L’altro ieri, il 15 giugno, il famoso rocker francese Johnny Hallyday avrebbe compiuto 80 anni. E io ho pensato che sia un bel pretesto per ricordarlo nella mia rubrica musicale… Certo, la sua scelta – mai mutata – di cantare in francese lo ha un po’ penalizzato fuori dal mondo francofono (anche se dal punto di vista puramente commerciale aveva un suo senso razionale), ma è comunque stato un fenomeno interessante della cultura mondiale.
Come al solito, ho scelto per il mio post due canzoni. La prima è la «Un Jour Viendra» (dall’album «Sang pour sang» del 1999):
Mentre la seconda canzone scelta è la «Je te promets» (dall’album «Gang» del 1986):
P.S.: mi ricordo ancora le immagini dei funerali di Johnny Hallyday a Parigi nel 2017: non so quanti musicisti di oggi avrebbero «raccolto» un pubblico delle dimensioni simili pure morendo.
Invece di un nuovo testo, questo sabato segnalo un piccolo (in termini quantitativi), ma grande (in termini umani) progetto fotografico del fotografo ucraino Pavlo Dorohoi.
Si tratta di una serie di foto delle case private del villaggio Dolgenkoye distrutte dalla guerra: Dolgenkoye, al confine tra le regioni di Kharkiv e Donetsk, prima dell’inizio della guerra era abitato da quasi 400 persone. Dopo il 24 febbraio per circa sei mesi si è combattuto nei pressi del villaggio, il quale è stato trasformato in rovine.
Molto probabilmente è capitato di leggere anche a voi delle grandi speranze che lo Stato russo nutre circa la «mediazione» dei sette leader africani (quelli di Sudafrica, Comore, Egitto, Senegal, Zambia, Uganda e Repubblica del Congo). Per qualche loro motivo – a noi non del tutto comprensibile – gli «abitanti» del Cremlino sperano che quei leader propongano qualche piano conveniente alla Russia (probabilmente in cambio di qualcosa). Tra i giornalisti e i cittadini russi contrari alla guerra si è sempre manifestato un certo scetticismo (e spesso quasi umorismo) circa la competenza dei politici africani nella questione della guerra in Ucraina: non per una questione di razzismo, ma semplicemente perché quei leader sono politicamente, geograficamente ed emotivamente troppo lontani dalle problematiche europee.
Ma ecco che la Reuters ci comunica che i sette leader – che presto visiteranno la Russia e l’Ucraina – hanno elaborato delle «misure di fiducia» per un cessate il fuoco tra Mosca e Kiev. Tali misure includerebbero il ritiro delle truppe russe dai territori ucraini e l’abbandono dei piani di piazzar le armi nucleari tattiche sul territorio della Bielorussia. Certo, includono pure le proposte della sospensione del mandato di arresto della Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin e l’alleggerimento delle sanzioni, ma a noi prima di tutto devono interessare i primi due punti. Potrebbero farci dedurre che Putin non riesce a trovare degli alleati intenzionati a fargli «salvare la faccia» nemmeno in Africa.
Ma, ovviamente, bisogna osservare l’evoluzione degli eventi: perché tutte le parti delle trattative capiscono che trattando possono pretendere qualcosa in più.
Alcuni funzionari statali ucraini hanno dichiarato, ieri, che decine di componenti stranieri – soprattutto microelettronici – sono stati trovati nei missili che hanno colpito Kryvyj Rih e Odessa nei due giorni precedenti. Il presidente Zelensky, a sua volta, ha aggiunto che in uno di quei missili russi sono stati trovati circa 50 componenti prodotti in altri Stati, compresi gli Stati che sostengono la causa ucraina. Ovviamente, si conoscono anche i produttori di quelle componenti, i diplomatici dei rispettivi Stati sono stati avvisati dalla Ucraina.
Tutto questo non significa che tutti i produttori coinvolti sanno di essere dei fornitori dell’esercito russo. E, soprattutto, significa che non tutto può essere risolto con le semplici sanzioni quali, per esempio, il divieto di fornire determinati prodotti: è impossibile verificare le buone intenzioni di ognuno dei numerosi intermediari che formano una catena di fornitura alla Russia poco trasparente. Ne blocchi uno e ne compaiono dieci altri.
Qualcuno potrebbe ipotizzare che la situazione possa essere risolta con dei mezzi economici (lasciare lo Stato putiniano senza le risorse per l’acquisto della elettronica), ma, in realtà, per l’acquisto delle componenti elettroniche dei missili non ci vogliono delle somme tanto alte (in termini delle risorse di uno Stato).
Di conseguenza, la soluzione più semplice e più logica mi sembra sempre la stessa: fornire alla Ucraina più di quello che viene fornito alla Russia. E farlo velocemente.
Un rapporto della società di consulenza britannica Henley & Partners sulla migrazione dei ricchi del mondo afferma che 8500 milionari (in dollari americani) hanno lasciato la Russia nel 2022: quasi la metà di quanto previsto dalla stessa società (che si aspettava che 15.000 milionari – in dollari americani – avrebbero lasciato la Russia nel 2022: il 15% della loro quantità totale alla fine del 2021).
In base a un commento della Henley & Partners, la quantità inferiore dei ricchi «scappati» è stata determinata sia dalle misure sanzionatorie (ad esempio, la chiusura di molti programmi di cittadinanza e residenza per i russi, la chiusura dei conti bancari esteri) sia dai meccanismi specifici di ciascun Stato che hanno reso difficile il trasloco di molti russi ricchi.
Tradotto in un linguaggio umano, questo significa che nemmeno gli analisti di una società di consulenza hanno saputo prevedere la miopia dei vertici della maggioranza degli Stati occidentali. Questi ultimi, infatti, non hanno fatto una particolare distinzione tra i ricchi russi favorevoli o contrari alla guerra e hanno ostacolato la fuga dalla Russia di tutti. In questo modo hanno lasciato, in sostanza, i soldi di tutti i ricchi a disposizione di Putin (il quale ha la piena libertà di introdurre nuove tasse o «contributi straordinari» a favore della guerra, incarcerare gli imprenditori, costringerli a vendere le loro attività a prezzi bassi etc. etc.).
Effettivamente, se la stupidità avesse dei limiti, sarebbe anche prevedibile e dunque meglio affrontabile.
La mia più grande scoperta delle ultime 24 ore è stata: Putin è [ancora] capace di raccontare delle barzellette. Sceglie abbastanza male gli argomenti, ma almeno ci prova. L’ultima è stata raccontata ieri durante un incontro con i vincitori dei premi statali al Cremlino:
Perché, per dirla senza mezzi termini, il nemico colpisce le aree residenziali? Non c’è alcuna logica. Per cosa, perché, qual è lo scopo? E su obiettivi chiaramente umanitari: è incredibile. E non c’è alcun senso militare, è zero.
A questo punto conviene definire bene anche il contesto, se per qualche strano motivo fosse sfuggito a qualcuno. In base ai dati dell’ONU, al 15 maggio almeno 23.600 civili sono stati uccisi e feriti in Ucraina dall’inizio dell’invasione russa. L’Ufficio del Procuratore generale ucraino ha dichiarato che 487 bambini sono stati uccisi nel Paese a causa dell’aggressione armata della Russia.
L’esercito ucraino sostiene che i militari russi avrebbero fatto saltare una diga sul fiume Mokrye Yaly nella regione di Donetsk. Il fiume attraversa, tra le altre zone, anche il villaggio di Blagodatne, che l’esercito ucraino ha dichiarato di aver liberato l’11 giugno.
La tattica dell’esercito invasore russo è a questo punto sempre più evidente: ostacolare la controffensiva ucraina con delle «barriere naturali» e senza preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine. È una tattica che non mi sorprende per nulla. Però c’è una cosa che preoccupa: non solo me, ma («anche»?) gli analisti che mi capita di leggere. Preoccupa il rischio delle esplosioni sulle altre numerose dighe sul fiume Dnepr che si trovano più a nord di quella di Kakhovka: i danni provocati dal danneggiamento di ogni diga avrebbero dovuto essere in parte limitati dal sistema delle dighe che si trovano più a sud. Ma a sud ora ce n’è già una in meno.
Ma immagino che lo avrete già letto decine di volte.
All’inizio pensavo di postare qualche video riassuntivo sulla alluvione terroristica in Ucraina, ma poi ho cambiato idea: molto probabilmente, avete già visto abbastanza immagini. E poi, la situazione cambia e si aggrava (in termini delle conseguenze) di continuo, quindi è quasi impossibile fare qualcosa di realmente riassuntivo.
E allora per ora metto un video dedicato a uno dei tanti aspetti…
Il post musicale di oggi sarà abbastanza in linea con l’umore degli ultimi giorni. Infatti, mi andava di postare il poema sinfonico di Sergei Rachmaninov «L’isola dei morti» (Op. 29).
Il poema è stato composto tra il 1908 e il 1909 come la reazione a una opera pittorica, ma il mio cervello lo interpreta (come, ovviamente, tutte le altre opere artistiche) in base alle circostanze del momento corrente.
L’argomento più grande e commentato di questa settimana è secondo me facile da individuare: l’atto terroristico alla diga della centrale idroelettrica di Kakhovka. Di conseguenza, scegliendo la lettura di questo fine settimana da proporvi avevo cercato di individuarne qualcuna che non avreste trovato (oppure trovato difficilmente) nei media occidentali.
Il suddetto criterio potrebbe essere soddisfatto dalla raccolta delle testimonianze dei residenti di Oleshki, uno dei centri abitati ucraini colpiti dalla inondazione. Molte delle cose testimoniate si ripropongono anche in molti altri punti della zona colpita.