L’altro ieri, il 15 giugno, il famoso rocker francese Johnny Hallyday avrebbe compiuto 80 anni. E io ho pensato che sia un bel pretesto per ricordarlo nella mia rubrica musicale… Certo, la sua scelta – mai mutata – di cantare in francese lo ha un po’ penalizzato fuori dal mondo francofono (anche se dal punto di vista puramente commerciale aveva un suo senso razionale), ma è comunque stato un fenomeno interessante della cultura mondiale.
Come al solito, ho scelto per il mio post due canzoni. La prima è la «Un Jour Viendra» (dall’album «Sang pour sang» del 1999):
Mentre la seconda canzone scelta è la «Je te promets» (dall’album «Gang» del 1986):
P.S.: mi ricordo ancora le immagini dei funerali di Johnny Hallyday a Parigi nel 2017: non so quanti musicisti di oggi avrebbero «raccolto» un pubblico delle dimensioni simili pure morendo.
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Il post musicale di oggi sarà abbastanza in linea con l’umore degli ultimi giorni. Infatti, mi andava di postare il poema sinfonico di Sergei Rachmaninov «L’isola dei morti» (Op. 29).
Il poema è stato composto tra il 1908 e il 1909 come la reazione a una opera pittorica, ma il mio cervello lo interpreta (come, ovviamente, tutte le altre opere artistiche) in base alle circostanze del momento corrente.
Il 24 maggio è morta, all’età di 83 anni, Tina Turner: una di quelle figure musicali che non hanno bisogno di essere presentate. Ma io sono stato in un forte dubbio circa la possibilità di includere le sue canzoni nella mia rubrica musicale: pur comprendendo la qualità e l’importanza musicale di Tina Turner, non sono mai stato un suo grande fan. È successo per dei motivi puramente estetici: mi è sembrato che spesso tentasse di integrare e «rafforzare», in un modo sproporzionato, la componente musicale con il rumore e l’épatage scenico. Molto probabilmente, tale mia impressione nasce dal fatto che nella fase iniziale ho conosciuto la musica di Tina Turner non in un formato puramente audio. Boh…
E poi, non volevo limitarmi a sfruttare il semplice fatto della morte di una persona famosa.
Ma alla fine ho deciso di provare a rimediare e selezionare, come da tradizione, due brani più o meno rappresentativi.
La prima canzone scelta è la «What’s Love Got to Do with It»: è uno dei brani principali dell’album «Private Dancer» (del 1984), con il quale Turner è tornata dopo un apparente declino irreparabile della carriera e cinque anni di silenzio.
La seconda canzone scelta per oggi è la «We Don’t Need Another Hero»: uscita come singolo l’8 luglio 1985, fa parte della colona sonora del film «Mad Max Beyond Thunderdome». Probabilmente, è il più noto dei suoi contributi cinematografici.
Ecco, oggi è andata così. Incredibilmente, sono riuscito a evitare la canzone più scontata e postata, nei giorni scorsi, pure dai sordi. Mi sento quasi un eroe…
Il 22 maggio c’era stato il 210-esimo anniversario della nascita del compositore più sfortunato della storia: Richard Wagner. Egli fu un bravo compositore (già il solo fatto ci dovrebbe bastare oltre 150 anni dopo la sua morte), un antisemita a parole (sulla pratica collaborava tranquillamente con i musicisti ebrei) e uno di quei simboli culturali dei quali si era appropriato il Terzo Reich (senza alcuna scelta in merito del personaggio: morì cinquant’anni prima). Al giorno d’oggi non so proprio perché Wagner debba essere commentato – o addirittura criticato – negli aspetti diversi da quelli puramente musicali; anche se capisco che il fatto dell’esecuzione della sua musica potrebbe essere visto come una provocazione in alcune rare circostanze.
Il compleanno non è assolutamente una circostanza sbagliata, dunque oggi ricordo un bravo – anche se a volte un po’ difficile – compositore nella mia rubrica musicale. Come al solito, lo faccio selezionando due composizioni del protagonista.
La prima composizione di Wagner scelta per oggi è la Polen ouverture, composta nel 1832 e redatta nella sua versione definitiva nel 1836:
La seconda composizione di Wagner scelta per oggi è la Faust ouverture, composta nel 1840 e definitivamente pronta nel 1855:
Purtroppo, ogni regime politico distruttivo ci ruba tante cose belle, il cui reale valore può essere ripulito e recuperato solo col tempo: ogni volta, però, si rischia che quella cosa bella concreta invecchi troppo.
Il 14 marzo 1966 uscì, ancora come un singolo, la canzone «Eight Miles High» del gruppo rock statunitense The Byrds. Inizialmente la canzone ebbe una vita difficile: fu vietata per la trasmissione via radio a causa della «pubblicizzazione della droga» (a un certo punto Gene Clark e David Crosby ammisero di averla scritta ispirandosi almeno in parte alla esperienza del consumo delle droghe) e non raggiunse il Billboard Top 10 a causa della sua complessità stilistica (almeno per il pubblico di massa). Ma, ovviamente, tutto questo non ha impedito al gruppo di includere la canzone nel proprio terzo album di studio: «Fifth Dimension» (pubblicato il 18 luglio 1966).
I critici musicali, successivamente, definirono questa canzone come la prima del rock psicodelico e un classico dell’epoca della controcultura. Ma i critici sono gli ultimi personaggi che mi potrebbero interessare. Molto più importanti sono la qualità della musica che percepisco io e le reazioni dei colleghi/"concorrenti" importanti degli autori. Relativamente al secondo punto posso constatare che la «Eight Miles High» è stata suonata, nei decenni successivi, da tantissimi altri gruppi e musicisti/cantanti singoli. Per esempio, il gruppo The Ventures ha incluso la canzone nel proprio album «Go with the Ventures» (pubblicato l’11 giugno 1966, tre mesi incompleti dopo la pubblicazione del singolo originale).
Tra le altre innumerevoli interpretazioni interessanti potrei selezionare quella del gruppo The Leathercoated Minds creato da Snuff Garrett e J. J. Cale (a me tanto caro). Si trova al primo posto del loro unico album «A Trip down the Sunset Strip» del 1967:
Concludo il post musicale odierno con la versione della «Eight Miles High» da 19 minuti registrata nel 1969 dal gruppo rock olandese Golden Earring (inclusa nell’album «Eight Miles High» uscito il 17 novembre 1969):
Ora, se vivi e interessati, potete andare a cercare le altre interpretazioni della canzone…
Il 7 maggio c’era stato il 190-esimo anniversario della nascita del compositore tedesco Johannes Brahms. E dato che a me la musica di Brahms piace tanto, non potevo non sfruttare anche questa occasione formale per ricordarlo nella propria rubrica del sabato.
Per l’importante anniversario ho pensato di scegliere quella composizione di Brahms che, secondo i critici musicali, illustra in un modo particolarmente forte tutta la creatività musicale del compositore: si tratta del «Ein deutsches Requiem» («Un Requiem tedesco»), composto nel periodo tra il 1865 e il 1868 e poi integrato dal compositore stesso nel 1869 con un movimento in più. Oggi posto proprio la versione finale in sette movimenti.
Probabilmente è un po’ lungo per essere condiviso su internet, ma in realtà merita…
Il pianista classico ungherese/britannico András Schiff è internazionalmente noto, tra tante altre cose, per due motivi: 1) è considerato uno dei migliori esecutori delle composizioni di Ludwig van Beethoven; 2) ha registrato delle composizioni di Beethoven con il pianoforte Broadwood della epoca del compositore.
Il secondo motivo, dal punto di vista tecnico, è in realtà solo una piccola curiosità: un pianoforte è uno strumento troppo complesso per essere restaurato con successo (a differenza, per esempio, di un violino), mentre una qualsiasi replica moderna non potrà garantirci il suono autentico (anche perché non sappiamo con la certezza assoluta come era). Di conseguenza, oggi posto – «semplicemente» – due sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven suonate da András Schiff con uno strumento moderno.
Inizio con la sonata n. 15 «Pastorale» (op. 28) del 1801:
E poi aggiungo la sonata n. 30 (op. 109) del 1820:
Due sonate scelte solo in base all’umore degli ultimi giorni…
Il Planet P Project è uno dei progetti musicali avviati dal tastierista statunitense Tony Carey (ex membro dei Rainbow) in Germania all’inizio degli anni ’80. Nell’ambito di tale progetto erano stati registrati solo due album moderatamente popolari, dopodiché Carey era tornato alla attività da solista: essa è sempre stata più di successo dal punto di vista commerciale.
La musica del Planet P Project, comunque, mi sembra stilisticamente interessante almeno in qualità di un buon monumento alle tendenze stilistiche della sua epoca. Dunque, oggi posto due canzoni dal primo album «Planet P Project» uscito nel 1983. L’album in generale non è molto lineare nel suo stile, quindi è stato impossibile selezionare due brani più rappresentativi. In più, ho pensato di evitare quei due che hanno avuto il maggior successo alla radio…
La prima canzone selezionata per oggi e la «King For A Day»:
E la seconda canzone selezionata è la «Send It in a Letter»:
La maggior parte della musica delle due canzoni riportate – e dell’album in generale – era stata registrata da Tony Carey in prima persona. Di conseguenza, posso constatare che un musicista così «versatile» avrebbe potuto meritare un po’ più notorietà…
A volte può capitare che qualche mio post musicale venga influenzato dalle mie scoperte cinematografiche. Per esempio: qualche settimana fa mi è venuta la voglia di riascoltare la Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler. L’avrei condivisa anche con voi, ma mi ricordo di averlo già fatto poco più di due anni fa… Di conseguenza, ho iniziato a pensare alle alternative valide e ho trovato presto la soluzione ovvia!
Il post di oggi può essere dedicato al Concerto per violoncello in mi minore (Op. 85) del compositore inglese Edward Elgar. Questa composizione, scritta presumibilmente nel 1919, è stata per la prima volta eseguita il 27 ottobre 1919 alla apertura della stagione 1919–1920 della London Symphony Orchestra. Nonostante l’occasione importante, la prima di questo Concerto è stata professionalmente tragica per Elgar: il resto del programma doveva essere diretto dal suo collega / concorrente Albert Coates, il quale aveva tenuto impegnata l’orchestra nelle prove fino a non lasciare a Elgar il tempo necessario per le prove del suo concerto. Inevitabilmente, dunque, la prima esecuzione era andata un po’ male…
Per fortuna, però, la composizione non è andata persa: nei decenni successivi è stata eseguita e registrata molte volte. Ora la potete apprezzare anche voi:
E, ovviamente, ricordatevi che nei buoni film sono nascosti tanti riferimenti interessanti.
Esattamente 50 anni fa, l’8 aprile 1973, Pablo Picasso morì all’età di 91 anni nella sua villa Notre-Dame-de-Vie (a Mougins). Prima di morire pronunciò le famose parole: «Brindate a me, alla mia salute, poiché sapete che io non posso più bere».
Dall’altra parte del mondo, in Giamaica, Paul McCartney fu a cena con Dustin Hoffman. L’attore chiese al musicista se fosse capace di comporre – per scommessa – una canzone in questo esatto momento, letteralmente dal nulla. McCartney accettò di fare un tentativo.
A quel punto Hoffman prese una rivista e lesse la notizia della morte di Picasso e delle sue ultime parole. McCartney prese immediatamente la chitarra e iniziò a comporre una canzone proprio con quelle parole:
The grand old painter died last night
His paintings on the wall
Before he went he bade us well
And said goodnight to us all.
Drink to me, drink to my health
You know I can’t drink any more
Drink to me, drink to my health
You know I can’t drink any more!
Così è nata la canzone «Picasso’s Last Words (Drink to Me)», poi entrata a far parte dell’album «Band on the Run» dei Wings (1973). Il grande pittore ispirò gli altri fino all’ultimo.
Cosa posso aggiungere a questa canzone? Posso aggiungere che Picasso continuò a ispirare gli altri anche dopo la propria morte. Per esempio, il gruppo The Modern Lovers registrò la canzone «Pablo Picasso» (inclusa nell’album «The Modern Lovers» pubblicato nel 1976):
È successo non solo nella musica, ma quello è un altro argomento…