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Richard Pipes

Con un po’ di ritardo ho saputo della morte dello storico statunitense Richard Pipes.
Molto probabilmente lo conoscevate già, ma io sfrutto comunque la triste occasione per consigliarvi uno dei suoi libri più noti e interessanti sulla Russia: «Russia Under the Old Regime». Il libro ricostruisce la storia russa dai tempi di antichità fino agli anni ’80 del XIX secolo ed è, nonostante un approccio non strettamente scientifico, una fonte utilissima per comprendere anche la Russia contemporanea.
Non ho letto tutte le opere di Richard Pipes, ma posso comunque assicurarvi che è stato un autore di altissima qualità.


L’arretratezza dei corsi

Oggi sarebbe il 200° anniversario dalla nascita di Karl Marx. Non sono un grande fan delle sue opere pseudo-scientifiche e, allo stesso tempo, ritengo poco utile sprecare tempo per la critica delle sue teorie obsolete da tutti i punti di vista.
L’unico motivo veramente valido per continuare oggi a discutere della sua figura è la curiosa situazione in cui si trova l’insegnamento della economia in molte università del nostro pianeta. A tutti coloro che si sono laureati molto tempo fa o hanno evitato gli esami di economia il fatto potrebbe sembrare incredibile, ma è reale: sui libri universitari di economia si trovano ancora moltissime tracce del pensiero di Marx.
Si tratta di un fatto reale e tragico. Infatti, moltissime persone dotate di un basso livello di pensiero critico si fanno installare nei propri cervelli una visione di quel mondo che non esiste più da oltre un secolo. Per di più, valutano quel mondo remoto nel tempo (come s esistesse ancora) servendosi delle teorie economiche non completamente sensate.
Gli esempi concreti sono innumerevoli, partendo già dalla stranissima affermazione che un lavoratore dipendente venderebbe il proprio lavoro in cambio del salario. Ciò potrebbe in una certa misura essere vero in una economia caratterizzata da un alto impiego della manodopera non/poco qualificata (per una buona parte del XIX secolo fu ancora così), ma nel XXI secolo non è assolutamente vero. Se l’affermazione marxista fosse vera, il lavoro più conveniente per i «padroni» sarebbe quello delle scimmie: potrebbe essere pagato con poche banane al giorno. Ma alla economia dei nostri giorni non serve il lavoro delle scimmie. Non serve nemmeno il lavoro degli umani che hanno un simile livello di istruzione. Alla economia di oggi servono le conoscenze e le competenze che gli umani sono disposti a vendere e/o condividere. Quelle conoscenze e competenze che permettono di sfruttare le conquiste del progresso e portarlo avanti. E quindi non rimanere indietro nella competizione tra le aziende, tra gli Stati e tra le zone geografiche. Di conseguenza, un umano consapevole ha tutte le possibilità di uscire dalla condizione di essere una merce attraverso la cultura. Più competenze ha una persona, più pregiata diventa, sempre più una merce per pochi, fino a diventare uno status-symbol di cui qualsiasi azienda sarebbe fiera.
Certo, è importantissimo ricordare la differenza tra le conoscenze e le abilità (saper creare e prendere le decisioni è sempre più importante del saper svolgere le operazioni ripetibili secondo le istruzioni imposte), ma questo è l’argomento di un altro lungo post.
Ai fini del post di oggi, invece, possiamo costatare una cosa poco felice. Le zone geografiche nelle quali prevale la vendita del lavoro da parte dei lavoratori si avvicinano sempre più alla concezione del Terzo Mondo. Le zone geografiche dove prevale invece la vendita delle conoscenze son più vicine alla concezione del Primo Mondo. Non dobbiamo dunque prendere il cattivo esempio dagli ammiratori di Marx: lo spostamento delle industrie al di là dei confini dei nostri Stati è una tendenza economica positiva. Essa testimonia un buon livello di progresso economico, sociale e culturale.


Quando si dice fortuna

In occasione dei 106 anni dal naufragio del Titanic vi racconto di una persona con un destino particolare.
Arthur John Priest fu uno dei 150 fuochisti del Titanic (la nave ebbe bisogno di 600 tonnellate di carbone al giorno) ed ebbe la fortuna di sopravvivere al naufragio nonostante un forte congelamento (i fuochisti nel loro ambiente lavorativo indossarono solamente i shortes e i gilè).
L’anno precedente Priest lavorò sulla nave Olympic (nave gemella del Titanic) che fu speronata dall’incrociatore Hawke. Quell’incidente divenne un caso didattico illustrando il fenomeno «bank effect» (non sono sicuro sulla traduzione in italiano del termine: ecco la spiegazione su Wikipedia).
Prima ancora John Priest lavorò sulla nave Asturias, il primo viaggio della quale finì con uno scontro.
Quando iniziò la Prima Guerra mondiale, Priest trovò il lavoro al mercantile armato Alcantara. Nel febbraio 1916 il piroscafo tedesco Greif, adattato ai fini bellici e mascherato per sembrare una nave norvegese, si avvicinò alla Alcantara e aprì il fuoco. In seguito a una breve battaglia entrambe le navi affondarono. Morirono 72 marinai britannici e 187 marinai tedeschi. John Priest sopravvisse pur essendo stato ferito da alcune schegge.
A quel punto Priest trovò il lavoro alla nave Britannic (gemella di Titanic e Olympic). Britannic non fece nemmeno un viaggio commerciale, ma fu trasformato in una nave-ospedale. Il 21 novembre 1916 la nave si scontrò con una mina navale tedesca e affondò con la velocità tripla di quella del Titanic: ciò successe a causa di una delle porte interne guaste e di numerosi oblò aperti dalle infermiere per garantire il ricambio dell’aria nelle corsie. Due scialuppe furono fatte scendere troppo presto e finirono contro le eliche funzionanti della nave. Morirono 30 persone. Priest sopravvisse.
Il posto di lavoro seguente di John Priest fu la nave-ospedale Donegal. Il 17 aprile 1917 nella Manica il Donegal fu fatto naufragare dal sottomarino tedesco UC-21.
Dopo questo spiacevole evento John Priest, naturalmente ancora vivo, rimase senza un lavoro legato al mare: nessuna altra nave fu più disposta di prenderlo a bordo.
John Priest morì di polmonite nel 1937.


65 anni senza Stalin

La data odierna (forse) è un anniversario importantissimo. Secondo la versione ufficiale dei fatti, alle 21:50 (l’ora di Mosca) del 5 marzo 1953 morì Iosif Stalin. Non sappiamo quanto siano reali la data e l’ora dell’evento. Possiamo solo supporre, grazie ad alcuni indizi, che Stalin fu colpito dall’ictus la notte tra il 28 febbraio e l’1 marzo, mentre i medici furono chiamati a visitarlo solo il 2 marzo. Il primo comunicato ufficiale sul fatto della malattia di Stalin fu diffuso il 4 marzo. La notizia sulla morte, invece, fu per la prima volta data alla radio alle 6 del mattino del 6 marzo.
Avrei voluto consigliarvi un interessantissimo libro sulla cronologia degli ultimi cinque giorni di vita di Stalin, ma, stranamente, non è ancora stato tradotto in almeno una delle lingue che possiate conscere.
Nemmeno le persone capaci di leggere in russo, però, sanno con precisione se la morte sia avvenuta a causa di un avvelenamento nel corso della ubriacata di quella note con i quattro «fedeli» compagni (Berija, Khruschev, Malenkov e Bulganin) oppure, semplicemente, perché arrivò la sua ora.
Sappiamo molto bene, però, che i preparativi alla sua morte furono eseguiti con una grande precisione. Infatti, nei mesi precedenti alla morte Stalin fu privato (grazie alle «segnalazioni» di Berija) dei collaboratori più fedeli che selezionò e addestrò nel corso dialcuni decenni: prima di tutto il suo medico di fiducia (professor Vinogradov), il suo capo della sicurezza (il generale Vlasik) e il suo segretario personale (il maggior generale Poskrëbyšev). Nei giorni successivi alla morte, invece, avvenne la eliminazione dei possibili testimoni scomodi: i dipendenti della residenza dove avvenne il tutto, il figlio di Stalin Vasilij (il quale dichiarò pubblicamente che il padre sarebbe stato avvelenato).
I principali quattro testimoni dei fatti di quella notte tra il 28 febbraio e l’1 marzo – cioè le personalità partitiche più importanti dopo Stalin: Berija, Khruschev, Malenkov e Bulganin – ebbero, a quanto pare, dei motivi assolutamente comprensibili per partecipare senza alcun rimorso all’intera impresa. Ebbero bisogno di anticipare una nuova «grande pulizia» staliniana tra i vertici del Partito.
Tre di loro – Khruschev, Malenkov e Bulganin – ebbero l’intelligenza capire che alla morte di un dittatore molto spesso segue la comparsa di un altro. Di conseguenza, dopo appena 16 settimane organizzarono, con l’aiuto dei militari, l’arresto del loro compagno di avventura Berija (troppo impegnato nella conquista del potere personale). Dopo altri sei mesi Berija fu condannato a morte per spionaggio a favore di un grande numero di Stati esteri. Non sappiamo tuttora se sia stato fucilato immediatamente dopo la condanna o già il giorno dell’arresto. Non sappiamo nemmeno che fine abbia fatto il suo corpo. Ma nel 2002 la Sezione militare della Corte Suprema russa confermò quella condanna del 1953.
Quello che mi interessa ora, però, è risultato positivo di quegli eventi dei primi di marzo del 1953: sono state salvate le vite di alcuni milioni dei cittadini sovietici. Anche se i 29 anni della peranenza al potere di Stalin produssero degli effetti catastrofici.
Possa il suo nome essere cancellato.


100 anni della armata rossa

Il 23 febbraio corrisponde a una delle festività russe più curiose. Ufficialmente essa si chiama la Giornata del Difensore della Patria (nel senso militare), ma nella prassi quotidiana popolare si è trasformata — ormai alcuni decenni fa — nella festa dell’uomo: allo stesso modo in cui l’8 marzo è diventato la festa della donna in tutto il mondo. Le date di entrambe le feste sono in Russia (e in alcune ex Repubbliche sovietiche, come Bielorussia, Kirghizistan o Tagikistan) dei giorni festivi accumunati dalla usanza di fare dei regali di basso costo e dubbia utilità ai festeggiati. Gli uomini, a differenza delle donne, non ricevono in regalo i fiori, ma in generale si potrebbe dire che almeno sul piano delle feste in Russia si verifica la parità dei generi assente nella maggior parte dell’Occidente.
Quest’anno, però, abbiamo un motivo storico per ricordarci l’origine della festa del 23 febbraio.
Il 28 gennaio 1918 (riporto le date ormai secondo il calendario gregoriano) il Consiglio dei commissari del popolo della Russia Sovietica (cioè il Governo) emanò il Decreto sulla istituzione della Armata Rossa degli operai e contadini (pubblicato il 2 febbraio sul giornale Izvestia). In base a tale Decreto l’esercito dovette essere composto dai volontari, quindi la popolazione venne invitata a presentarsi agli uffici di registrazione. Nella realtà dei fatti, però, il primo punto di registrazione fu aperto, a Pietrogrado, solo il 21 febbraio. E, soprattutto, fino alla nomina di Lev Trotsky a capo della Armata Rossa (13 marzo) ai punti di registrazione si osservò una affluenza dei volontari pressoché nulla.
Ma a noi interessa il legame tra la creazione della Armata Rossa e la data del 23 febbraio. Il 10 gennaio 1919 venne avanzata la proposta di festeggiare il primo compleanno della Armata Rossa. Tale proposta venne però presa in esame dal Governo troppo tardi: solamente il 23 febbraio. Di conseguenza, fu proposto di far coincidere la festa con la «Giornata del regalo rosso», una sorta di festa benefica già fissata per il 17 febbraio, nel corso della quale la popolazione avrebbe dovuto fare dei regali ai militari dell’Esercito sovietico. Ma il 17 febbraio 1919 fu un lunedì, quindi si pensò di posticipare il compleanno della Armata Rossa alla domenica più vicina, quindi il 23 febbraio 1919 (per non perdere una giornata lavorativa). Negli anni immediatamente successivi vennero fatti alcuni tentativi di giustificare la data del 23 febbraio ormai diventata ufficiale. Alla base di tutte le giustificazioni si riconobbe facilmente una grande fantasia storica.
Ma, comunque, proprio il 23 febbraio di ogni anno gli uomini russi, anche quelli che non hanno mai avuto alcun legame con le forze armate, vengono mitragliati di auguri e regali inutili.
Resta da aggiungere che nel 1949 il nome della festa del 23 febbraio fu cambiato in «Giorno dell’esercito e della marina militare sovietica», mentre il nome attuale è in uso dal 1993.


Schematicamente

Lo schema della storia della filosofia.

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Lo stemma russo

Con il decreto presidenziale № 2050 del 30 novembre 1993 fu definito l’aspetto attuale dello stemma della Russia. Molto probabilmente lo conoscete già:

Naturalmente, non si tratta di una invenzione originale di un designer ubriaco dei primi anni ’90. Lo stemma russo attuale richiama la sua versione in uso prima delle rivoluzioni del 1917. Infatti, l’aquila mutante si affermò in qualità del simbolo statale della Russia alla fine del XV secolo, mentre nell’aprile del 1857 (poco più di 160 anni fa) l’imperatore Aleksandr II approvò la riforma araldica russa mettendo la propria firma su 110 disegni degli stemmi russi. In particolare, l’uccello mostruoso adeguato nel suo aspetto agli standard araldici tedeschi divenne il simbolo ufficiale della Russia sullo stemma. È quest’ultima sua versione che possiamo oggi riconoscere sullo stemma della Federazione Russa.

Una delle teorie più popolari sul motivo della comparsa del mostro in Russia è la sua migrazione dall’Impero bizantino nella seconda metà del XV secolo. Nel 1453, proprio grazie alla immagine di questa aquila a due teste ricamata in oro sui vestiti, fu riconosciuto il corpo del caduto (e letteralmente fatto a pezzi) in battaglia l’ultimo imperatore bizantino Costantino XI Paleologo dopo la presa della Costantinopoli da parte dell’esercito del sultano Maometto II. Il Gran Principe di Mosca Ivan III sposò nel 1469 la nipote (figlia del fratello) di Costantino XI di nome Sofia Paleologa, portando dunque sul territorio del Gran Principato di Mosca anche lo stemma familiare della sposa. Mentre prima di tale matrimonio (il secondo per egli) Ivan III utilizzò in qualità dello stemma la figura all’epoca chiamata «iezdetz» (traducibile come «cavaliere»).

Due secoli e mezzo più tardi, ai tempi di Pietro I, quella figura fu proclamata la rappresentazione di San Giorgio, seppur in origine si intese un altro cavaliere che oggi ci sembra anonimo (non abbiamo alcuna informazione utile per identificarlo). Pure ora, nel XXI secolo, bisogna ricordare che sullo stemma della Federazione Russa è raffigurato non San Giorgio, ma, ufficialmente, «un cavaliere d’argento con un mantello azzurro su un cavallo d’argento che colpisce con una lancia d’argento un drago nero buttato sulle spalle e calpestato dal cavallo».
Purtroppo l’ipotesi sulla importazione dell’aquila da parte dei Paleologo è fortemente messa in crisi dal fatto che ancor prima del matrimonio tra Sofia e Ivan III l’aquila a due teste fu cognata sulle monete del Principe di Tver – cioè di un vecchio rivale del Gran Principe di Mosca – che non sposò alcuna principessa bizantina né prima né dopo la caduta della Costantinopoli. Tutti gli altri governanti del mondo che utilizzarono l’aquila a due teste nella propria simbologia araldica – dai re ittiti del secondo millennio A.C. ai sultani mamelucchi o selgiuchidi – molto probabilmente nemmeno ritennero necessario prendere in considerazione l’esempio bizantino. Vollero solamente vedere sul proprio stemma una creatura nota e allo stesso tempo di fantasia, quindi decisero di aggiungere la seconda testa alla aquila. I più svariati significati araldici – che siano legati a Zeus, Giovanni evangelista, Est-Ovest o altro ancora – furono di volta in volta inventati dai saggi di corte in base alle correnti necessità politiche.
La versione corrente della aquila russa a due teste viene descritta dall’articolo 1 della Legge Federale russa del 2000 in questo modo:
«Lo stemma di Stato della Federazione Russa è rappresentato da uno scudo araldico rosso, appuntito in basso, a quattro angoli, con gli angoli inferiori arrotondati e con l’aquila d’oro a due teste che alza le ali sciolte. L’aquila è coronata con due corone piccole e – sopra di esse – con una grande legate tra esse da un nastro. Nella zampa destra dell’aquila è posizionato uno scettro, nella zampa sinistra un globo crucigero».
[la traduzione è mia, quindi molto probabilmente ho sbagliato qualche termine araldico specifico]
Sullo stemma degli USA l’aquila (l’aquila di mare testabianca) nella zampa destra tiene un ramo d’ulivo con 13 foglie e olive, mentre nella zampa sinistra 13 frecce metalliche. È facile intuire che tali oggetti simboleggiano la pace e la guerra. Però la testa della aquila è una sola ed è girata a destra, cioè verso la pace. L’aquila russa, avendo due teste, non è costretta a scegliere tra lo scettro (il potere statele) e il globo crucigero (lo Stato unitario). Sullo stemma della Repubblica Federale Tedesca l’aquila guarda a destra, ma le sue zampe sono vuote (l’immagine risale ai tempi del Sacro Impero Romano, anche se all’epoca questa l’aquila degli Habsburg fu a due teste). Sullo stemma della Polonia l’aquila ha una testa e guarda a destra, le sue zampe sono vuote (l’uccello è lì dal X secolo, cioè dalla salita al potere della dinastia dei Piast). Sullo stemma austriaco, invece, l’aquila tiene una falce nella zampa destra e un martello nella zampa sinistra: di conseguenza, la sua testa rivolta verso destra dovrebbe testimoniare la preferenza verso il settore agricolo della economia invece che verso quello industriale.

Tra tutti i popoli europei, gli austriaci sono stati quelli più lenti a decidere sulla quantità delle teste da lasciare «sulle spalle» della aquila:
– fino al novembre 1918 l’aquila austriaca ebbe una testa e le zampe vuote;
– nel 1919 l’aquila austriaca ritornò ad avere una sola testa, ma in compenso ottenne anche la falce e il martello;
– nel 1934 la falce e il martello sparirono, ma la testa raddoppiò, sopra ognuna delle teste comparve un nimbo d’oro;
– nel 1938 avvenne l’anschluss e per ben 7 anni l’Austria rimase senza uno stemma;
– dopo la liberazione del 1945 ritornò l’aquila con una testa e gli strumenti di lavoro nelle zampe, senza il nimbo ma con le catene rotte in memoria di Adolf.

Beh, questa storia della testa doppia può portarmi ancora più lontano… Ma penso che abbiate già capito tutto.
P.S.: l’articolo italiano della Wikipedia, pur essendo brevissimo, riesce a dire un sacco di stronzate sull’argomento.


100 anni

Ed ecco che ci siamo. Oggi è l’anniversario ufficiale della rivoluzione d’ottobre. Il centesimo.
Uno dei primi concetti che dovrei trasmettere ai miei lettori italiani – anche se nel corso degli anni mi sono un po’ stancato di farlo – è un semplice dato quantitativo: nel primo quinto del XX secolo in Russia ci furono tre (3) rivoluzioni: una nel 1905 e due nel 1917. L’anniversario odierno potrebbe essere un buon motivo per (ri)scoprire questo pezzo di storia anche senza aspettare che io (o qualcun’altro) faccia un riassunto del manuale di storia. Quante volte ho chiesto di essere più precisi di fronte alle domande sulla «rivoluzione russa» o sulla «rivoluzione del 1917»! Si tratta di eventi molto diversi tra essi.
Un piccolo ricordo personale analogo. Nel corso dell’esame di storia contemporanea alla Statale di Milano ebbi una simpatica conversazione con il professore:
«Mi parli della guerra tra la Russia e il Giappone».
«Quella del 1905?»
«Se ne conosce altre…»
«Sì, quella del 1945!»
«In effetti, ha ragione».
In quel momento l’esame prese la strada facile verso il 30.
Un altro concetto importante da ricordare oggi potrebbe essere ancora più sconcertante per le menti vergini deboli: nessuna delle tre rivoluzioni russe ebbe come l’obiettivo o l’effetto la destituzione della monarchia. Nel 1905 e nel febbraio del 1917 la speranza della maggioranza fu quella delle riforme radicali nell’Impero, le quali avrebbero dovuto – tra le altre cose – limitare il potere del monarca. I vertici militari, molti nobili e intellettuali avevano nel febbraio del 1917 chiesto a Nikola II di abdicare a favore del suo unico figlio Aleksei (all’epoca tredicenne). Il principe – al quale Nikola II fu particolarmente affezionato – fu però affetto da emofilia, che si manifestò in una grave forma già dai primi mesi della sua vita. Di conseguenza, rendendosi conto della situazione nella capitale su molti tratti del fronte bellico, Nikola II abdicò prima a favore del figlio (il 2 marzo 1917) e, dopo una notte di riflessioni personali e discussioni con dei medici e politici, a favore del fratello Michail. Quest’ultimo, a sua volta, non abdicò ma cedette quasi subito il potere al Governo provvisorio specificando che deve essere una Assemblea costituente a decidere sulle future forme di Stato e di Governo in Russia.
Tale Assemblea fu realmente creata, ma si riunì solo una volta – il 5 gennaio 1918 nella sede della ex Duma del periodo pre-rivoluzionaria – dopo di che fu sciolta dai bolshevichi.
Se siete attenti alle date, potete accorgervi che nel mezzo tra gli eventi appena citati vi fu la rivoluzione dei bolshevichi (proprio quella che oggi compie 100 anni). I miei lettori sono bravi, mentre all’epoca in pochissimi si erano accorti di tale evento. In sostanza, solo gli abitanti di Pietrogrado (per una ennesima nottata di disordini) ed i rappresentanti di quei partiti rivoluzionari che nel corso delle accese discussioni sul futuro dello Stato si accorsero all’improvviso che un gruppo minoritario si autoproclamò con la forza come il partito di governo.
Per allineare la realtà dei fatti con la suddetta autoproclamazione ci vollero altri cinque anni. Solo nel 1922 fu infatti istituita l’URSS. Proprio in quel periodo tra il 1917 e il 1922 si verificò la lotta armata e attiva di un determinato gruppo di persone per il potere e contro tutte le forze preesistenti.
Però la minoranza che vuole ottenere il potere vuole sempre spacciarsi per la maggioranza. E, dato che un periodo di cinque anni è un po’ troppo lungo per eliminare fisicamente la presunta minoranza, nella storiografia sovietica (e poi mondiale) la rivoluzione sarebbe avvenuta in un breve periodo del 1917.

Molte delle «conquiste» di quella rivoluzione mi ricordano qualcosa che si osserva attualmente in uno degli Stati dell’Est. In quello Stato, infatti, un gruppetto di persone, senza fare troppo rumore, si è appropriato del potere eliminando (spesso fisicamente) tutti i concorrenti; non ammette la critica e definisce come nemici coloro che si permettono di criticare; giustifica la propria permanenza al potere attraverso la contrapposizione con l’Occidente; attribuisce all’Occidente la colpa di tutti i mali possibili, etc.etc.
L’unica differenza sta nel fatto che evita in maniera paranoica la sola parola rivoluzione. La paranoia è tanto forte da non permettere nemmeno di ricordare la rivoluzione del 1917 nell’anno del suo centenario. In quello Stato, infatti, le Istituzioni evitano in tutti i modi di parlarne o di permettere a parlarne.


La criminologia storica

Ieri pomeriggio avevo notato una certa quantità di repost della notizia sul ritrovamento di una fossa comune di oltre quattrocento bambini in Scozia. Penso che per la maggioranza delle persone si tratti di un evento eccezionale se non singolare. Male, molto male. La conoscenza della Storia in generale e della storia giudiziaria in particolare aiutano tanto a non rimanere sorpresi di fronte alle cose in realtà banalissime (purtroppo banalissime).
Come è indicato in tutti gli articoli sul caso in questione che mi è capitato di leggere, tutti i bambini sarebbero morti tra il 1864 e il 1981. I primi 37 anni di quel periodo coincidono dunque con l’età vittoriana, cioè quella epoca nel corso della quale nel Regno Unito nasce la cosiddetta attività di baby-farming. Troverete tanti dettagli al link, mentre io sottolineo gli aspetti più interessanti in questo momento. Tante madri che rifiutando i propri neonati o comunque figli piccoli, avevano la possibilità di affidarli alle baby-farm gestite solitamente dai privati/famiglie, ma anche da altre «formazioni sociali». L’obiettivo dichiarato delle baby-farm era quella di trovare una nuova sistemazione permanente per i bambini abbandonati. In cambio del proprio lavoro prendevano una somma settimanale oppure una importante somma «una tantum»: in entrambi i casi quei soldi servivano anche per il mantenimento dei bambini.
I lettori potrebbero chiedere: perché le madri non potevano o non volevano occuparsi direttamente del destino dei propri figli non voluti? Non lo potevano fare a causa di una doppia morale ipocrita che ha caratterizzato praticamente tutta l’epoca vittoriana: infatti, i valori protestanti convivevano con, per esempio, con le case di lavoro, forti disparità nelle famiglie e una totale tolleranza della prostituzione (quasi la metà di Londra fu di fatto composta di case chiuse più o meno legali/professionali). Così, più in concreto, rimaneva in vigore «Poor Law Amendment Act» del 1834, uno dei punti del quale vietava alle madri non sposate chiedere gli alimenti ai padri dei loro figli. Attraverso tale norma si sperava di raggiungere tre obbiettivi: 1) escludere ogni possibilità di estorsione da parte delle donne (gli uomini non avevano ancora i mezzi scientifici per dimostrare la propria non-paternità); 2) stimolare i matrimoni formali e legali; 3) non moltiplicare il parassitismo delle donne povere perennemente incinte a spese degli uomini costretti a mantenerle. Nella vita reale, naturalmente, le donne furono costrette a scegliere tra l’aborto clandestino, l’abbandono del neonato o il ricorso al baby-farming. La terza scelta fu economicamente la più sensibile ma anche la più umana: permise a tante madri di sperare nella sopravvivenza e in un futuro non troppo grigio dei propri figli. La situazione fu aggravata da una formale disapprovazione delle madri sole: non ebbero la possibilità di trovare un lavoro fuori dalle case di lavoro (previste dallo stesso Atto) o ottenere aiuti.
Di conseguenza, il baby-farming fu un fenomeno molto richiesto dalle donne del Regno Unito dell’epoca. Molto richiesto e, allo stesso tempo, esercitato dalle persone con una concezione di onestà non omogenea. Alcune di esse svolsero la propria attività in modo responsabile, cercando e spesso trovando delle nuove famiglie per i bambini affidati a loro. Altri operatori del baby-farming, invece, si comportarono in un modo che avreste già potuto ipotizzare da voi: prendendo la somma totale per il mantenimento del bambino per liberarsi dell’assistito (uccidendolo, non curandolo se malato o lasciandolo morire di fame – all’epoca fu facile mettersi d’accordo con gli ispettori). Prendendo «in gestione» tanti bambini si raccoglieva, col tempo, un buon capitale. Proprio a uno dei casi più rilevanti di tale comportamento criminale è dedicato il libro che potrei consigliarvi:
Alison Rattle, Allison Vale, «Amelia Dyer: Angel Maker: The Woman Who Murdered Babies for Money», Andre Deutsch, 2007
Non so se nell’orfanotrofio scozzese, dalla storia del quale siamo partiti, sia mai stata utilizzata la stessa logica commerciale o, nel corso del XX secolo, una qualche sua forma modernizzata (in realtà non voglio finire sotto processo). Vi solo accennato della prassi storica che ricopre una parte del periodo al quale appartengono i corpi ritrovati.


Radiooooo

Radiooooo (http://radiooooo.com/) è un progetto interessante.

Scegliendo il decennio dalla lista e lo Stato sulla mappa, è possibile ascoltare la musica che giravano alla radio in quel periodo storico da quelle parti.