L’archivio della rubrica «Nel mondo»

Problemi al lavoro

Ecco, oggi ho trovato per voi ben due esempi che confermano: il 1 maggio deve essere un giorno lavorativo. I magistrati, perlomeno, avrebbero potuto lavorare per farci leggere queste due bellissime notizie non oggi ma due giorni fa.

La notizia N1: un francese ha citato in giudizio l’ex datore di lavoro per aver sofferto la noiosità della propria mansione. Boh, non ho mai né letto né sentito di un lavoro tanto interessante da non lasciare spazio ad altre cose nella testa del lavoratore. Io stesso non ho ancora fatto un lavoro che non abbia compreso delle grosse quantità di operazioni monotone. Quindi ho capito una cosa importante: un lavoro insopportabile va semplicemente cambiato. Chi non cambia, ha paura che dall’altra parte lo facciano lavorare di più. Chi cita in giudizio il datore di lavoro per il «lavoro noioso», spera di ottenere le risorse per non lavorare proprio.

La notizia N2: nel frattempo, in Italia la Cassazione decide che «rubare per fame non è reato». Nel sistema giuridico occidentale contemporaneo, purtroppo, un giudice non può essere chiamato a esprimersi su una questione fondamentale: è normale condurre uno stile di vita che non permette di sostenere nemmeno le spese più elementari? E quel stile di vita che porta a perdere tutto? Insomma, è normale non fare proprio un cazzo di sensato nella vita?


Incidente diplomatico-artistico

Mi piacciono le storie come questa. Molto probabilmente la sapete già, quindi io la pubblico almeno per averla nella propria collezione.

Prima di tutto vediamo il quadro «The negro page» di Aelbert Cuyp (1652, olio su tela, 142,8×226,7 cm). Il quadro si trova a Buckingham Palace e fa parte, logicamente, della collezione reale.

E poi vediamo una foto scattata durante la recente visita di Barack Obama nel Regno Unito (22–24 aprile). Si dice che il lampadario centrale sia stato piazzato pochi minuti prima dell’ingresso del presidente statunitense per coprire il nome del quadro.

Settimana prossima questo post avrà una continuazione.


Le denunce di Erdogan

Per pura curiosità ho provato a studiare le norme giuridiche su cui si basano le denunce di Erdogan contro il comico Boehmermann e la conseguente autorizzazione a procedere «da parte della Merkel» (il significato delle virgolette diventerà chiaro alla fine della lettura del post).

Come al solito, ho concluso che a gente protesta perché non capisce un cazzo del funzionamento del mondo. Ora provo a illuminarvi io. E voi provate a seguirmi.

Il famoso articolo 103 del Codice della procedura penale tedesco fu introdotto per volontà di Bismarck nel 1871. L’obiettivo della norma fu quello di proteggere i propri cittadini (tedeschi) dai vari deficienti di alto livello stranieri (ce n’erano tanti anche all’epoca). In tal senso la norma funziona benissimo anche nel XXI secolo.

Per la legge tedesca, una denuncia come quella di Erdogan può essere presentata (ed è stata presentata) in due modi differenti dalla medesima persona: in qualità di un capo di Stato o di Governo o in qualità di un cittadino privato. Nel primo caso ci vuole l’autorizzazione a procedere con le indagini (solo con le indagini!) da parte del Governo tedesco e la pena massima per il denunciato eventualmente condannato è di 3 anni. Nel secondo caso, invece, non ci vuole l’autorizzazione del Governo e la pena massima è di 5 anni.

L’intenzione del legislatore tedesco del 1871 era comprensibile: se un politico vuole «schiacciare» con il proprio peso un tribunale e un cittadino tedeschi, prima deve ottenere l’autorizzazione del Governo e, in caso di successo, ottenere una condanna dell’offensore meno grave. Il Governo tedesco, da parte sua, ha la facoltà di dirgli «Sei un coglione, comportati da un cittadino comune». Insomma, l’articolo 103 concede al Governo tedesco una possibilità in più di difendere i propri cittadini da politici presuntuosi.

La scelta del Governo tedesco di fornire l’autorizzazione non mi piace, ma questo non significa che non mi piace l’idea originale dell’articolo 103. Infine preciso perché la colpa viene attribuita alla Merkel: in caso di parità dei voti tra i membri del Governo, il voto del Cancelliere vale doppio.

Purtroppo questo suo errore comporterà la cancellazione, nel 2017, dell’articolo 103.


30 anni di Chernobyl

Come sapranno bene i miei lettori attenti, il 26 aprile si celebra la giornata internazionale dell’ignorante impaurito. Avrebbe potuto rimanere solo una giornata di commemorazione (non importa se internazionale o no). Avrebbe potuto essere pure una giornata di divulgazione scientifica in materia di fisica nucleare (meglio se a livello internazionale). Ma l’incidente della centrale di Chernobyl rimane una delle pseudo-motivazioni degli sostenitori delle mitiche fonti rinnovabili.

Di conseguenza, le speranze per il miglioramento della salute mentale della popolazione mondiale dipendono dalle persone che…
a) ci capiscono qualcosa della energia nucleare;
b) hanno la capacità e la voglia di scriverne.

Non posso, purtroppo, sostenere di essere un genio di fisica (anche se a scuola fu una delle mie materie preferite), ma tento comunque di dare un piccolo contributo.

Oggi, 30 anni dopo Chernobyl, le probabilità di una catastrofe analoga sono prossime allo zero per tre motivi:

1) I reattori moderni sono dotati dei sistemi «foolproof» e «geniusproof»: gli impianti elettronici sono quindi creati apposta per non permettere di fare stronzate o eseguire degli esperimenti azzardati;
2) Se gli impianti di cui sopra vengono comunque in qualche modo ingannati da una persona troppo determinata nel volere «giocare con gli atomi», i suoi tentativi verranno bloccati dal centro di controllo centrale (a livello nazionale).

3) Qualora fosse ingannato pure l’organo operativo centrale, l’incidente non avrà degli effetti al di fuori dalla cupola che isola il reattore dall’ambiente circostante. La cupola contenente il reattore danneggiato viene semplicemente sigillata in senso tecnico e giuridico.

4) Avrei potuto consigliarvi quanto scrive Eugene Kaspersky in materia della sicurezza informatica delle centrali nucleari ma, purtroppo, lo fa in russo. Comunque, non preoccupatevi: esistono già dei bei prodotti anche per questi tipi di clienti.

A qualcuno verrebbe da chiedere: perché tutte queste cose non sono state pensate, progettate e create prima dell’incidente di Chernobyl? Oppure: perché non si è aspettato la possibilità di utilizzare l’energia termonucleare? La risposta è una: perché il progresso è un processo sequenziale. Nemmeno lo scienziato o l’ingegnere più geniale non può prevedere proprio tutto. E, se non ci fossero degli errori, non ci sarebbe nemmeno il bisogno di continuare a cercare e trascinare in avanti il progresso scientifico.

Per lo stesso motivo i motociclisti porterebbero sin da subito i caschi metallici, i piloti non resterebbero soli nelle cabine di pilotaggio e gli uomini metterebbero i prodotti di gomma non solo sulle ruote delle auto.

Detto tutto questo, metto quello che forse molti di voi si aspettavano di vedere in questo post: alcune foto della città di Pripyat (a circa 3 km da Chernobyl).

Tutte le foto sono di Dmitry Chernyshev.


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Lo scambio dei condannati

Come forse sapete, ieri a Kiev sono stati condannati a 14 anni di reclusione due militari russi (Yevgeny Yerofeyev e Alexandr Alexandrov) per aver partecipato ai combattimenti contro l’esercito ucraino nel sud-est della Ucraina stessa. Come nei casi di tutti gli altri militari russi imprigionati, feriti, uccisi o semplicemente fotografati nell’area del conflitto, il Ministero della difesa russo ha da subito sostenuto che i due si sarebbero licenziati prima di andare a combattere in Ucraina.

Il fatto storicamente provato che la Russia ha sempre lasciato soli i propri militari finiti in difficoltà nel corso di una missione merita un testo serio a parte. Oggi volevo scrivere sul possibile scambio di militari fatti prigionieri e condannati dalle corti dei due Stati-parte del conflitto.

Yerofeyev e Alexandrov condannati in Ucraina, una volta finiti nelle mani degli ucraini, hanno ammesso di fare parte dell’esercito regolare. Ma, visto che il loro datore di lavoro nega tutto, formalmente avrebbero potuto essere processati per il terrorismo internazionale. Processati e condannati a una pena ben più grave.

Nadezhda Savchenko, al momento del suo rapimento, era una militare ucraina: non lo nega lei e non lo nega lo Stato ucraino. Quindi Savchenko è stata condannata a 22 anni di reclusione per avere combattuto contro gli invasori. Processata e condannata dagli invasori stessi. Si trova qualcosa di simile nella storia militare?

Ora il presidente ucraino Poroshenko propone di fare uno scambio: Yerofeyev e Alexandrov per Savchenko. Tale proposta fa ridere per due motivi. Prima di tutto, nessuno dei dirigenti dello Stato ucraino è realmente interessato, in questo periodo storico, a rivedere la Savchenko in patria. La sua popolarità (l’immagine della ucraina) è troppo facilmente convertibile in un consistente capitale politico. Non è detto che sia in grado di convertirla lei, ma ci sono dei partiti pronti ad aiutarla nella traballante situazione politica ucraina. Mi riferisco, in particolare, al partito della miracolosamente risorta Yulia Timoshenko.

Il secondo motivo è l’interesse dei dirigenti dello Stato russo verso i propri cittadini. Come ho scritto poco prima, un semplice militare non ha alcun valore e può essere lasciato dove sta per l’eternità. Un commerciante di armi (Viktor Bout) o un trafficante-grossista di droga (Konstantin Yaroshenko), essendo evidentemente legati a più personaggi di spessore russi, hanno invece un valore altissimo. In più, il presidente Putin trova molto più interessante trattare con l’Occidente che con il governatore di un territorio «storicamente russo». Un territorio che per uno spiacevole equivoco si chiama, per ora, Ucraina.

L’interesse mediatico e politico verso la sorte della Savchenko fa comunque da garanzia di un suo ritorno in patria prima dell’esaurimento della pena.


Non tentate di ripeterlo a casa

In questa notizia mi piace tutto, ogni dettaglio.

Il mio umorismo non scenderebbe mai ai livelli di quello di Ray, ma di battute ne faccio. Meno male che la mia donna è armata solo di padelle…


Perché niente cambi

Ieri Arseniy Yatsenyuk ha deciso di rassegnare le dimissioni dalla carica del primo ministro ucraino. Come probabilmente sapete, ricopre la carica da quando è stato cacciato, per la seconda volta nella storia, il presidente ucraino Yanukovych. Le prime dimissioni del premier Yatsenyuk, quelle presentate il 24 luglio 2014, non erano state accettate, mentre questa volta il presidente Poroshenko avrebbe già la candidatura di un sostituto.

Non posso fare commento positivo a tale avvenimento politico. Infatti, l’unico pregio del premier Yatsenyuk era (usiamo il passato) un buon livello di inglese, utile per fare una figura da simpatico e chiedere soldi all’Occidente. Di lavoro serio sui problemi interni dell’Ucraina non si era però visto. Recitare la parte della vittima di invasione bisognosa di sempre nuovi aiuti è stato, negli ultimi due anni, l’unico impegno dei dirigenti dello Stato ucraino. Tale strategia, entro certi limiti, può anche funzionare ai fini dei finanziamenti ma non rende certo il Paese attraente per l’UE (uno dei motivi della rivoluzione non era mica la richiesta una «integrazione» con l’UE?!).

Cambia qualcosa con le dimissioni di Yatsenyuk? Spero di sbagliare, ma mi sembra di no. Il capitale politico del presidente Poroshenko si basa solamente sulla lotta (più con le parole che con i fatti) contro l’invasore. Se volesse realmente risolvere anche i problemi interni del Paese, avrebbe fatto molti più cambiamenti e sostituzioni.

Detto tutto questo, ribadisco che l’aggressione russa contro l’Ucraina è una stronzata senza senso.


Oggi vi spiego in poche parole il riaccendersi del conflitto sul controllo di Nagorno-Karabakh.

Quando i prezzi del petrolio crollano e non vogliono proprio rialzarsi, ogni petrocrazia inizia a sentire, prima o poi, il bisogno di una piccola guerra vittoriosa. Una guerra finalizzata alla riappropriazione dei «territori storici sottratti ingiustamente». Una guerra che appare molto utile per risolvere i problemi politici interni del governante, di distrarre i cittadini dagli emersi problemi economici. Provate a ricordarvi voi qualche esempio recente.

Ricordatevi, poi, che già domenica, dopo tre giorni di scontri, il presidente di Azerbaijan Ilham Aliyev ha dichiarato di avere vinto la guerra. Come nei precedenti ai quali mi riferivo io, il reale risultato è poco chiaro e non ha alcuna importanza.

Certo, una telefonata da Mosca a Baku avrebbe potuto fermare la guerra già nelle prime ore, ma non avrebbe risolto i problemi di Aliyev di cui sopra. In più, Azerbaijan e Armenia, se ho capito bene, sono destinatari di circa 5% dell’export degli armamenti russi.


Gli Stati uniti dal Panama

Confesso il mio interesse verso la storia dei soldi di Putin e altri a Panama tende, per ora, verso lo zero. L’utilizzo dei «paradisi fiscali» non viola le leggi terrestri o divine ma, semplicemente, infastidisce gli Stati tanto tirchi da essere incapaci di offrire alle persone un regime fiscale che perlomeno non sappia di espropriazione. E per comprendere l’origine dalle ricchezze di certi politici, invece, mi serve tempo (anche se si sapeva da tempo, per esempio, che Putin non è una persona povera).

Quindi scriverò seriamente dell’argomento solo qualora dovessi scoprire qualcosa oltre l’originalissimo fatto che «tutti i politici sono dei ladri».


Stabilire il confine

Come sicuramente sapete, ieri Radovan Karadzic è stato condannato a 40 per crimini di guerra e genocidio.

Dai suoi crimini sono passati più di vent’anni: le vittime sono sepolte da tempo, mentre i parenti (se ancora in vita) hanno iniziato ad abituarsi a una nuova vita. Dal punto di vista dell’effetto emotivo, quindi, la condanna di Karadzic si avvicina sempre più a quelle inflitte ai vecchшetti quasi centenari che, scovati in qualche casa di riposo, vengono accusati di tutti i mali del nazismo. A un osservatore estraneo viene quasi da chiedere: «Ma chi se ne frega delle sue colpe dopo tanti anni? Lasciatelo morire che manca poco.»

Sembrerebbe più logico e opportuno sperare in processi e condanne più tempestive, non lontane decenni dai rispettivi crimini. Ma si tratta ancora di emozioni. Un processo fatto subito (ovviamente qualora ciò fosse possibile) sa sempre di una vendetta. Un processo fatto a distanza del tempo necessario per ragionare a testa fredda diventa un processo ai comportamenti e non alla persona. Non ha senso vendicarsi o rieducare il condannato. Ha senso codificare il Male.

L’unico aspetto interessante del verdetto [tardo] di ieri è quindi questo: una riaffermazione del confine tra la vendetta e la definizione del male. Di Karadzic e dei suoi colleghi di tutte le parti coinvolte nell’allora guerra non ce ne deve fregare niente.