indifferente al cambio del «capo» (sì, c’è questo interessante fenomeno sociale che può essere riassunto con la frase «l’importante è che mi lascino stare»), mentre l’esercito, le forze dell’ordine e i vari dipendenti statali cercheranno di puntare sul candidato al potere più probabile. La storia insegna che in Russia succede così da secoli.
Il problema è che Prigozhin, non essendo interessato alla vita pubblica in generale e agli impegni istituzionali in particolare, non aveva iniziato la «rivolta» per conquistare il potere. A Prigozhin interessano due cose: i soldi (da sempre) e la sicurezza personale (in un modo particolare negli ultimi mesi). I soldi costituiscono il motivo principale del suo lungo conflitto con il ministro della «Difesa» Shoigu: anni fa, molto prima della guerra in Ucraina, Prigozhin aveva tentato (come si deduce da alcuni indizi) diventare uno dei fornitori principali del cibo all’Esercito russo. Potete immaginare facilmente che si trattava di contratti molto ricchi. Ma quei contratti non erano stati ottenuti, quindi era iniziato quel conflitto con il ministro che durante la guerra in Ucraina ha messo a rischio la sicurezza fisica di Prigozhin. Infatti, egli ha fatto delle promesse a Putin, ma da un certo punto in poi non si è più sentito in grado di mantenerle: non sa più dove prendere altri combattenti e altre munizioni (molte munizioni non vengono fornitegli proprio dal Ministero di Shoigu). Di conseguenza, già mesi fa comprende il rischio di essere nominato un «traditore di Putin» e «colpevole degli insuccessi militari in Ucraina». Comprende che la minaccia per la sua vita arriva proprio da Putin, quindi tenta di salvarsi.
Purtroppo per lui, si è dimenticato che accettando la «proposta di Lukashenko», si è creato un nemico eterno. Infatti, Putin non dimentica e non perdona: finché è in vita, cercherà di punire il «traditore» Prigozhin. Ha dei mezzi per farlo in qualsiasi punto del pianeta.
2. Vladimir Putin. Probabilmente lo sapete anche senza di me, ma a Putin nella vita pubblica piacciono almeno due cose: essere associato solo alle notizie positive e apparire un tipo duro. Non ha mai parlato degli insuccessi militari in Ucraina (gli insuccessi sono la colpa dei generali, mentre le vittorie sono il merito di Putin), si era nascosto da qualche parte nei periodi meno favorevoli per l’Esercito russo e, inizialmente, non aveva reagito alla «rivolta» di Prigozhin. Ma la mattina del sabato 24 giugno era apparso in televisione con un discorso debolissimo. Anziché dire qualcosa come «Fottuto Prigozhin, ti do due ore per sparire, poi mi incazzo sul serio!», ha iniziato quasi a piangere del tradimento… Alla fine, avendo paura di fallire pubblicamente, non ha voluto nemmeno combattere o trattare con Prigozhin per il proprio potere. E ha affidato tutto a Lukashenko.
3. Sergey Shoigu. Ho già menzionato il suo lungo conflitto con Prigozhin. Ma ora ci interessa per un motivo molto più curioso: da mesi (forse anche da più mesi di noi) sapeva dell’aggravarsi dei rapporti con il capo di una grande banda armata, ma l’intero Esercito (del quale è Ministro) non si è preparato in alcun modo agli eventuali problemi. Non vedeva alcun pericolo? Allora è un cretino che debba essere ricoverato al più presto. O, forse, cerca di non farsi attribuire tutte le colpe per gli insuccessi in Ucraina passando per pazzo?
4. Aleksander Lukashenko. Sicuramente ora è felice come mai (tranne un giorno degli anni ’90) è stato nella propria vita: ha fatto un enorme favore a Putin, gli ha salvato la faccia, e ora può pretendere altri aiuti economici (li pretende da quando è al potere) fino alla fine dei giorni presidenziali di Putin. E/o dei propri. Si vedrà.
A questo punto vi concedo una pausa perché il testo è venuto un po’ troppo lungo.
In un’intervista con la presentatrice di BBC News Alda Hakim, il presidente ucraino Vladimir Zelensky ha parlato molto di Putin (come è naturale che sia) e, tra le altre cose, ha detto quanto segue:
Se parla di usare armi nucleari, nessuno qui può fare una previsione al cento per cento. Credo che tema per la propria vita. Penso che se non smette di minacciare il mondo con le armi nucleari, il mondo troverà un modo per privarlo delle «sue attività vitali». È molto pericoloso ed è per questo che è attento a lanciare questi messaggi.
Ma noi capiamo bene che un vero presidente (e un vero politico serio in generale) non può dire certe cose, a differenza di Putin e dei suoi servi. Ecco perché Zelensky si è espresso in modo così diplomatico. Ma da quasi 16 mesi (manca un giorno) Putin sta distruggendo una certa parte del mondo con una varietà di armi «convenzionali». Recentemente ha minacciato di usare preventivamente le armi nucleari in alcuni di questi territori. Ma la popolazione locale ne ha abbastanza già delle armi «convenzionali». E poiché Putin stesso non mostra alcuna intenzione di fermarsi, è arrivato il momento che il mondo esterno cominci a pensare seriamente alle «sue attività vitali».
Zelensky, in quanto un politico occidentale, non può (ancora?) esprimere un passaggio così logico.
Io, invece, posso: perché non sono un politico.
Allo stesso tempo, sospetto che tali pensieri non circolino solo nella mia testa poco diplomatica.
Mi sono accorto che le discussioni sulla eventualità dell’uso della bomba atomica da parte di Putin hanno ricominciato a divertirmi: nella situazione corrente è molto più probabile che organizzi qualcosa da spacciare per l’atto terroristico o l’errore degli altri (tipo l’incidente a una centrale nucleare, non necessariamente ucraina). Molto più probabile non solo dell’uso della bomba, ma anche in generale: rispetto allo zero. Tutte le dichiarazioni pubbliche, invece, sono rivolte non si capisce a chi.
Effettivamente, c’è una parte (piccola) dell’umanità nei confronti della quale non sarò mai un ottimista.
La mia più grande scoperta delle ultime 24 ore è stata: Putin è [ancora] capace di raccontare delle barzellette. Sceglie abbastanza male gli argomenti, ma almeno ci prova. L’ultima è stata raccontata ieri durante un incontro con i vincitori dei premi statali al Cremlino:
Perché, per dirla senza mezzi termini, il nemico colpisce le aree residenziali? Non c’è alcuna logica. Per cosa, perché, qual è lo scopo? E su obiettivi chiaramente umanitari: è incredibile. E non c’è alcun senso militare, è zero.
A questo punto conviene definire bene anche il contesto, se per qualche strano motivo fosse sfuggito a qualcuno. In base ai dati dell’ONU, al 15 maggio almeno 23.600 civili sono stati uccisi e feriti in Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. L’Ufficio del Procuratore generale ucraino ha dichiarato che 487 bambini sono stati uccisi nel Paese a causa dell’aggressione armata della Russia.
A volte mi «diverto» a prevedere gli eventi che non sono ancora accaduti. Per esempio: prevedo che tra qualche giorno (o, al massimo, tra qualche settimana) in Russia una intera famiglia verrà dichiarata gradita allo Stato, privata della cittadinanza e cacciata nello Spazio…
Ebbene, l’altro ieri Ekaterina Belous, la responsabile dell’ufficio anagrafe del distretto di Aleksandrovsky, nella regione di Vladimir, ha raccontato in una intervista della famiglia Dzhuraev che ha deciso di rinominare il proprio figlio. Nel 2016 quella famiglia aveva chiamato il proprio figlio Putin.
La famiglia Dzhuraev è originaria del Tagikistan e si è trasferita in Russia durante la guerra civile, ottenendo anche la cittadinanza russa. Nello stesso periodo, i Dzhuraev avevano deciso di dare al figlio di sei mesi Rasul il nome Putin su richiesta del nonno, un grande fan del presidente russo. Nel gennaio 2017, Putin Djuraev aveva pure avuto un cugino che è stato chiamato Shoigu (il cognome del Ministro della «Difesa» russo): non si sa ancora se anch’egli verrà rinominato.
Nel frattempo, sono un po’ preoccupato per l’intera famiglia. Ma per l’orgoglio di Vladimir proprio no.
Quasi per caso ho scoperto che uno degli scambi di auguri più «divertenti» del 9 maggio si è verificato nella data indicata in un punto di confine tra la Russia e l’Estonia. In sostanza, per il Giorno della Vittoria le autorità della cittadina di Ivangorod (nella regione di Leningrado, cioè nella provincia di San Pietroburgo) hanno organizzato un concerto «patriottico» appositamente per i residenti della città di Narva, in Estonia. Uno schermo e un palco sono stati allestiti sul lungomare della città russa, ben visibile dalla sponda estone. La distanza tra Narva e Ivangorod è di soli cento metri, se si considera il punto più stretto del fiume Narva sul quale passa il confine tra due Stati. Le due città sono collegate dal Ponte dell’Amicizia. Dalla riva di Narva era ben visibile il palco, decorato con la bandiera russa e con un nastro di San Giorgio gigante che corre lungo il bordo. Il palco su cui le autorità russe hanno organizzato il concerto per la popolazione di Narva si trovava proprio di fronte alla Fortezza di Narva ed era rivolto verso di essa. A circa 150 metri sulla sinistra, accanto a un edificio abbandonato, era stato montato uno schermo che riproduceva quello succedeva sul palco.
Dalla parte estone, invece, sul muro della fortezza di Narva, è stato appeso uno striscione con un ritratto di Putin con delle macchie di sangue sul volto e la scritta «Putin war criminal». Lo striscione è stato appeso dal Museo di Narva, proprietario delle mura della fortezza, nelle prime ore del 9 maggio.
Già alle 10 del mattino, le delegazioni dei due Stati si sono incontrate sul Ponte dell’Amicizia. L’incontro è avvenuto sulla iniziativa dalla parte russa, la quale ha chiesto la rimozione dello striscione. Gli estoni hanno risposto dicendo che «il banner non è vietato» dalle leggi locali, quindi non c’è alcun motivo di toglierlo.
Trovo qualcosa di esteticamente soddisfacente nelle risposte del genere.
L’«attentato» a Putin dell’altra notte può essere spiegato in una sola frase. Eccola:
Immaginate che qualcuno avesse tentato di fare un attentato a Giorgia Meloni colpendo il Palazzo Chigi con due droni alle 3 di notte.
Bene, ora posso provare a fare – per coloro che ne avessero bisogno – una spiegazione un po’ più dettagliata.
Anche a un esame più superficiale, l’«attentato» a Putin con due droni di notte al Cremlino è una stronzata assurda. Proviamo a vedere le stranezze più evidenti. Per qualche motivo siamo invitati a credere che qualcuno abbia filmato in modo del tutto casuale quella parte precisa del Cremlino alle tre di notte, in un modo professionale (guardate l’inquadratura) e con dispositivo tenuto in mano (l’immagine è visibilmente mossa, cioè è stata ripresa a mano e non da una telecamera di sorveglianza), facendolo nel momento più azzeccato, per poi incollare prontamente il risultato delle sue riprese al video di qualcun altro. Ci viene anche proposto di non notare due persone non identificabili (ma chi poteva essere nel luogo governativo più protetto della Russia?) che si arrampicano sulla cupola dell’ex Palazzo del Senato di notte, andando verso il punto dell’arrivo del drone giusto pochi secondi prima, nel momento più opportuno. E ci invitano anche a non chiederci perché i droni siano stati abbattuti proprio all’ultimo momento: già sopra il Cremlino e non almeno sopra la Piazza Rossa.
Insomma, per ora sembra tanto una sceneggiata. La quale può servire a Putin non in qualità di un pretesto per fare qualche nuovo attacco terroristico alla Ucraina (sappiamo bene che ha sempre agito senza alcun pretesto), ma in qualità di una spiegazione postuma (o, se preferite, giustificazione). «Noi abbiamo fatto X, Y e Z perché loro ci colpiscono anche nei luoghi più simbolici». «Abbiamo aperto la caccia a Zelensky perché loro hanno tentato di colpire Putin». «Putin fa bene a nascondersi perché volano i droni». Etc. etc..
Aspettando di scoprire e di capire qualcosa in più, aggiungo altri due brevissimi video:
Ma anche se si trattasse di un vero attentato… Continuare la lettura di questo post »
L’International Business Times ci comunica che ieri il partito di governo sudafricano African National Congress ha deciso di ritirarsi dalla giurisdizione della Corte penale internazionale. Si sostiene che le autorità sudafricane abbiano preso tale decisione a causa del «trattamento ingiusto di alcuni Stati da parte della CPI». La decisione deve ancora essere confermata dal Parlamento sudafricano, e penso che succeda entro i prossimi due o tre mesi. Infatti, devo ricordarvi che nell’agosto 2023 il Sudafrica ospiterà il vertice del BRICS al quale è stato invitato anche Vladimir Putin (come presidente di uno degli Stati partecipanti).
Ma già oggi l’amministrazione presidenziale ha cambiato l’idea e ha comunicato l’intenzione di rimanere sotto la giurisdizione della CPI.
Immaginavo che la decisione della Corte penale internazionale di emettere un mandato di arresto nei confronti di Putin avrebbe messo alcuni Stati di fronte a delle scelte abbastanza difficili, ma sono abbastanza sorpreso della soluzione radicale tentata dal Sudafrica. Poteva continuare a ignorare i mandati emessi dalla CPI (come aveva già fatto nel 2015 con il presidente sudanese Omar al-Bashir), ma evidentemente non riusciva più a farlo «tranquillamente».
Potrei avanzare una idea abbastanza banale – vorrebbe chiedere a Putin qualcosa di realmente grande in cambio – ma non riesco a capire cosa potrebbe offrire Putin. In questo periodo storico è ancora meno capace di prima di aiutare economicamente gli altri Stati. E, in ogni caso, meno capace della Cina che sta colonizzando più o meno tutto il continente africano.
Boh…