Il video di oggi è stato pubblicato più di due mesi fa, ma io l’ho scoperto solo questa settimana. Si tratta di una canzone ucraina (da ascoltare con i sottotitoli inglesi) dedicata ai mitici Bayraktar:
Al video partecipa un noto politico russo, il suo «ministro degli esteri» e alcuni dei peggiori propagandisti televisivi russi (dei quali, prima o poi, scriverò su questo blog).
Probabilmente riuscite a capire la logica secondo la quale non ho inserito la canzone in questione nella mia rubrica musicale del sabato.
L’archivio del tag «guerra»
È importante ricordare che le guerre non sono fatte solo di sparatorie e bombardamenti di vario genere. Le guerre sono fatte, tra tante altre cose, anche dei tentativi di «rubare» alla controparte il personale altamente specializzato (le persone che sanno operare con i meccanismi tecnologici moderni) e i relativi «attrezzi di lavoro». In merito a tale caratteristica delle guerre, per questo sabato consiglio un breve articolo dal quale potrebbe partire — se siete interessati — con uno studio più approfondito dell’argomento.
Non so se anche a voi verrà (oppure è già venuta?) l’idea che le guerre del futuro saranno combattute da remoto, «con le mani» degli ingegneri e dei servizi segreti (come viene anticipato dalla storia descritta nell’articolo segnalato). Invece di essere combattute con le masse di metalli ed esplosivi.
Nel segmento russo dell’internet russo girano i tredici punti che riassumono la posizione ufficiale e pubblica della diplomazia russa in merito alla guerra in Ucraina. Non conoscendo l’autore della versione originale, considero quei punti un prodotto del folklore e li pubblico così come sono:
1. Non nascondiamo gli obiettivi dell’operazione speciale, ma essi cambiano ogni settimana.
2. Stiamo solo difendendo il Donbass, ma andremo oltre.
3. Non ha senso negoziare, ma noi siamo per i negoziati.
4. Non stiamo occupando l’Ucraina, ma ci resteremo per sempre.
5. Tutto procede secondo i piani, ma non abbiamo ancora iniziato.
6. Non abbiamo sono perdite, ma esse sono coperte dal segreto di Stato.
7. Consideriamo il Presidente dell’Ucraina legittimo, ma vogliamo rovesciarlo.
8. Siamo contrari all’allargamento della NATO, ma non siamo contrari all’allargamento della NATO.
9. Non abbandoniamo mai i nostri, ma molti di loro non torneranno e noi non sappiamo dove siano.
10. Proteggiamo la popolazione di lingua russa, ma spareremo contro di essa per proteggerla meglio.
11. Le sanzioni ci fanno solo bene, ma le industrie stanno crollando.
12. La Gazprom è la ricchezza nazionale, ma molti paesi, abitazioni, scuole etc. non sono stati raggiunti dai gasdotti.
13. Le sanzioni ci fanno solo bene, ma chiediamo che vengano revocate!
Secondo me seguirà una continuazione.
Non è la prima notizia del genere che mi capita di leggere e di condividere con voi, ma questo aspetto non la rende meno interessante.
In Polonia dal 28 giugno sta continuando la raccolta dei fondi per l’acquisto dei «Bayraktar» da donare alla Ucraina. La campagna di crowdfunding è in corso sulla piattaforma Zrzutka.pl, dove oltre 200 mila persone in meno di un mese hanno già raccolto quasi 5 milioni di euro (più di 23 milioni di złoty). La raccolta dei fondi è stata promossa da Slawomir Sierakowski, un giornalista e politologo polacco, il quale ha detto che essa – la campagna – continuerà ancora per diversi giorni, nonostante l’obiettivo inizialmente dichiarato sia già stato raggiunto: perché «c’è un gran numero di persone desiderose ad aderire». I soldi raccolti oltre l’obiettivo prefissato saranno trasferiti sul conto delle Forze Armate dell’Ucraina presso la Banca Nazionale Ucraina.
A questo punto penso che la raccolta dei fondi per l’acquisto degli armamenti costosi da donare alla Ucraina possa anche essere trasformata in una forma di ricerca sociologica. Una ricerca avente per l’obiettivo rispondere alla domanda «quanti residenti/cittadini dello Stato X sono disposti a sostenere attivamente l’Ucraina?». Probabilmente, molte persone vedranno per la prima volta nella vita l’utilità pratica della sociologia (anche se in realtà è utile anche in tanti altri sensi).
Quasi una settimana fa, il 17 luglio, c’è stato l’anniversario di un avvenimento che sta rischiando di finire un po’ dimenticato con la guerra putiniana in Ucraina: l’abbattimento del Boeing della Malaysia Airlines MH17, avvenuto nel cielo dell’est ucraino nel 2014. Eppure, oggi lo potremmo considerare uno dei primi atti realmente folli di una guerra iniziata già oltre otto anni fa.
Proprio a questo argomento è legata la lettura che vi consiglio per questa settimana: le storie di cinque famiglie olandesi che hanno perso i propri figli in Ucraina nell’articolo «Our children were killed by Putin too» di Ekaterina Glikman.
Nel mondo ci sono tantissime notizie che ci vengono raccontate a metà: nel senso che i giornalisti ci parlano di un episodio e poi, travolti dalla valanga delle notizie successive, si dimenticano di raccontarci in che modo è finito. Di conseguenza, provo una certa soddisfazione ogni qualvolta riesco a leggere (purtroppo, raramente) le conclusioni delle notizie vecchie (ma anche perché spesso quelle conclusioni mi piacciono tantissimo) e apprezzo tanto l’impegno di chi le pubblica.
Oggi faccio un esempio concreto. Probabilmente vi ricordate che alla fine di maggio in Estonia era stato arrestato un cittadino estone/russo che aveva tentato di comprare dei droni e di inviarli all’esercito russo. Ebbene, ieri il tribunale estone della contea di Harju ha condannato Vladimir Shilov (sì, si chiama così) a cinque anni di reclusione. In particolare, Shilov dovrà passare quattro mesi in carcere e altri otto in libertà vigilata con un periodo di messa alla prova di quattro anni. I due complici Ilya e Ruslan Golembovsky – che hanno aiutato Shilov – sono stati condannati a una pena sospesa di cinque mesi con un anno e otto mesi di libertà vigilata.
Finché sono costretto a leggere della guerra in Ucraina, spero di leggere anche più notizie come quella appena riportata.
Sabato mi era già capitato di consigliarvi un articolo sull’anonimato di fatto imposto agli alti ufficiali russi che partecipano alla guerra in Ucraina. Da oggi la descrizione di tale situazione può essere integrata da un nuovo elemento curioso.
Il Ministero della «Difesa» russo ha diffuso la notizia sulla ispezione, fatta dal ministro Sergey Shoygu, del raggruppamento militare russo «Zapad» («Occidente» in italiano), che sta combattendo in Ucraina. Il ministro avrebbe visitato il posto di comando e avrebbe ascoltato il rapporto del comandante del raggruppamento, il tenente generale Andrey Sychevoy. Uno degli aspetti più interessanti della notizia consiste nel fatto che non è stato precisato dove e come combatte il raggruppamento «Zapad» (e nemmeno da quando viene comandato da Andrey Sychevoy).
Più o meno tutte le persone che hanno fatto degli studi — accademici o personali — delle materie militari si ricordano uno dei principi-base: ogni militare che partecipa a una guerra inizia a sentire, prima o poi, la necessità di essere riconosciuto come eroe. La mia osservazione potrebbe sembrare un po’ preoccupante, ma non posso non farla: nel termine medio-breve il suddetto principio potrebbe costituire una fonte di speranza.
Probabilmente qualcuno dei lettori si ricorda di Marina Ovsjannikova, una dipendente del «Primo canale» della TV di Stato russa che il 14 marzo aveva invaso – con un cartello contro la guerra – lo studio del notiziario durante la diretta.
Dopo quella occasione Ovsjannikova aveva perso il lavoro (non penso che ne sia molto dispiaciuta almeno dal punto di vista morale) ed era stata multata. Poteva andarle peggio, anche se le leggi sulla responsabilità amministrativa e penale per ogni forma di protesta contro la guerra in Ucraina hanno iniziato a essere applicate in modo severo più tardi.
Ebbene, in questi giorni sono stato contento a scoprire che Marina Ovsjannikova non si è fatta spaventare e, anzi, ha dimostrato che il suo gesto non era stato occasionale, non semplicemente dettato dallo shock per l’inizio della guerra. Il venerdì 15 luglio aveva manifestato con un nuovo cartello sul lungofiume di Moscova davanti al Cremlino:
Il cartello dice: «Putin è un assassino. I suoi soldati sono dei fascisti. 352 bambini sono stati uccisi. Quanti altri bambini devono essere uccisi poiché vi fermiate?». Si tratta della seconda – in termini di visibilità – manifestazione contro la guerra di Ovsjannikova (ma si è espressa pubblicamente in diverse altre occasioni). Quello che non mi è ancora molto chiaro, è perché non sia stata fermata dalle forze «dell’ordine» già venerdì.
È stata fermata solo ieri (pare per una brevissima intervista televisiva) vicino alla sua casa, portata in un luogo sconosciuto, multata e rilasciata la sera del giorno stesso.
Ma se le cose vanno avanti così, per qualche motivo si potrà ancora scrivere di lei.
P.S.: per tutti coloro che lo avessero perso o dimenticato, aggiungo il famoso video del cartello in diretta: Continuare la lettura di questo post »
Più o meno tutte le persone normali da quasi quattro mesi stanno leggendo abbastanza sulla guerra in Ucraina. Molto probabilmente una buona parte di quelle persone si è anche accorta di leggere molto sulle decisioni di Vladimir Putin e poco o niente sulle decisioni dei generali russi.
Ebbene, tale percezione della realtà non è sbagliata. Quindi per questo sabato vi consiglio un buon articolo (e di lunghezza non esagerata) sull’argomento dei rapporti di Putin con i generali russi.
E aggiungo la domanda di fine lettura: ci potrebbe essere il rischio che qualcuno rimanga fortemente insoddisfatto della situazione creatasi?
Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso al termine del 141-esimo giorno di guerra si è rivolto, contrariamente alla prassi, non ai cittadini del proprio Stato, ma al «mondo democratico». E ha chiesto che dopo il bombardamento della città di Vinnytsya la Russia venga finalmente riconosciuta come «Stato terrorista».
In tale richiesta – in una certa misura emotiva – c’è anche un po’ di logica. Ma il vero lavoro diplomatico (quello non del tutto pubblico) della Ucraina dovrebbe oggi concentrarsi sullo scioglimento dell’ONU: perché, purtroppo, nemmeno gli Stati-terroristi possono essere cacciati dal Consiglio di sicurezza. Ma finché un terrorista continua ad avere un incarico tra le forze dell’ordine, qualsiasi definizione più o meno pesante assegnatagli non ha molto senso pratico.