Il compositore tedesco Franz Grothe si era professionalmente impegnato, in particolar modo, nel comporre musica per il cinema. Nel periodo dal 1929 al 1969 aveva scritto le musiche per 170 film, 71 di questi ultimi sono stati prodotti entro il 1945.
Grothe è stato un personaggio particolare: nel 1933 si iscrisse alla NSDAP ma allo stesso tempo ebbe una relazione sentimentale con una ebrea, nel 1936 tentò di emigrare negli USA ma non riuscì a stabilirsi alla Hollywood a causa dei problemi critici con l’inglese, negli anni della Seconda guerra mondiale compose la musica per i film e per le canzoni patriottici ma nel 1948 ottenne il permesso di praticare la propria professione in quanto «non fu un partecipante attivo ai crimini dei nazisti» (ma fu multato per 10.000 marchi per avere nascosto il fatto della propria iscrizione al partito)…
Ma in questa sede Franz Grothe ci interessa per un altro motivo.
Negli anni 2000 la professoressa della teoria musicale Patricia Hall (University of California) ha trovato negli archivi del campo Auschwitz-Birkenau i manoscritti della partitura del foxtrot di Grothe «Il periodo più bello della vita». La musica in questione fu arrangiata e suonata dai detenuti ai concerti per gli ufficiali del campo di concentramento negli anni 1942–1943. Patricia Hall ha altrettanto stabilito che due di quei musicisti detenuti sarebbero sopravvissuti, mentre il destino del terzo è sconosciuto. Dopo il ritrovamento la musica riscoperta è stata suonata per la prima volta in pubblico – nella sua versione adattata dai detenuti – il 30 novembre 2018. Eccola:
Avendo parafrasato in mente una espressione di Theodor Adorno, non aggiungo altri video musicali.
L’archivio della rubrica «Cultura»
Il gruppo statunitense Mountain si era formato nel 1969, si era sciolto e riunito più volte, suonava la musica dei generi anche abbastanza lontani tra essi (come, per esempio, il hard-rock e il blues-rock) ed è passato definitivamente (pare) alla storia dopo la morte nel 2020 del chitarrista Leslie West (uno dei fondatori). Nella storia, appunto, il gruppo rimane prevalentemente per tre motivi: per la partecipazione al festival di Woodstock, per la presenza di Leslie West e per una delle canzoni pubblicate nel 1970.
Mi era già capitato di pubblicare due canzoni di Leslie West (e, molto probabilmente, lo farò ancora in futuro), mentre alla canzone più famosa dei Mountain sarà dedicato un post specifico.
Oggi, invece, volevo condividere con i lettori altre due canzoni dei Mountain meritevoli di attenzione…
La prima canzone di oggi è la «Nantucket Sleighride» (dall’album «Nantucket Sleighride» del 1971):
E la seconda canzone di oggi è la «Boys In The Band» (dall’album «Climbing!» del 1970):
Ci sono delle opere che potrebbero rimanere nella storia.
Dopo avere visto, qualche tempo fa, il film «The Last Duel» (bello e molto attuale nonostante essere ambientato nel XIV secolo, sicuramente da vedere), per l’ennesima volta mi ero chiesto: come facevano i semplici cavalli dei cavalieri a reggere il regime del combattimento con tutto quel carico di metallo sopra? Considerando anche il fatto che le tecnologie dell’epoca non consentivano di creare le protezioni e le armi tanto leggeri…
Ebbene, la settimana scorsa ho avuto una interessante risposta.
Solitamente si presume che nel Medioevo i cavalieri avessero combattuto utilizzando dei grossi cavalli (destrières), simili agli attuali Percherons, Brabansons e Charières.
Ma i ricercatori, dopo avere studiato le ossa di oltre due mila cavalli del periodo tra il IV e il XVII secolo trovati nei castelli o nei cimiteri speciali dei cavalli, sono giunti alla conclusione che quelli dei cavalieri furono dei cavalli molto piccoli, non più alti di 4 piedi e 10 pollici (147 centimetri). Quella è l’altezza di un pony dei giorni nostri.
Di conseguenza, vanno riviste quelle modalità dei duelli che abbiamo sempre avuto in mente grazie al cinema. Compresi i loro ritmi.
P.S.: e, ovviamente, ricordo a tutti che la storia non si impara dai film, nemmeno quando Ridley Scott finalmente si decide di farne uno scientificamente molto più attendibile dei precedenti.
Improvvisamente, per il post musicale di oggi ho voluto selezionare qualcosa di positivo e rasserenante. In tal senso potrebbe andare bene il concerto per flauto in sol maggiore di Christoph Willibald Ritter von Gluck:
Mi dispiace tanto che diverse composizioni di Gluck siano andate perse…
Il duo country-rock statunitense The Everly Brothers fu particolarmente famoso e popolare nel primo perido della propria attività: dal 1956 (l’anno dell’esordio) al 1963 (l’anno in cui i fratelli Phil e Don furono chiamati alla marina militare USA). La stilistica del duo influenzò diversi gruppi famosi dei decenni successivi: in particolare (secondo me) il ben noto anche a voi duo Simon and Gurfunkel (il quale, però, è diventato meritatamente famoso senza imitare cecamente i protagonisti del mio post di oggi).
Ricordando i gruppi di una simile popolarità e influenza, ma allo stesso tempo anche datati (quest’anno The Everly Brothers avrebbero festeggiato 66 anni di attività), è sempre ammissibile postare anche le loro canzoni più famose: c’è sempre qualcuno che non se le ricorda o addirittura non conosce. Quindi per il post musicale di oggi ho scelto le seguenti due canzoni de The Everly Brothers.
La prima è la «Bye Bye Love» (dall’album «The Everly Brothers» del 1957). Si tratta del secondo singolo del gruppo nel senso cronologico e della prima loro canzone diventata popolare.
La seconda canzone selezionata per oggi è la «Cathy’s Clown» (dall’album «A Date with the Everly Brothers» del 1960). Questa è stata la prima canzone pubblicata dallo studio americano Warner Bros. Records in UK; nel 1963 The Beatles avevano arrangiato la parte vocale di «Please Please Me» seguendo l’esempio di questa canzone.
È abbastanza curioso ricordarsi del fatto che non troppo tempo fa (certo, relativamente) questa era la musica giovanile alla moda.
Branson DeCou nacque nel 1892 a Philadelphia (in Pennsylvania, USA). Durante gli studi al Stevens Institute of Technology si interessò seriamente alla fotografia e, essendo stato motivato dal successo delle sue prime opere, abbandonò gli studi dopo appena un anno per iniziare a girare il mondo con la macchina fotografica. Nel periodo tra il 1915 e il 1941 riuscì a visitare diversi Stati del mondo, scattando una notevole quantità di foto. Nel tempo libero dai viaggi si guadagnò da vivere tenendo delle conferenze sui propri viaggi: assistito dalla moglie, mostrava al pubblico le proprie foto e raccontava delle circostanze nelle quali le suddette foto erano state scattate. Lo show, chiamato «Dream Pictures», aveva un costante successo tra il pubblico statunitense.
Il 12 dicembre 1941 Branson DeCou morì di infarto all’età di 49 anni. La sua vedova continuò a condurre le conferenze basate sulle foto del marito per alcuni altri anni, dopodiché donò – sul consiglio del fotografo Ansel Adams – tutte le opere del marito alla University of California. Ora l’intera collezione (circa ottomila foto) è conservata al campus di Santa Cruz; molte delle foto sono pubblicate sul sito della biblioteca universitaria. Secondo me quelle immagini sono interessanti non solo per una grande varietà dei luoghi e delle situazioni del passato immortalati, ma anche per il fatto che ogni scatto è stato colorato – già all’epoca dello sviluppo – a mano con la vernice all’anilina.
Io ho speso un bel po’ di tempo a studiare le foto di DeCou, anche se il database che le contiene è organizzato in un modo un po’ stupido: per esempio, il filtro «Italia» non include nei risultati di ricerca le foto per «Milano», mentre il filtro «Milano» non include quelle per «La Scala» etc. etc.. Però le foto sono da vedere!
Per questo post ho selezionato solo alcuni – pochi – esempi.
Un vigile con dei ciclisti a Milano:
La basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo:
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Se avessi la possibilità di svolgere delle ricerche sociologiche qualitative basate su un largo campionario, avrei iniziato da uno dei miei dubbi più grandi degli ultimi 12 mesi.
La mia domanda scientifica è: ma tutti gli italiani entusiasmati per gli show «Ciao 2020» e «Ciao 2021» usciti sul primo canale della televisione russa la notte di Capodanno 2021 e 2022 cosa potevano (o pensavano di) capirci?
Io, essendo madrelingua russo ed essendo aggiornato sulla cultura popolare russa contemporanea e quella dei decenni passati, capisco:
a) a quali canzoni russe e sovietiche è stata data una sonorità scherzosamente «italianizzata»,
b) chi sono realmente tutti i personaggi che partecipano agli show (e, quindi, perché i loro ruoli fanno ridere),
c) che diverse parole italiane fanno ridere agli spettatori russi a causa della assonanza con le parole russe (e negli show citati quelle parole vengono spesso usate per fare delle battute di un livello… ehm… abbastanza vario),
d) che in diverse scene vengono presi in giro (o almeno «citati») la tv russa e sovietica, i film russi e sovietici, la musica russa e sovietica, i meme russi e molti altri fenomeni culturali e sociali,
e) che i rappresentanti non sempre migliori della musica italiana erano ascoltati nell’URSS (ma anche ora tra le persone di una certa età non particolarmente esigenti/aggiornate) solo perché erano tra i pochi cantanti/musicisti del mondo capitalista che si poteva ascoltare legalmente; gli autori degli show e gli spettatori russi lo sanno benissimo.
Purtroppo o per fortuna, non posso fare finta di non capire tutte le cose appena elencate (come alcune altre ancora), quindi non riesco proprio a guardare quegli show con gli occhi di un italiano. E, di conseguenza, non riesco proprio a capire per quali motivi quegli show siano piaciuti tanto a molti italiani. Che cazius potevano capirci?!
Boh…
Saranno (o sarete?) contenti per il solo fatto che qualcuno all’estero si ricorda della lingua italiana? Ma in questo caso l’italiano è solo un contenitore utilizzato intenzionalmente «male» e, certamente, non per manifestare qualche sentimento verso l’Italia.
Bene, ora vado a scrivere ai miei amici sociologi. Sperando che qualcuno si interessi…
Volevo selezionare qualche bella musica adatta per il periodo festivo in corso, e penso di esserci riuscito.
Oggi vi propongo il Concerto grosso in sol minore (fatto per la notte di Natale) di Arcangelo Corelli. Mi piace questa sua esecuzione della Orquesta Sinfónica de Galicia diretta da Ton Koopman:
E poi vi ricordo che si tratta dell’ottavo dei dodici concerti grossi del compositore: si trovano tutti facilmente su internet.
Dalla primavera di quest’anno tutti – sì, ormai tutti – sanno che cosa è e che aspetto ha un QR code. Molte persone hanno pure capito come funziona un QR code. Diversi possessori degli iPhone si sono pure ricordati di avere già un lettore dei codici QR preinstallato sui loro telefoni (il quale, però, non è in grado di leggere i «green pass»).
Ma non tutti sanno che l’invenzione del QR code non è arrivata proprio dal nulla. Si dice l’idea di questo codice sia venuta in mente all’ingegnere giapponese Masahiro Hara nel 1992 grazie a una analogia con il gioco Go, ma non possiamo escludere che abbia anche visto qualcuna delle immagini storiche che sto per mostrarvi, ahahaha
Alcune settimane fa nel segmento russo dell’internet è diventata famosissima la foto di Mengli Giray I (visse dal 1445 al 1515), il quale fu uno dei più celebri khan della Crimea. Salì al trono e regnò per un totale di 45 anni: nel 1466, dal 1468 al 1475 e poi dal 1478 al 1515. In questa sede non trovo opportuno raccontarvi tutti i dettagli della sua biografia ricca di avvenimenti (lo potete immaginare anche solo guardando le date elencate), quindi mi limito a sottolineare che il disegno del suo timbro assomiglia moltissimo ai moderni codici QR.
Tantissime persone hanno cercato di decifrare il disegno del timbro. Continuare la lettura di questo post »
Riprendendo, in un certo modo, l’argomento del Babbo Natale, potrei finalmente scrivere di quel fenomeno che ormai da diversi anni commento nelle conversazioni tematiche con gli amici e conoscenti italiani. Si tratta delle date diverse del Natale cattolico e quello ortodosso.
Più o meno tutti sanno che il Natale ortodosso si festeggia il 7 di gennaio perché la Chiesa ortodossa segue [ancora] il calendario giuliano. Non tutti però sanno che per la Chiesa ortodossa la data della suddetta festività è fissa: infatti, nel corso dei secoli si è progressivamente spostata dal 23 dicembre al 7 gennaio dell’anno solare successivo. E, soprattutto, il processo dello spostamento della data non si dovrebbe fermare fino al momento della scomparsa del nostro sistema solare. Così, per esempio, a partire dal 2101 il Natale ortodosso si festeggerà l’8 di gennaio.
Il fenomeno dello spostamento della data è dovuto al fatto che il calendario giuliano — che è elevato al rango di un dogma e non può essere cambiato — considererà, a differenza del calendario gregoriano (quello seguito dalla Chiesa cattolica), l’anno 2100 come bisestile perché il suo numero si divide per 4. Secondo il calendario gregoriano, invece, l’anno 2100 non è bisestile perché il suo numero non si divide perfettamente per 400. Di conseguenza, nel calendario giuliano (quello ortodosso) compare un giorno «di troppo»: il 29 febbraio 2100 (che non può essere buttato via per una serie di motivi, la commemorazione di alcuni santi compresa). Questo comporta lo spostamento della data del primo Natale seguente al 29/II 2100 dal 7 all’8 di gennaio 2101. Sempre dalla data del 29 febbraio 2100 la differenza tra i calendari delle due Chiese sarà di 14 giorni e non più di 13.
Naturalmente, non è la prima volta che una cosa del genere si verifica in oltre due mila anni di storia. Quindi vi propongo una tabella che mostra come è cambiata la differenza in giorni tra il calendario giuliano e quello gregoriano. In sostanza, questa tabella mostra, secolo per secolo, quanti giorni vanno aggiunti al 25 dicembre per stabilire la data del Natale ortodosso in vigore per il secolo scelto.
Il secolo | I periodi (in anni) del calendario giuliano | La differenza in giorni | Il secolo | I periodi (in anni) del calendario giuliano | La differenza in giorni | ||
dal 1/III | al 29/II | dal 1/III | al 29/II | ||||
I | 1 | 100 | –2 | XII | 1100 | 1200 | 7 |
II | 100 | 200 | –1 | XIII | 1200 | 1300 | 7 |
III | 200 | 300 | 0 | XIV | 1300 | 1400 | 8 |
IV | 300 | 400 | 1 | XV | 1400 | 1500 | 9 |
V | 400 | 500 | 1 | XVI | 1500 | 1600 | 10 |
VI | 500 | 600 | 2 | XVII | 1600 | 1700 | 10 |
VII | 600 | 700 | 3 | XVIII | 1700 | 1800 | 11 |
VIII | 700 | 800 | 4 | XIX | 1800 | 1900 | 12 |
IX | 800 | 900 | 4 | XX | 1900 | 2000 | 13 |
X | 900 | 1000 | 5 | XXI | 2000 | 2100 | 13 |
XI | 1000 | 1100 | 6 | XXII | 2100 | 2200 | 14 |
Ovviamente, il cambiamento della differenza tra i due calendari comporterà — come ha comportato anche nel passato — lo spostamento anche di tutte le altre festività ortodosse.
La differenza tra i due calendari appare spesso una cosa bizzarra, scomoda, poco sensata etc. Entrambi i calendari, però, sono accumunati da un medesimo problema di logica: se nell’Occidente gli anni si contano dalla nascita di Gesù, perché la data della sua nascita è sempre diversa dalla data dell’inizio dell’anno? Perché secondo il calendario gregoriano l’anno inizia sei giorni più tardi e secondo quello giuliano sette (per ora) giorni prima?
Certo, nemmeno i teologi sono d’accordo tra loro sulla data precisa della nascita di Gesù: sanno solo che sarebbe nato verso la metà dell’inverno. Ma tale incertezza sarebbe un bel motivo aggiuntivo per abbandonare entrambi i calendari (gregoriano e giuliano) e passare a un calendario comune, nel quale la data del Natale sarà fissata per il 31 dicembre. Sarebbe una grande vittoria della logica.
Ma, purtroppo, l’eventualità di un largo consenso tra i rappresentanti dei gruppi concorrenti è un sogno tanto idillico quanto l’attesa delle azioni logiche intraprese da una qualsiasi Chiesa.