L’archivio del tag «commissione europea»

La censura al contrario

The Financial Times scrive che la Commissione europea, reagendo alle lamentele di alcuni giornalisti bielorussi di opposizione, ha invitato Google, Meta e altre grandi aziende tecnologiche ad aiutare i media indipendenti di Bielorussia e Russia promuovendo le loro storie nei feed di notizie e negli aggregatori più in alto rispetto alle pubblicazioni filogovernative.
L’idea potrebbe anche sembrare (almeno a me) utile e interessante, ma non so quanto sia realizzabile dal punto di vista pratico. Conosco molte persone, soprattutto tra gli oppositori russi fuggiti all’estero per motivi politici, capaci di stilare una lista molto ampia e rappresentativa dei media «giusti»: quelli indipendenti dallo Stato dal punto di vista formale e non-filogovernativi nei contenuti. Ma non so se ci sarà la possibilità di tenere aggiornata quella lista. Infatti, sul mercato dei media di lingua russa a volte nascono dei progetti nuovi oppure, al contrario, quelli esistenti vengono a volte banditi dallo Stato con delle accuse del tutto inventate e private dei marchi a favore dei media vicini allo Stato.
I miei dubbi, poi, vengono rafforzai dal fatto che, per esempio, su Facebook (appartenente alla Meta) i moderatori dei contenuti in lingua russa si sono sempre comportati in modo strano: usano bannare, senza entrare nei dettagli, i singoli utenti per i contenuti contrari alla politica statale russa reagendo alle segnalazioni infondate degli agenti filogovernativi. Il fenomeno potrà verificarsi anche a danni dei media non governativi?
L’idea, comunque, è giusta: bisogna iniziare a promuoverla e realizzarla in qualche modo.


I nuovi candidati all’UE

La Commissione europea ha raccomandato al Consiglio dell’UE di avviare i negoziati con l’Ucraina e la Moldavia per la loro adesione all’UE a una serie di condizioni. Inoltre, la Commissione ha raccomandato al Consiglio dell’UE di concedere alla Georgia lo status di Paese-candidato «a condizione che il Governo del Paese compia importanti passi di riforma».
A questo punto bisogna fare una constatazione abbastanza triste. È vero che i negoziati per l’adesione possono durare diversi anni (nel caso dell’Ucraina tale durata sarà di fatto dovuta anche alla attesa della fine della guerra), è vero che lo status del Paese-candidato può durare anche decenni, ma le raccomandazioni della Commissione arrivano comunque in uno dei momenti più sbagliati di sempre. Infatti, proprio in queste settimane abbiamo visto con la massima chiarezza – spero che lo abbiate visto anche voi – il colossale fallimento delle grandi organizzazioni interstatali. Di quelle organizzazioni come l’ONU o l’UE le cui decisioni principali devono essere prese all’unanimità in base al principio che tutti gli Stati-membri abbiano lo stesso peso e gli stessi diritti. Ma sulla pratica vediamo che questo principio idealista non funziona come si sperava.
Da un lato, alcuni Stati sfruttano il suddetto principio per difendere i propri comportamenti aggressivi con il potere di veto (succede prima di tutto all’ONU). Dall’altro lato, diversi Stati altrettanto poco responsabili sfruttano lo stesso principio per prostituirsi: letteralmente vendono il proprio voto (e il proprio veto) a quegli Stati che sono disposti a pagare (succede sia all’ONU che all’UE). Si potrebbe dunque logicamente dedurre che proprio il principio di uguaglianza abbia portato alla impossibilità di quelle grandi organizzazioni di fare qualcosa contro le guerre che sono attualmente in corso; ma anche contro quelle future. Quelle organizzazioni andrebbero dunque fortemente riformate o sostituite con qualcosa di nuovo e più adatto alla vita reale.
La Commissione europea, invece, continua a fare finta che vada tutto bene e raccomanda i negoziati con gli Stati nuovi, alcuni dei quali molto probabilmente andranno a «prostituirsi» come ho scritto prima (intendo prima di tutto la Georgia attuale perché è governata dai personaggi filo-putiniani e non intenzionati a lasciare il potere in un modo democratico). Probabilmente si tratta solo di un naturale istinto di sopravvivenza burocratica, ma è comunque un fenomeno tristissimo.


Il gas russo sanzionato

Ieri, l’8 marzo, Joe Biden ha annunciato il divieto dell’import del gas e del petrolio russi. Si tratta di una sanzione logica, ma dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti (così come il Canada) non sono l’importatore principale delle materie prime russe in questione. L’importatore principale è l’Europa…
Ed ecco la Commissione europea propone agli Stati membri una bozza del piano di rinuncia al gas e al petrolio russi «molto prima del 2030». In particolare, le misure proposte dovrebbero ridurre la dipendenza europea dal gas russo di due terzi già entro la fine del 2022. Ehm… Non sarei in grado di valutare – velocemente, almeno – se sia un piano realistico, ma supponiamo pure che lo sia. Anche questa sanzione è logica. Sarà, soprattutto, una sanzione molto sensibile per l’economia russa in generale e per l’economia personale di molti personaggi vicini a Putin. [Potrebbe rivelarsi sensibile anche per l’economia europea, ma la pace, la libertà e i principi umani hanno un costo: nella vita ci sono dei momenti in cui non bisogna cercare di sottrarsene.] Di conseguenza, si può dire che sarebbe una sanzione pienamente («la più», direi) azzeccata. Nell’attesa di una redazione più e meglio definita del piano (del quale si potrà discutere con più serietà), vorrei solo ricordare ai miei lettori un altro aspetto.
Il gas e il petrolio russi sono attualmente già colpiti da sanzioni che io chiamerei «indirette». Infatti, gli acquirenti europei – e non solo quelli europei – già oggi hanno paura o addirittura non possono pagare il gas e il petrolio russi. Perché si tratterrebbe di fare dei pagamenti in dollari o in euro alle aziende russe che si trovano sotto le recentissime sanzioni.
Comunque sia il piano europeo di cui sopra, speriamo che l’inverno prossimo sia caldo!
E ancora di più speriamo – io lo spero – che la situazione odierna si risolva presto.


I soliti ritadi burocratici

Vedo che la Commissione europea insiste con la sua vecchia idea di imporre per via legislativa il formato unico del caricatore per i dispositivi mobili. Come succede con tutte le idee provenienti dalla burocrazia, anche quelle apparentemente più sensate (sì, stranamente a volte capita), la realizzazione pratica arriva in un ritardo fatale. Il progetto presentato oggi, dal punto di vista tecnologico, è tardivo e quindi inutile (per non dire dannoso) a causa dei seguenti motivi:
Motivo № 1. Già da qualche anno stiamo entrando nell’epoca dei cosiddetti ecosistemi: ogni produttore spinge i consumatori fedeli ad acquistare solo i propri prodotti fisici e digitali ben integrabili tra loro. Non sarà certo una decisione europea su un argomento molto specifico a invertire la tendenza. E, soprattutto, non deve: significherebbe ostacolare il progresso tecnologico e privare le parti del mercato di una forma di comodità (dovrebbe invece essere regolata la possibilità di trasferire i dati da un ecosistema all’altro).
Motivo № 2. Lo stesso sviluppo tecnologico sta superando la ricarica via cavo: i caricatori sui quali è sufficiente appoggiare un telefono stanno diventando sempre più veloci (ormai sono passati da un massimo di 15 watt di pochi anni fa a un massimo di 65 watt di oggigiorno). Rappresentano dunque il futuro sempre più vicino. Quindi l’iniziativa della Commissione assomiglia al tentativo di regolare la circolazione dei cavalli sulle strade urbane.
Motivo № 3. I produttori principali stanno già ora vendendo i caricatori separatamente dai dispositivi mobili: la prima è stata la Apple con l’iPhone 12, poi è stata seguita da alcuni altri produttori che hanno copiato la scelta per i propri modelli più costosi.
Circa dieci anni fa, quando l’idea del tipo unico di caricatore era stata dichiarata per la prima volta, aveva ancora senso parlarne: i tre suddetti motivi erano molto meno evidenti. Ma ora ci troviamo in un mondo un po’ diverso…


Una notizia positiva

Come avrete già letto, il Tribunale UE ha annullato la decisione della Commessione europea del 2016 in base alla quale la Apple avrebbe dovuto pagare ulteriori 13 miliardi di euro di tasse in Irlanda. Secondo la Commissione, il regime fiscale agevolato irlandese avrebbe messo la Apple in una situazione di vantaggio ingiustificato rispetto agli altri attori del mercato. L’Irlanda, da parte sua, continuava a difendere la propria politica fiscale che le permette da anni di essere una meta europea preferita delle aziende-produttrici di alte tecnologie.
Cosa possiamo constatare grazie a questa notizia? Possiamo constatare che il peggio del populismo politico mondiale sarà sconfitto nei tribunali: anche se i giudici non potrebbero (e forse non dovrebbero) dichiarare di avere una missione del genere. Ma il dato di fatto rimane. Ci ricordiamo ancora bene come gli USA erano stati salvati dai numerosi decreti «strani» di Donald Trump nei primi mesi della sua presidenza. Ora, invece, vediamo come l’Europa può essere salvata dal socialismo parassitario caro a certi membri della Commissione. Se uno Stato facente parte dell’UE vuole esercitare la propria sovranità attraverso la creazione delle condizioni per lo sviluppo (e non limitarsi a tosare le pecore che non sono ancora scappate all’estero), deve avere il diritto di farlo. Deve avere la possibilità di difendere questo diritto. Altrimenti, prima o poi, vedremo concretizzarsi delle analogie del Brexit.


Le notizie complementari

Certe notizie vanno lette in coppia…
Vedo che in Italia ci sono delle persone scontente per la elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea (che cattiva: sostiene che non si può spende più di quello che si ha).
Allo stesso tempo non vedo le persone scontente per il fatto che la commissaria per la concorrenza Margrethe Vestager continui, nonostante il mandato quasi scaduto, a perseguitare quelle aziende le cui popolarità e grandezza sono dovute proprio alla concorrenza (sì, intendo il caso Amazon).

Quanto si starebbe bene in una Europa indebitata piena di aziende inefficienti…


La Commissione europea ha multato Google per altri 4,34 miliardi di euro. Questa volta il pretesto sarebbe la «imposizione illegale» degli strumenti di ricerca della Google sui dispositivi con l’Android.
Potremmo ipotizzare due spiegazioni a tale idiozia. Per esempio, potremmo ipotizzare che la Commissione abbia deciso di non abbandonare la tecnica tipica del socialismo: derubare chi guadagna (Google) per finanziare la tranquilla nullafacenza di chi non è capace di farlo (i membri della Commissione).
Oppure potemmo ipotizzare che in forza alla età avanzata, analfabetismo digitale (spesso è la conseguenza dell’età) e/o limitate capacità cognitive, i membri della Commissione non sanno che su Android può essere installato qualsiasi strumento di ricerca alternativo a quello esistente per default. Inoltre, può essere installato sia dal produttore del telefono che dal suo utente privato. In forza ad almeno una delle ragioni elencate poco prima i Commissari non comprendono nemmeno la logica «nel sistema operativo di mia produzione includo lo strumento di ricerca di mia produzione».
Entrambe le ipotesi, naturalmente, vanno prima di tutto applicate alla commissaria per la concorrenza Margrethe Vestager. E spero che nessuno le racconti della esistenza degli iPhone!

A questo punto il CEO del Google Sundar Pichai dichiarò che l’Android potrebbe smettere di essere un sistema operativo gratuito. Di conseguenza, come potete facilmente immaginare, aumenteranno i prezzi finali di tutti gli smartphone con l’Android. Ringraziate pure la commissaria Margrethe Vestager. E ripensate ancora a quale delle due ipotesi scegliere.


Il dominio di Google

Come sicuramente avete già sentito e letto, settimana scorsa la Commissione europea ha dimostrato, per l’ennesima volta, di essere il nemico numero 1 dell’economia. E lo ha fatto avanzando due accuse a Google:
1) l’abuso di posizione dominante nell’ambito delle ricerche online;
2) la violazione delle regole antitrust del OS Android.

Se ho interpretato bene le accuse, esse significano quanto segue:

1) I burocrati europei ci riputano tutti incapaci di a) utilizzare gli strumenti di ricerca offerti dallo stesso Google; b) formulare le domande da digitare nella apposita barra del browser; c) comprendere che numerosi prodotti, servizi e informazioni si cercano sui siti diversi da Google. In qualità di una ipotesi alternativa potrei proporre questa: i burocrati europei sanno di internet quanto la mia bisnonna morta nel 1978.

2) Secondo la Commissione, il produttore del sistema operativo Android (il quale, per puro caso, si chiama Google) non dovrebbe avere la libertà di decidere quali programmi fornire assieme ad esso. Gli utenti, sempre secondo la Commissione europea, non sono informati della esistenza di smartphone con i sistemi operativi di Microsoft e Apple. E, naturalmente, non sono capaci di scaricare e installare i programmi che ritengono utili.

E ora proviamo a ragionare. Ci ricordiamo bene tutti delle accuse europee alla Microsoft. Abbiamo già sentito parlare del malcontento europeo della posizione dominante di Facebook e Apple. E, naturalmente, ci siamo già accorti anni fa che sul mercato globale digitale dominano le aziende americane.

Facciamoci allora una semplice e logica domanda:
Perché in Unione Europea non sono ancora nate le aziende capaci di reggere la concorrenza di Google, Facebook e altri colossi? (Mentre in Russia e in Cina esistono ormai da decenni.)

La risposta è abbastanza semplice: perché l’operato della Commissione europea nell’ambito economico ostacola la nascita delle aziende grosse e competitive. La Commissione, infatti, è bravissima a dettare le regole su come e cosa produrre (ciao l’URSS!), a inventare decine di regole assurde all’anno (ciao la Russia di Putin!) e a obbligare tutti gli Stati ad adottare gli stessi regimi fiscali sconvenienti ai reali produttori (ciao l’UE!).

Il risultato è semplice: negli USA si inventa e si produce, mentre in UE si multano coloro che inventano e producono. Complimenti alla Commissione!