I cinema – le strutture commerciali – non hanno saputo adeguarsi alla diffusine dell’internet e all’aumento della lunghezza dei film. Di conseguenza, si stanno estinguendo.
L’estinzione del cinema – quindi dei film e delle serie televisive – mi sembra un evento un po’ più lontano nel tempo: anche perché il cinema si adegua più facilmente al mondo contemporaneo. Ma si potrebbe fare di più.
Per esempio, immaginate quel momento di un film horror (ma anche d’azione) quando improvvisamente si spegne la luce e il protagonista ne rimane negativamente sorpreso. Ma nel XXI secolo la maggioranza degli spettatori inizia a vedere il riflesso del proprio volto sullo schermo nero! Secondo me gli sceneggiatori dovrebbero iniziare a prevedere e sfruttare questa circostanza.
Così diventiamo tutti attori. Ma anche dei propri spettatori.

L’archivio della rubrica «Cultura»
Per il post musicale di oggi ho scelto la Sinfonia n. 1 (detta «Jeremiah») del compositore statunitense Leonard Bernstein. Non mi importa molto il fatto che essa sia stata scritta su una storia biblica: valuto e apprezzo sempre il solo aspetto artistico dell’opera.
Un certo Lee Steffen di Nashville ha pubblicato su Twitter una interessante classificazione degli schemi utilizzati per la creazione di una notevole parte dei poster cinematografici. È una osservazione curiosa tratta da una storia vera, ahahaha
I film d’azione blu/arancione
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Se qualcuno mi avesse chiesto perché non pubblico qualcosa del rock o blues russo, io avrei risposto di avere almeno due motivi validi. Uno di questi è la lingua.
Per fortuna, però, almeno in questo senso esistono anche delle eccezioni.
L’eccezione che vi propongo oggi è Sergey Voronov con il suo gruppo Crossroadz (i nomi vecchi del gruppo sono Crossroads e X-Roudz) formato nel 1990. Non è il suo unico gruppo, probabilmente nemmeno il più originale, ma cominciamo pure da esso.
Ho riflettuto per un po’ di tempo sulla opportunità di invertire l’ordine delle canzoni scelte, ma poi ho comunque trovato le forze per seguire la cronologia degli eventi.
La prima canzone selezionata è la «Diamond Rain» (dall’album «Between» del 1993):
La seconda canzone scelta per oggi è la «We Were Meant to Be» (dall’album «Irony» del 2009):
Finalmente un nome non banale.
Nei giorni scorsi ho scoperto che l’organizzazione pubblica «Paris Musées» («Musei parigini») – che cura 14 musei della città – ha fatto un passo enorme sulla strada del progresso. Ha pubblicato sul proprio sito oltre 150 mila immagini a risoluzione altissima dei pezzi esposti nelle sue strutture.

Tutte le foto possono essere visualizzate e scaricate gratuitamente, essere utilizzate a qualsiasi scopo. Comunque siano le vostre intenzioni – anche la semplice curiosità – vedere in dettaglio certe opere di Rembrandt, Gustav Courbet, Eugène Delacroix, Claude Monet o Antoon van Dyck almeno sul computer è una bella cosa.

È uno strumento in più per capire meglio cosa andare a vedere dal vivo.
Per il post musicale di oggi ho voluto selezionare qualcosa di allegro. A termine di un breve periodo di meditazione ho dunque scelto la piece per l’orchestra «An American in Paris», scritta dal compositore George Gershwin nel 1928 (e suonata per la prima volta a Canegie Hall il 13 dicembre dello stesso anno).
Sì, dovrei educarvi anche all’ascolto del jazz, ahahaha
La maggioranza dei genitori religiosi è convinta che i loro figli siano più buoni, altruisti e onesti rispetto ai figli degli atei. Una ricerca della Università di Chicago, condotta in Canada, Cile, Giordania, Turchia, USA e Corea del Sud, ha però rilevato la correlazione di segno opposto tra il livello di religiosità e il livello di altruismo dei bambini. La ricerca è stata condotta su 1170 bambini dell’età tra i 5 e i 12 anni.
Si è scoperto, dunque, che la religiosità dei genitori incide negativamente sull’altruismo dei bambini e rende questi più propensi alla crudeltà (per la nostra fortuna si tratta di una statistica). La convinzione popolare circa la cosiddetta «catastrofe morale» del mondo dovuta all’abbandono della religione è dunque da considerare di validità più che dubbia.

Da parte mia aggiungerei che per l’umanità le religioni hanno svolto un compito molto simile a quello svolto dalle fiabe per i bambini. I bambini, crescendo e sviluppando le capacità intellettuali, trovano altre fonti dei valori umani, altre (notevolmente più evolute) giustificazioni del proprio operato, altri modi di distinguere tra il bene e il male. L’umanità non è più una bambina: ha abbondantemente superato quella età intellettuale nella quale furono sufficienti le fiabe religiose.
Penso che la canzone «Highway Star» sia ben nota anche alle persone che non sono mai state dei grandi fan dei Deep Purple. Come tanti altri grandi classici musicali, la canzone è nata per caso: a settembre del 1971, mentre i Deep Purple stavano andando a Portsmouth in autobus durante il loro tour in Gran Bretagna, qualcuno dei giornalisti presenti a bordo aveva chiesto a Ritchie Blackmore come facesse il gruppo a scrivere le canzoni. A quel punto Blackmore aveva preso una chitarra acustica (secondo altri fonti un banjo) e iniziato a suonare un riff della nota Sol a ripetizione. Ian Gillan, da parte sua, aveva iniziato a improvvisare un testo, composto anche dalle frasi prive di alcun senso particolare (tipo «… Steve McQueen, Mickey Mouse and Brigitte thingy»). A dicembre dello stesso anno, durante le registrazioni in studio, il gruppo aveva dunque perfezionato il testo e la musica della canzone. Nello stesso periodo il basista Roger Glover aveva inventato il titolo della canzone.
La versione nota a tutti fa dunque parte dell’album «Machine Head» del 1972:
Come tutte le canzoni ben riuscite, anche la «Highway Star» è stata successivamente cantata da diversi altri gruppi musicali. Oggi vi propongo due di quelle cover. La prima è del gruppo Metal Church (inserita anche nell’omonimo album d’esordio del 1984):
La seconda cover, secondo me molto più interessante dal punto di vista musicale, è del gruppo italiano Quintorigo (contenuta nell’album «Grigio» del 2000):
Quest’ultimo è un bel esempio di utilizzo moderno degli strumenti classici, inspiegabilmente snobbato dalla maggioranza dei musicisti. Probabilmente, è anche una questione della capacità.
Molto probabilmente, «Once Upon a Time… in Hollywood» è il primo film di Tarantino che mi ha fatto pensare. Quasi sicuramente mi ha fatto pensare solo perché non sembra un film di Tarantino.
Da quando è uscito il film, ho visto tantissime persone alla ricerca del suo senso nascosto e del motivo che ha spinto il regista a produrre una opera per egli così atipica. Nessuno ha però proposto delle risposte convincenti o almeno interessanti. Tocca quindi a me…

Secondo il mio parere autorevolissimo, il «Once Upon a Time… in Hollywood» è la vendetta personale di Tarantino per il Hollywood e per il cinema degli anni ’60 e ’70 di quei tempi che hanno formato la cultura cinematografica di Tarantino stesso e che sono mutati fortemente anche «grazie alla» Family di Manson. In tutti (o quasi) i film di Tarantino i personaggi si vendicano per qualcosa. Ora lo fa lui con le mani dei personaggi in una delle ultime scene del film.
Ci ha messo tanto impegno per poter compiere una vendetta del genere. Ha sviluppato quella metodologia, quella tecnica della vedetta che noi abbiamo sempre conosciuto semplicemente come il suo stile cinematografico. E ha finalmente deciso che ora si può: è pronto lui e sono pronti gli spettatori. Ha dunque superato questo traguardo della propria carriera da regista.
Ora ha un impegno in meno nella vita professionale e può sentirsi libero a fissare qualche altro obiettivo. Ma sarebbe esagerato e scorretto cercare dei punti in comune con uno dei protagonisti dell’ultimo film.
Ecco, secondo la mia interpretazione personale il vero senso del «Once Upon a Time… in Hollywood» è questo.
Il compositore Mikael Tariverdiev (1931–1996) nacque da genitori armeni in Georgia, studiò musica a Erevan (Armenia) e a Mosca. Proprio a Mosca condusse tutta la sua vita professionale, diventando noto al largo pubblico soprattutto in qualità dell’autore della musica per il cinema. Al giorno d’oggi è stato calcolato che Tariverdiev scrisse la musica per 132 film sovietici e russi, diversi spettacoli teatrali, oltre cento canzoni, 4 balletti, 5 opere, 1 sinfonia, 3 concerti per organo, 3 concerti per violino e orchestra. Si tratta, comunque, di numeri approssimativi, in quanto lo studio del suo archivio musicale non è tuttora stato completato.
Quest’ultimo fatto, in particolare, è una fonte di tante speranze per gli amanti della musica: Mikael Tariverdiev è stato un compositore molto interessante. Sappiamo, inoltre, che una parte consistente della musica strettamente classica fu scritta dal compositore nella seconda – o spesso anche nella più tarda – parte della vita.
Per il post musicale di oggi ho scelto il suo «Trio per violino, violoncello e pianoforte» (bello nella sua semplicità):
In qualità del bonus track pubblico una delle musiche per un popolarissimo film sovietico degli anni ’70. Il nome convenzionale del brano è «San Pietroburgo sotto la neve».



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