Da qualche tempo, sui vari social mi capita periodicamente di vedere delle foto di Romany Gilmour con o senza il padre David (il famoso chitarrista dei Pink Floyd). La ragazza è quasi sempre ritratta con qualche strumento musicale… A un certo punto ho pensato: ma sarà una forma di pubblicità occulta oppure è la vera / meritata popolarità di una nuova star, la cui esistenza era sconosciuta solo a me? Tanti musicisti famosi hanno dei figli (David Gilmour ne ha addirittura otto). Tanti figli dei musicisti famosi iniziano a suonare e/o cantare pure loro. Ma ci vuole un certo impegno per farsi venire in mente qualche esempio positivo, di qualche figlio d’arte che si è dimostrato minimamente capace…
Ed ecco che, quasi per caso, sul mio schermo è comparso questo video: il brano «Between Two Points» interpretato da David e Romany Gilmour (per le persone meno pazienti: se e quando vi sentite vicini alla resa, andate al momento 3:45 del video).
Ehm… Non posso proprio dire che Romany sia una grande cantante o musicista… E, dato che ha già 22 anni, ormai non penso che possa diventarla. Però il padre si diverte a sostenerla nel suo hobby: così, la loro suddetta collaborazione musicale è entrato a far parte del quinto album da solista di David Gilmour «Luck and Strange» (del 2024).
In ogni caso, le (anche i) cantanti incapaci ci sono sempre stati, alcuni di loro diventano pure molto famosi. Mentre alcuni altri, quando fortunati, riescono a realizzarsi in qualche ambito diverso. Ovviamente, non posso sapere come andrà a Romany Gilmour. Per ora posso solo concludere il presente post con la versione originale della canzone «Between Two Points»: quella del duo dream-pop The Montgolfier Brothers che l’aveva inclusa nel proprio album di debutto «Seventeen Stars» (del 1999):
Proverò a ricordarmi di controllare se ci saranno altre versioni più fortunate della canzone in futuro.
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Negli ultimi tempi mi capita, con una certa periodicità, di leggere qualcosa sulla creazione delle opere d’arte ai tempi di guerra: da parte degli artisti che vivono negli Stati-aggressori e quelli che vivono negli Stati-vittime. Sono delle letture lunghe, spesso interessanti, a volte discutibili, e in ogni caso difficili. Di conseguenza, almeno per ora non tento di riassumerle: richiederà un impegno al quale non sono pronto io e, molto probabilmente, nemmeno la maggioranza dei potenziali lettori.
Allo stesso tempo, da quelle letture posso ricavare qualche idea «pratica», qualche opera artistica bella e interessante indipendentemente dalle circostanze nelle quali è stata creata. Prendiamo uno degli esempi che ho scoperto di recente: il «Quartetto d’archi» del compositore francese Jacques Ibert…
Nel 1937 Ibert fu nominato direttore dell’Accademia di Francia a Roma (la prima volta dal 1666 che un musicista veniva nominato a questa carica). Con l’inizio della Seconda guerra mondiale, Ibert ricoprì il ruolo di addetto navale presso l’Ambasciata francese a Roma. Il 10 giugno l’Italia entrò in guerra e il giorno successivo Ibert, insieme alla sua famiglia, partì da Roma con un treno diplomatico. Già nell’agosto del 1940 fu collocato a riposo, con un decreto speciale del governo di Vichy il suo nome fu cancellato dall’elenco degli ufficiali di marina e le sue opere furono vietate. Per i quattro anni successivi, Ibert visse in condizioni di semi-legalità pur continuando a comporre e, tra le altre cose, nel 1942 completò il Quartetto per archi che aveva iniziò nel 1937.
Si era dedicato a quello che sapeva fare meglio, aveva raggiunto dei risultati interessanti e, sicuramente, trovava del tempo per contribuire anche alla soluzione delle questioni attuali per quegli anni.
È già la seconda volta nella storia della mia rubrica musicale che scrivo della stessa canzone (la prima era capitata nel 2019), ma la «protagonista» merita di essere ricordata… Anche perché di recente ho fatto una piccola scoperta in materia.
Quasi 60 anni fa – anche se i ventidue giorni di differenza ormai possono essere sacrificati con l’arrotondamento –, il 5 settembre 1964 The Animals raggiunsero il primo posto nelle classifiche statunitensi con la loro versione della canzone «The House of the Rising Sun». Ho scritto versione perché esistono molte versioni della canzone con trame completamente diverse. In tutte le versioni, il protagonista racconta la storia di come ha rovinato la propria vita nella casa del «Sol Levante». Il protagonista o, addirittura, la protagonista della canzone, come nella versione originale del folklore. La «Casa del Sol Levante» è intesa da alcuni come un bordello, da altri come una prigione, da altri ancora come un pub o una casa da gioco.
L’interpretazione più plausibile della suddetta espressione è quella di David Kenneth Ritz «Dave» Van Ronk (30 giugno 1936 – 10 febbraio 2002), un cantante folk americano e una grande autorità della scena newyorkese degli anni ’60:
Come tutti, pensavo che «casa» significasse bordello. Ma qualche tempo fa mi trovavo a New Orleans per un festival jazz. Mia moglie Andrea, Odette e io stavamo bevendo un drink in un pub quando si presentò un ragazzo con una pila di vecchie fotografie, istantanee della città di inizio secolo. Insieme al French Market, alla Lulu White’s Mahogany Hall, alla dogana e simili, c’era una foto dell’ingresso in pietra grezza, con un’immagine incisa del sole nascente al centro. Incuriosito, chiesi che tipo di edificio fosse. Si è scoperto che si trattava della prigione femminile di New Orleans. Quindi, a quanto pare, mi sono sempre sbagliato«.
Stando al testo, dunque, la canzone era originariamente cantata da una donna.
A questo punto, posso fare due cose. Prima di tutto, posto ancora una volta la famosa versione della canzone cantata dai The Animals:
E poi, trovo logico postare qualche interpretazione femminile della «The House of the Rising Sun». Per esempio, quella di Jodi Miller (facente parte del suo album «The House of the Rising Sun» del 1973):
Oppure la versione del gruppo Continuare la lettura di questo post »
Proprio questo sabato capita un anniversario musicale che avreste potuto saltare: i 150 anni dalla nascita del compositore britannico Gustav Holst.
Come tutti i compositori rilevanti, pure Holst aveva iniziato a comporre musica da adolescente, ma, a differenza di molti, non era mai riuscito a trasformare la composizione nella propria attività professionale principale. La sua musica veniva eseguita in pubblico, riceveva delle buone recensioni, ma rendeva poco dal punto di vista economico. Di conseguenza, Holst aveva sempre affiancato la composizione ad altri lavori musicali: orchestrale trombonista fino al 1903 (aveva iniziato lo studio del trombone da ragazzino nel tentativo di combattere gli attacchi dell’asma) e insegnante di musica nelle scuole fino alla propria morte nel 1934.
Solo nel 1921 aveva avuto una improvvisa parentesi di grande popolarità da compositore: dopo la pubblicazione della sua suite per grande orchestra in sette movimenti «The Planets» (composta negli anni 1914–1916 ed eseguita per la prima volta il 10 ottobre 1918).
Proprio quella suite è il «tema» del post musicale di oggi:
Gusta Holst, però, si era dimostrato totalmente impreparato e indisponibile alla popolarità: rifiutava tutti gli onori e le interviste, era stato addirittura categoricamente contrario al firmare gli autografi.
Sempre tormentato da problemi di salute, è morto il 25 maggio 1934 a Londra a causa di un’insufficienza cardiaca dovuta a un intervento chirurgico per un’ulcera intestinale.
E io penso di dedicargli ancora almeno un post musicale. Ormai, la popolarità non potrà più infastidirlo!
Formalmente avrei potuto pubblicare il video odierno anche nella rubrica musicale del sabato… Però vorrei che questa opera venga apprezzata da tutti i punti di vista e da più gente possibile. E allora lo pubblico oggi:
Bene, Trump ha contribuito alla creazione di almeno una cosa bella.
L’altro ieri, il 12 settembre, era l’ottantesimo anniversario della nascita del cantante Barry White. Un personaggio speciale (almeno per i generi musicali nei quali si era impegnato) va assolutamente ricordato in una occasione speciale come questa. I più grandi appassionati del soul, R&B e disco lo ricordano molto più spesso di me, mentre io cerco di motivarmi nello studio dei generi non esattamente preferiti anche seguendo i vari pretesti formali: per esempio, quando si avvicina qualche data particolare.
E così, ho pensato di selezionare per il post di oggi quelle due canzoni con le quali Barry White iniziò la propria carriera da cantante. Infatti, da giovanissimo si vide più come un manager musicale che come un cantante. Ma nel 1973 scrisse due canzoni da affidare a una voce maschile, iniziò a cercare il candidato adatto e finì a essere convinto (dalla propria «guida spirituale») che quelle canzoni fossero in realtà ideali proprio per lui. Di conseguenza, proprio da quelle due canzoni iniziò la vera, seria e «sistematica» carriera da cantante di Barry White.
Insomma, la prima canzone di oggi è la «I’ve Got So Much To Give» (inclusa nell’album omonimo del 1973):
E la seconda canzone di Barry White scelta per oggi è la «I’m Gonna Love You Just A Little More», Baby" (sempre dall’album «I’ve Got So Much To Give» del 1973):
Può andare bene come un post commemorativo / di auguri? Forse sì…
Diversi compositori classici di epoche diverse hanno dedicato dei cicli delle composizioni musicali al tema delle quattro stagioni dell’anno… E dato che negli ultimi giorni ho visto dalla finestra alcune piogge ormai più autunnali che estive, ho pensato di postare qualcuna di quelle composizioni dedicate all’autunno.
Però ne volevo una un po’ meno nota e, dunque, una che «da meno noia». È così che ho scelto la «Primavera a Buenos Aires» del compositore argentino Astor Piazzolla (con il suo ritmo di tango rende l’autunno un po’ meno triste ahahaha):
E visto che ci siamo, aggiungo anche questa strana interpretazione di un trio:
Bene, in inverno ci sarà il prossimo appuntamento con Astor Piazzolla ahahaha
Il gruppo britannico/americano Whitesnake – che negli anni della propria storia ha suonato nei generi hard-rock, blues-rock, glam metal e heavy metal – era stato fondato dal cantante David Coverdale alla fine del 1977, durante la lunga pausa nella attività musicale dei Deep Purple (dei quali Coverdale era stato cantante dal 1973 al 1976). Nel corso dei lunghi anni della propria esistenza – la quale non è ancora ufficialmente terminata – il gruppo ha cambiato tantissime volte anche (e soprattutto) la formazione: le uniche cose fisse sono il nome del gruppo e la presenza del fondatore-cantante: tanto che non si capisce perché si debba chiamare questo collettivo con uno brand inventato e non direttamente con il nome di David Coverdale. Ma il periodo migliore dei Whitesnake è quello durante il quale ne avevano fatto parte due dei componenti migliori dei Deep Purple: dalla seconda metà del 1978 all’inizio del 1983 nel gruppo avevano suonato Jon Lord e Ian Paice.
Durante il suddetto «periodo d’oro» i Whitesnake avevano registrato tre album; per il post musicale di oggi io ho pensato di selezionare due canzoni da uno di quegli album.
La prima canzone di oggi è la «Fool For Your Lovin’» (dall’album «Ready an’ Willing» del 1980) inizialmente scritta per B. B. King:
La seconda canzone del post di oggi è la «Ready an’ Willing» (come potete immaginare, sempre dall’album «Ready an’ Willing» del 1980):
Bene, non saluto i Whitesnake per sempre: ho già in mente altri motivi musicali per dedicare nuovi post al gruppo.
Dopo avere pubblicato il post musicale dedicato alla compositrice francese Louise Farrenc, mi sono accorto di non avere mai postato alcunché del compositore tedesco Felix Mendelssohn. Non è assolutamente giusto!
Infatti, nonostante una vita relativamente breve (1809–1847), Mendelssohn ha fatto in tempo a comporre una buona quantità di musica interessante e diventare uno dei maggiori rappresentanti del romanticismo nella musica (sicuramente è successo anche grazie al fatto che i genitori, pur appartenendo al mondo pratico e pragmatico bancario non hanno mai ostacolato – anzi! – lo sviluppo degli interessi artistici del figlio). Anche le tipologie delle composizioni di Mendelssohn sono abbastanza numerose e varie: sinfonie, opere liriche, concerti, oratori, musica per organo, musica da camera…
Però per il primo post dedicatogli vorrei selezionare qualcosa di realmente famoso di Felix Mendelssohn.
Come prima composizione del post metterei la marcia composta nel 1842 per la commedia shakespeariana «Sogno di una notte di mezza estate». Non conosco abbastanza bene le tradizioni italiane in materia (e non ho avuto l’occasione di raccogliere abbastanza osservazioni empiriche), ma in diversi Stati – la Russia compresa – questa marcia si usa largamente in qualità di marcia nuziale.
La seconda composizione di Felix Mendelssohn che metterei oggi è la Sinfonia n. 1 in Do minore. Il compositore la terminò a marzo del 1824 – all’età di 15 anni – ma nella primavera del 1829 sostituì la sua terza parte. Proprio questa versione modificata della sinfonia ebbe un ruolo importantissimo nel riconoscimento internazionale di Mendelssohn in qualità di un bravo compositore.
Bene, così la prossima volta – quando capita – mi dedico a qualche composizione più grande di Felix Mendelssohn.
Nel 1959 il gruppo statunitense Hank Ballard and The Midnighters aveva pubblicato la canzone «Look at Little Sister»: era sul lato B di un altro singolo, poi era stata inserita nell’album «Mr. Rhythm and Blues» del 1960. Non è tra le canzoni più note del gruppo.
È molto più nota l’interpretazione della «Look at Little Sister» registrata nel 1985 dal gruppo Double Trouble di Stevie Ray Vaughan (fa parte del loro album «Soul to Soul»). Addirittura, molte persone conoscono solo questa versione della canzone.
Stevie Ray Vaughan aveva anche suonato/cantato questa canzone con Jeff Healey, creandone di fatto un’altra, diversa, versione.
Tra queste tre interpretazioni, ovviamente, ce n’è una che posso definire la mia preferita. Ma l’ho scelta in un modo consapevole, ascoltando anche le altre. Ora lo potete fare pure voi.