L’archivio del tag «morte»

La musica del sabato

Mancano appena due giorni alla festa più allegra dell’anno, quindi dobbiamo prepararci ad affrontarla con tutti i mezzi possibili e immaginabili. Anche con la musica adatta…
Per esempio, potremmo ascoltare qualche composizione legata al tema della danza macabra… Dopo alcuni ragionamenti – in realtà non particolarmente intensi – sono giunto alla conclusione che non è necessario tentare di essere troppo originale: posso far (ri)ascoltare la «Homo fugit velut umbra». Si tratta di una delle opere musicali più datate sull’argomento; non si ha una assoluta certezza sul nome del suo reale autore, quindi viene attribuita al compositore italiano del XVII secolo Stefano Landi. L’interpretazione a noi contemporanea più nota e citata è quella di Marco Beasley accompagnato dal «gruppo» l’Arpeggiata:

Non è male, sicuramente meglio di tante altre versioni che mi è capitato di sentire, ma troppo facilmente riesco a immaginarla cantare da qualcuno che ha più voce.
Sto ancora cercando l’interpretazione ideale per i miei gusti (sperando che esista da qualche parte) e nel frattempo aggiungo al presente post musicale, in qualità del tradizionale secondo brano, una composizione per l’orchestra abbastanza famosa.
Infatti, ho pesato di ricordarvi il poema sinfonico «Danse macabre» composto nel 1874 dal compositore francese Camille Saint-Saëns. In particolare, Saint-Saëns si ispirò alla poesia «Égalité-Fraternité» (del poeta Henri Cazalis), nella quale viene descritta la danza degli scheletri al cimitero accompagnata dal battito dei tacchi e dal suono del violino eseguiti dalla Morte. Il compositore ha tradotto la poesia in musica creando una sorta di dialogo tra il violino solista (su cui la Morte suona un valzer) e lo xilofono (che simboleggia il suono delle ossa di scheletri danzanti), accompagnato da violoncelli e contrabbassi, che suonano sempre più forte.

Ecco, per oggi è andata così. Buon Ciaowindows a tutti.


Prima o poi

È interessante il progetto del poeta olandese F. Starik «The Lonely Funeral» (si può tradurlo come «Il funerale solitario»?). Esso nasce come una reazione al fatto che in questo mondo alcune persone muoiono in una totale solitudine. Può trattarsi, per esempio, dei senzatetto, immigrati o persone molto anziane che hanno vissuto più a lungo dei propri parenti o amici stretti.
Quindi nell’ambito del progetto di F. Starik al funerale solitario si presenta un poeta che legge una poesia dedicata specificatamente alla persona defunta. Al giorno d’oggi i poeti hanno già partecipato a più di trecento funerali solitari.


Cosa abbiamo imparato

Ora che siamo passati dai domiciliari alla libertà vigilata, possiamo fare le prime considerazioni sulla esperienza della quarantena. In sostanza quest’ultima è finita, anche se il Decreto del 26 aprile è formulato in un modo particolarmente furbo: consente di fare quasi tutto, ma lo fa con delle espressioni che dal punto di vista linguistico fanno pensare alla continuazione di molti divieti. Evidentemente, l’obbiettivo è stato quello di evitare il decollo verticale delle attività sociali. In ogni caso, solo con questo conflitto tra il contenuto della norma giuridica e la formula linguistica si spiega l’attesa tanto lunga per il FAQ ufficiale. Il Governo non sapeva come spiegare la propria norma senza fare crollare il suo equilibrio fragile interno. A tutti coloro che aspirano alle cariche istituzionali o amministrative ricordo: le regole devono essere semplici.
Ma, intanto, cosa abbiamo imparato da questa quarantena? Per esempio, abbiamo finalmente iniziato a capire quali sono le persone realmente importanti e quali no. Se nella nostra vita non fosse capitata la pandemia del COVID-19, chissà quanto altro tempo ci sarebbe voluto. Addirittura, avremmo rischiato di non capirlo mai. Immaginate la situazione in cui telefonate a un amico per chiedere se potete incontrarvi e sentite la risposta «No, perché tu brutto stronzo mi passi il coronavirus covid-19!» Da un vero amico o da una persona con la quale si ha uno «stabile legame affettivo» non avremmo mai potuto sentire una cosa del genere.
In secondo luogo, il coronavirus ha reso particolarmente evidente l’importanza di sapere ricominciare. Milioni di attività economiche in giro per il mondo si sono fermate. Decine e decine di milioni di persone sono rimaste senza lavoro. Conosco delle persone, anche in Italia, che ora sono letteralmente senza niente, nemmeno il supporto dei parenti o dello Stato. Ma la vita continua. Non si può esistere pensando che nulla possa mutare. Abbiamo visto che la vita può cambiare radicalmente in qualsiasi momento. E noi dobbiamo essere pronti a dover ricominciare dallo zero proprio in quel momento: indipendentemente dalla età, istruzione, abitudini, e le esperienze passate.
Potrei aggiungere che ora siamo anche abituati a pensare alla morte che potrebbe derivare non solo da un mattone caduto in testa, ma evito.
Ora siamo dei solati avvisati.


L’offshore della morte

Tutti (o quasi) sanno della esistenza degli offshore fiscali: sono quelle entità statali o amministrative che sanno offrire alle aziende dei regimi fiscali più favorevoli della maggioranza degli altri (e gli Stati «normali» cercano di vincere la concorrenza con la sola applicazione dei divieti).
In realtà il concetto dell’offshore può rappresentare una gamma di utilissimi strumenti non solo nell’ambito finanziario. Per esempio, sarebbe bello, utile e umano creare un offshore della eutanasia. Creare una zona dove una persona sofferente possa andare per passare allegramente l’ultimo giorno della vita e poi lasciare questo mondo in un modo facile e indolore.
Attualmente molte persone stanche di soffrire fisicamente hanno due opzioni: andare via in un modo brutto (spararsi / impiccarsi / buttarsi dalla finestra o sotto un treno) oppure fare lo sbattimento lunghissimo per farsi accettare in uno Stato con la legislazione un po’ più favorevole delle altre.
Insomma, i territori che vogliono guadagnare in un modo responsabile dovrebbero prendere in considerazione questa idea.


Una bella notizia per l’umanità

Grazie a una certa attenzione mediatica verso la grande scelta di David Goodall possiamo finalmente comprendere una cosa importantissima: la morte di una brava persona può essere la fonte di speranza e non di tristezza. Intendo la speranza per la società degli esseri umani su questo pianeta.
Ieri, in una clinica specializzata svizzera David Goodall ha girato una valvola, si è fatto una iniezione letale e si è addormentato per sempre. Non era gravemente malato, non soffriva di alcun male. Ma a 104 anni era ormai stanco della vita e della vecchiaia. Voleva morire in modo decente, prima di perdere l’aspetto umano e diventare solo un pezzo di carne da mantenere in attività biologica.
Possiamo sperare almeno un po’ che nel futuro, chissà quanto lontano, quando la medicina sconfiggerà le malattie e la società gli assassini, gli umani andranno via come David Goodall, in modo dignitoso. Magari scherzando e cantando l’"Inno alla gioia".