Ieri Vladimir Zelensky ha presentato al Parlamento ucraino un progetto di legge che stabilisce la celebrazione della Giornata della memoria e della vittoria sul nazismo nella Seconda guerra mondiale l’8 maggio (invece del 9 maggio sovietico/russo). Ha inoltre dichiarato – con un decreto presidenziale – il 9 maggio Giornata dell’Europa in Ucraina (come nell’UE).
Almeno la prima delle due azioni sarebbe stata molto logica anche senza la guerra che stiamo osservando ora: una data festiva comparsa sul calendario solo per la mania di grandezza di Stalin già in partenza c’entrava poco con la vittoria sul nazismo e con la memoria di tutte le vittime della Seconda guerra mondiale. Nell’epoca putiniana, poi, il 9 maggio si è progressivamente trasformato in una festa del militarismo e della riscrittura della storia del XX secolo. L’aspetto del militarismo si manifesta non solo nella esibizione faraonica degli armamenti sulla Piazza Rossa, ma anche nella imposizione del culto della guerra tra la popolazione russa. Quel culto che all’inizio di maggio di ogni anno assume le sue forme visive peggiori: a volte un po’ imbarazzanti…
… e a volte decisamente ripugnanti…
… mentre nel resto dell’anno si infiltra nella cultura e nella quotidianità (ok, non sono sempre due cose separate) con il continuo parlare dei soli aspetti militari della data. A me sembra una primitivizzazione un po’ brutta della storia.
La riscrittura della storia – il secondo aspetto che caratterizza il 9 maggio putiniano – si manifesta, fondamentalmente, in due concetti pubblicamente trasmessi: 1) l’URSS avrebbe vinto la Seconda guerra mondiale da sola, senza alcun aiuto; 2) l’URSS non avrebbe avuto degli alleati nella Seconda guerra mondiale (questo secondo concetto è relativamente nuovo, ancora in fase di formazione/formulazione, che sta parzialmente sostituendo il primo).
Tale trasformazione della festa del 9 maggio è in una buona misura dovuta al progressivo isolamento di Vladimir Putin nella politica internazionale e, a un certo punto, si è trasformata in una delle cause dell’isolamento stesso. Partendo dall’idea di non avere degli alleati nell’Occidente, è arrivato alla convinzione di avere solo (o quasi) nemici. Girandosi a 180°, ha trasformato la festa della fine della guerra in una festa dell’inizio della guerra. Ma non ha ancora cambiato il nome della festa: non ha fatto in tempo oppure si è dimenticato.
Vladimir Zelensky, che vede e capisce queste cose meglio della maggioranza di noi, ha dunque fatto benissimo a cambiare le date.
L’archivio della rubrica «Russia»
Kyrylo Budanov, il capo della Direzione principale dell’intelligence del Ministero della Difesa ucraino, ha dichiarato che la Russia non avrebbe le risorse militari, economiche e politiche per condurre operazioni offensive in Ucraina (ma solo quelle per difendere le posizioni già ottenute).
Effettivamente, sembra quasi una dichiarazione da Capita Ovvio: non c’è stata la tanto temuta offensiva invernale e non si osservano degli eventi che possano far prevedere quella estiva. Di conseguenza, Budanov conferma indirettamente un’altra tesi: in questo momento la continuazione di una guerra «attiva» conviene più alla Ucraina che alla Russia. Finché si combatte, l’Ucraina riceve gli aiuti (e l’unità nazionale interna) per procedere verso la vittoria, mentre la Russia (intesa come lo Stato di Putin) avrebbe bisogno di una pausa per rinnovare le scorte del materiale bellico (a questo punto saluto tutti quei geni alternativi che tifano per le trattative).
Il prossimo passaggio logico che potremmo fare è: alla Ucraina conviene provocare la Russia putiniana per garantire la continuazione dei combattimenti accesi.
Eh sì: in una guerra non ci può essere alcunché di bello.
Avete sicuramente già visto questo video. Ma io lo conservo nella speranza di capire, prima o poi, se Prigozhin si stia rendendo conto di rivolgersi anche a se stesso (e non solo ai personaggi che chiama e non chiama per cognome).
Anche se spero di avere, prima o poi, delle cose più allegre di cui pensare.
Dato che sull’«attentato a Putin» non si capisce ancora un bel niente – prevalentemente perché mancano le informazioni sulla base delle quali potremmo iniziare a capire qualcosa – non ci resta che leggere diverse interpretazioni di quanto visto. L’altro ieri ho già scritto di quei fattori che hanno influito sulla mia interpretazione, mentre oggi propongo un testo sulla interpretazione in una certa misura opposta.
Intendo l’intervista con Kirill Shamiev: un politologo, ricercatore di relazioni civili-militari e visiting fellow presso il Consiglio europeo per gli affari esteri.
I punti di vista non sono mai troppi.
L’«attentato» a Putin dell’altra notte può essere spiegato in una sola frase. Eccola:
Immaginate che qualcuno avesse tentato di fare un attentato a Giorgia Meloni colpendo il Palazzo Chigi con due droni alle 3 di notte.
Bene, ora posso provare a fare – per coloro che ne avessero bisogno – una spiegazione un po’ più dettagliata.
Anche a un esame più superficiale, l’«attentato» a Putin con due droni di notte al Cremlino è una stronzata assurda. Proviamo a vedere le stranezze più evidenti. Per qualche motivo siamo invitati a credere che qualcuno abbia filmato in modo del tutto casuale quella parte precisa del Cremlino alle tre di notte, in un modo professionale (guardate l’inquadratura) e con dispositivo tenuto in mano (l’immagine è visibilmente mossa, cioè è stata ripresa a mano e non da una telecamera di sorveglianza), facendolo nel momento più azzeccato, per poi incollare prontamente il risultato delle sue riprese al video di qualcun altro. Ci viene anche proposto di non notare due persone non identificabili (ma chi poteva essere nel luogo governativo più protetto della Russia?) che si arrampicano sulla cupola dell’ex Palazzo del Senato di notte, andando verso il punto dell’arrivo del drone giusto pochi secondi prima, nel momento più opportuno. E ci invitano anche a non chiederci perché i droni siano stati abbattuti proprio all’ultimo momento: già sopra il Cremlino e non almeno sopra la Piazza Rossa.
Insomma, per ora sembra tanto una sceneggiata. La quale può servire a Putin non in qualità di un pretesto per fare qualche nuovo attacco terroristico alla Ucraina (sappiamo bene che ha sempre agito senza alcun pretesto), ma in qualità di una spiegazione postuma (o, se preferite, giustificazione). «Noi abbiamo fatto X, Y e Z perché loro ci colpiscono anche nei luoghi più simbolici». «Abbiamo aperto la caccia a Zelensky perché loro hanno tentato di colpire Putin». «Putin fa bene a nascondersi perché volano i droni». Etc. etc..
Aspettando di scoprire e di capire qualcosa in più, aggiungo altri due brevissimi video:
Ma anche se si trattasse di un vero attentato… Continuare la lettura di questo post »
L’organizzazione «Reporters senza frontiere» ha pubblicato la sua classifica annuale sulla libertà di stampa nel mondo. Su quella classifica, in particolare, vediamo che la Russia è scesa dal 155° al 164° posto (su 180 totali). Certo, è strano che non sia ancora scesa al 181° posto, ma la strada è bloccata da un concorrente fortissimo: la Corea del Nord.
Allo stesso tempo l’Ucraina – dove vige la legge marziale – è salita dal 106° al 79° posto della classifica nel corso dell’ultimo anno.
Trovo utile, a questo punto, mettere in evidenza la differenza tra due «censure di guerra» che nell’Occidente non tutti riescono a capire.
L’Ucraina ha imposto delle restrizioni alla diffusione di informazioni a causa della legge marziale. Un mese dopo l’inizio dell’invasione russa, è entrata in vigore una legge che limita la diffusione di informazioni militari. Ai giornalisti è stato vietato di pubblicare foto e video che mostrino le strutture militari, i movimenti delle forze armate, i luoghi di bombardamento e il numero di attrezzature militari. Il divieto non si applica ai materiali pubblicati dal Ministero della Difesa ucraino. Nelle condizioni di una guerra in corso sembra un provvedimento dotato di una sua logica interna.
In Russia, invece, oltre ai vecchi e ben noti problemi gravi con la libertà di stampa, con l’inizio della guerra si è aggiunta una nuova particolarità. In base alla nuova normativa, è vietato diffondere qualsiasi informazione diversa da quella comunicata pubblicamente dal Ministero della Difesa russo. Non importa che pubblichi la verità (circa i successi o insuccessi dell’esercito russo) o il falso (circa gli insuccessi o successi dell’esercito ucraino): anche se l’informazione diffusa potrebbe essere sfruttata a proprio favore dalla propaganda russa (ok, se fosse sufficientemente intelligente), hai comunque commesso un reato. In sintesi: non importa se hai diffuso un segreto o hai dichiarato il falso, l’unica colpa attribuibile e attribuita ai giornalisti è quella di non essere in linea con i comunicati del Ministero.
Negli ultimi mesi mi è capitato più volte di tentare a spiegare il concetto riguardante la norma russa ai giuristi italiani. Secondo la mia impressione, non tutti sono riusciti a capirlo. E alcuni, sempre secondo la mia impressione, hanno pensato che si trattasse di una delle mie solite battute.
Alla fine della settimana scorse il Ministero degli Esteri russo aveva promesso che «i giornalisti americani sperimenteranno tutti i disagi e i fastidi» perché ai «giornalisti» statali russi non era stato permesso di seguire il ministro Lavrov a New York. Mi ero chiesto quali disagi fossero stati sottointesi, ed ecco che – ieri pomeriggio – è arrivata la risposta: ai diplomatici statunitensi è stata negata la visita in carcere al giornalista Evan Gershkovich.
Effettivamente, il giornalista arrestato per lo «spionaggio» della riparazione dei vecchi rottami soprannominati «carri armati» stava troppo bene, si sentiva il protagonista di qualche commedia. Bisognava proprio fargli sentire qualche disagio…
Maria Zakharova, la portavoce del Ministero degli Esteri russo, ha dichiarato che gli USA non hanno rilasciato i visti al personale dei media statali russi che avrebbe dovuto accompagnare il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov nel suo viaggio a New York (dovrebbe partecipare alle riunioni del Consiglio di Sicurezza del 24 e 25 aprile). Una fonte diplomatica russa ha dichiarato ai media statali russi che il trattamento riservato ai giornalisti statunitensi sarà «simile» e non ci dovrebbero essere «dubbi circa il fatto che i giornalisti americani sperimenteranno tutti i disagi e i fastidi».
Il Ministero degli Esteri russo si sarà dimenticato che le redazioni americane ed europee hanno richiamato le proprie redazioni russe sui territori degli Stati più sicuri già mesi fa? E che il caso di Evan Gershkovich ha dimostrato tutta la ragionevolezza di tale scelta? No, non penso proprio che se ne siano dimenticati. Il fatto è che quasi tutte le dichiarazioni del Ministero si sono ormai trasformate in una forma di propaganda: rivolta principalmente verso il pubblico russo, ma spesso anche verso qualche utile idiota occidentale (non mi piace citare Lenin, ma almeno in questo caso ci ha regalato una bella espressione).
Insomma, pare che le autorità statunitensi abbiano ragionevolmente pensato che i «diplomatici» russi siano in grado di fare la propaganda anche senza l’aiuto dei «giornalisti». Si potrebbe vederla come una forma di riconoscimento.
L’articolo consigliato per questo sabato parla di come si manifesta ora, nel contesto della guerra in Ucraina, un fenomeno sociale russo con la storia secolare. Un fenomeno, per il quale non riesco nemmeno a scegliere un termine italiano capace di trasmettere pienamente il suo senso… In poche – e non una – parole, si tratta del denunciare una qualsiasi persona (conosciuta o sconosciuta a chi denuncia) per il suo atteggiamento palesemente o presumibilmente sgradito allo Stato, ma non necessariamente illegale, e con la piena consapevolezza di causare dei problemi anche gravi alla persona denunciata e senza necessariamente sperare di ottenere dei vantaggi in conseguenza allo sporgere stesso della denuncia. Non so qualcuno di voi riesca a suggerirmi un termine italiano adatto…
Ma, intanto, provate a leggere l’articolo: potrebbe esservi interessante.
Ieri sono stati presentati alla Duma gli emendamenti al disegno di legge sulla responsabilità per la cooperazione con le Organizzazioni internazionali di cui la Russia non fa parte. Gli autori formali degli emendamenti – cioè quelli che hanno ricevuto le relative mail dal Cremlino – propongono di integrare il Codice penale russo con il comma 3 dell’articolo 284 sulla «prestazione di assistenza nell’esecuzione di decisioni di organizzazioni internazionali a cui la Federazione Russa non partecipa o di organismi statali stranieri».
«Prestare assistenza nell’esecuzione di decisioni di […] organismi statali stranieri in merito al perseguimento penale di funzionari delle Autorità pubbliche della Federazione Russa in relazione alle loro attività di servizio, di altre persone in relazione al loro servizio militare o alla permanenza in formazioni di volontari» sarebbe considerato un reato. La riforma prevede fino a cinque anni di reclusione per il «reato» trattato.
Il deputato Vasily Piskaryov – il presidente del Comitato della Duma per la sicurezza e la lotta alla corruzione e uno degli «autori» degli emendamenti – ha dichiarato che gli emendamenti mirerebbero a proteggere i cittadini russi.
In realtà possiamo immaginare quale cittadino specifico si tenta di proteggere in tal modo. Altrettanto facilmente possiamo immaginare da quale Organizzazione si tenta di proteggerlo. E, a differenza dei deputati e degli autori degli emendamenti, possiamo immaginare che molto difficilmente Putin verrà rapito sul territorio russo (dove si applica il Codice penale russo) per essere portato all’Aja. Indipendentemente dalla modalità in cui verrà – eventualmente – consegnato alla Corte penale internazionale (dalla quale è ricercato), gli esecutori di tale consegna si organizzeranno abbastanza bene per sottrarsi alla applicazione del Codice penale russo.
Cosa sarà del Codice stesso dopo l’arresto di Putin è un’altra grande domanda, ma sicuramente sarà applicato non come ora.