Come sicuramente sapete, ieri Radovan Karadzic è stato condannato a 40 per crimini di guerra e genocidio.
Dai suoi crimini sono passati più di vent’anni: le vittime sono sepolte da tempo, mentre i parenti (se ancora in vita) hanno iniziato ad abituarsi a una nuova vita. Dal punto di vista dell’effetto emotivo, quindi, la condanna di Karadzic si avvicina sempre più a quelle inflitte ai vecchшetti quasi centenari che, scovati in qualche casa di riposo, vengono accusati di tutti i mali del nazismo. A un osservatore estraneo viene quasi da chiedere: «Ma chi se ne frega delle sue colpe dopo tanti anni? Lasciatelo morire che manca poco.»
Sembrerebbe più logico e opportuno sperare in processi e condanne più tempestive, non lontane decenni dai rispettivi crimini. Ma si tratta ancora di emozioni. Un processo fatto subito (ovviamente qualora ciò fosse possibile) sa sempre di una vendetta. Un processo fatto a distanza del tempo necessario per ragionare a testa fredda diventa un processo ai comportamenti e non alla persona. Non ha senso vendicarsi o rieducare il condannato. Ha senso codificare il Male.
L’unico aspetto interessante del verdetto [tardo] di ieri è quindi questo: una riaffermazione del confine tra la vendetta e la definizione del male. Di Karadzic e dei suoi colleghi di tutte le parti coinvolte nell’allora guerra non ce ne deve fregare niente.
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