La musica del sabato

Il chitarrista belga Francis Goya suona e compone, praticamente da sempre, la musica leggera: molto probabilmente proprio questa sua caratteristica lo aveva trasformato velocemente, più o meno fin dall’inizio, in un fenomeno musicale statisticamente anomalo. Infatti, è uno dei relativamente pochi esecutori della musica puramente strumentale che nel corso della propria carriera sono riusciti a diventare famosi a livello individuale e a vendere decine di milioni di copie dei propri dischi. Potrei dire che solitamente – almeno al giorno d’oggi – succede ai musicisti tendenti al pop. Ma a questo punto aggiungo anche che quello di Francis Goya è un pop di una qualità abbastanza alta (qualora, appunto, fosse corretto definirlo pop).
E allora faccio ricomparire Francis Goya, dopo diversi anni di pausa, nella mia rubrica musicale. Lo faccio selezionando due brani dal suo album d’esordio «Nostalgia» (del 1975).
Il primo brano scelto è proprio la «Nostalgia», una melodia con la quale iniziò a diventare internazionalmente famoso:

Mentre il secondo brano scelto per oggi è il «Nautilus» (tratto dallo stesso album e uscito pure sul lato B del singolo «Nostalgia»):

Bene, così tra un po’ si potrà continuare la pubblicazione della musica di Francis Goya in un modo sistematico.


La lettura del sabato

I lettori europei, molto probabilmente, non se ne sono ancora accorti (ed è normale, non hanno il bisogno «pratico» di accorgersi di certe cose), ma una delle principali somiglianze tra la Russia e la Bielorussia degli ultimi anni consiste nel fatto che la maggioranza delle cose che succedono in Bielorussia possono essere considerati un anticipo di quello che succederà nei prossimi mesi – rispetto all’evento originale – in Russia. Ogni atto repressivo, ogni riduzione dei diritti dei cittadini, ogni passo verso un maggior autoisolamento del Paese adottato in Bielorussia viene dopo qualche tempo imitato dagli abitanti del Cremlino di Mosca.
Una delle principali differenze (per ora) consiste nel fatto che il regime di Lukashenko può permettersi di essere più feroce. O, in alcune occasioni, cercare di sfruttare la propria reputazione negativa e fingere di essere feroce.
Per esempio: alla fine di giugno un tribunale bielorusso ha condannato a morte il cittadino tedesco Rico Krieger con l’accusa di aver commesso un atto terroristico. Secondo le indagini, Krieger avrebbe organizzato una esplosione alla stazione ferroviaria di Ozerische – alla periferia di Minsk – utilizzata dai militari. Nessuno è rimasto ferito nell’esplosione, mentre i danni ammontano a poco più di 500 dollari americani.
Ora il condannato e il Governo tedesco sono logicamente spaventati: perché non si rendono del tutto conto che si tratta non di una vera condanna, ma di un modo tipico locale di prendere un ostaggio occidentale per effettuare uno scambio sicuro con qualche personaggio utile a Lukashenko detenuto (per un reato reale) in Germania. In questo specifico caso si presume che sia utile un personaggio tanto caro a Putin (il principale sponsor di Lukashenko), ma si tratta delle voci che non posso commentare.
Lo Stato russo, per ora, non è ancora arrivato al punto di condannare a morte gli ostaggi occidentali (anche perché la pena di morte in Russia è sospesa dal 1997) e si limita a condannarli a tanti anni di reclusione. Ma nessuno può garantire che un giorno non segua l’esempio bielorusso.
Voi, intanto, seguite il link di cui sopra e leggete dell’ostaggio tedesco.


Lo humor imprenditoriale

Il Financial Times ha pubblicato un articolo su come gli abitanti dell’Ucraina si stanno adattando ai regolari blackout dovuti agli attacchi russi alle infrastrutture energetiche del Paese. Tra le altre cose, il giornale racconta la storia di Oleksandr Bentsa, un imprenditore trentenne di Kiev che ha riorientato la propria attività nel contesto della crisi energetica. Per diversi anni Bentsa ha acquistato auto elettriche Tesla incidentale alle aste assicurative negli USA e le ha portate in Ucraina, dove i suoi meccanici le hanno restaurate e rivendute.
Dalla primavera del 2024, quando l’Ucraina ha iniziato a subire blackout regolari e prolungati, gli operai di Bentsa hanno fabbricato sistemi di alimentazione ricaricabili sulla base delle batterie Tesla. «Una vecchia Tesla, comprese le spese di spedizione, costerebbe quasi 10.000 dollari. È possibile trasformarla in 12 batterie ricaricabili e venderne i restanti pezzi di ricambio», ha dichiarato l’imprenditore.
Ogni sistema del tipo prodotto da Bentsa, con una capacità di cinque kilowatt, può mantenere in funzione le luci e gli elettrodomestici di un «tipico appartamento di Kiev» per un massimo di dieci ore. Bentsa vende alcuni di questi sistemi all’esercito ucraino al solo costo di produzione, ma la maggior parte dei suoi clienti sono civili. Negli ultimi mesi la domanda per questi sistemi di alimentazione è cresciuta «da quasi zero a un livello esorbitante» e l’imprenditore prevede che aumenterà ancora con l’avvicinarsi dell’inverno.
Ecco, di fronte a tutta questa notizia il mio primo pensiero è stato quello sulla imprenditoria nel corso di una guerra difensiva, ma per ora lo tengo per me. Mentre nel presente post volevo scrivere che mi sono piaciuti due aspetti della suddetta notizia. In primo luogo, apprezzo l’inventiva imprenditoriale e tecnica di Oleksandr Bentsa: effettivamente, ha trovato una buona soluzione al momento giusto. In secondo luogo, sono infinitamente contento (cioè rido come un matto) per il fatto che gli effetti distruttivi degli attacchi russi vengono affrontati con dei prodotti ricavati dai prodotti di quel Elon Musk che da parecchio tempo sostiene, di fatto, che l’Ucraina dovrebbe arrendersi alla Russia putiniana.
Oleksandr Bentsa ha trovato un bel modo di mandare Musk laddove quest’ultimo dovrebbe stare. E già per questo sarei portato di considerare Oleksandr Bentsa un mito!


Le immagini ci saranno comunque

Chi non segue con regolarità la «politica» interna russa, molto probabilmente non sa che il Parlamento russo da molti anni lavora ogni giorno a beneficio di qualcuno di preciso e approva prontamente le leggi più creative. Ieri, ad esempio, ha approvato in lettura finale una legge che dà ai comandanti delle unità militari e ai comandanti delle guarnigioni russi il diritto di imporre l’arresto disciplinare senza processo ai militari impegnati in guerra. Tra le altre cose, l’elenco delle infrazioni disciplinari gravi per le quali i militari possono essere arrestati fino a 10 giorni e inviati in prigione militare include il divieto di possedere gli smartphone:

avere con sé prodotti elettronici (dispositivi, mezzi tecnici) per scopi quotidiani, che possono memorizzare o consentire di distribuire o fornire materiali audio, foto, video e dati di geolocalizzazione utilizzando la rete di informazione e telecomunicazione «Internet».

Qualcosa mi suggerisce che la legge è stata approvata per impedire ai militari russi di «screditarsi» (come chiama lo Stato russo ogni tentativo di raccontare qualcosa di non complimentare dell’esercito russo attuale). E per impedire ai civili russi di «screditare» i militari russi. Cioè, per ridurre al minimo il rischio che i militari stessi immortalino tutto ciò che fanno nei territori in cui combattono e poi, volontariamente o no, diffondano quanto ripreso. In quale zona del mondo ora uccidono, violentano, derubano e sparano a tutti?
Fortunatamente, il legislatore putiniano non ha il potere di influire sul fatto che noi conosciamo le imprese dell’esercito russo sul territorio ucraino non dalle immagini dei militari russi (o non solo): le sole riprese «prima e dopo» di Bucha erano state sufficienti.
Inoltre – ancora per fortuna – il lavoro del legislatore putiniano non ha alcun effetto sui militari-tiktoker ceceni, ma quelli non raggiungono i luoghi di guerra più interessanti, quindi non dovremmo fare affidamento sul contenuto dei loro telefoni.
In generale, mi divertono gli sforzi del Parlamento russo per costruire una parvenza di mondo confortevole.
Ma non riesco in alcun modo dispiacermi per i militari russi.


In sostanza, un terrorista

La domenica 21 luglio è stato arrestato a Parigi un cittadino russo di 40 anni sospettato di preparare un’operazione «destabilizzante» durante i Giochi Olimpici. Secondo Le Parisien, il cittadino russo è stato accusato di «attività di intelligence» nell’interesse di uno Stato straniero per «incitare alle ostilità in Francia». Una perquisizione nell’appartamento parigino del sospettato ha rilevato prove di preparativi per una «operazione di destabilizzazione» filorussa, ha dichiarato una fonte a Le Parisien. Un’altra fonte ha parlato a Le Parisien di un «progetto su larga scala», le cui conseguenze potrebbero essere «gravi».
Ecco, fino a circa due anni e mezzo fa avrei pensato subito che la regione russa di provenienza del sospettato sia ben precisa: non per una questione di razzismo, ma perché, obiettivamente, è quella regione che per una serie di motivi «fornisce» al mondo i veri terroristi. Ora, invece, la politica dello Stato russo mirata alla destabilizzazione della vita nell’Occidente è salita a un nuovo livello. E questo complica, almeno per me, il compito di trarre delle conclusioni logiche. Per esempio, posso ipotizzare una lunga serie di strutture «puramente» russe che avrebbero potuto commissionare (con molta più probabilità di prima) quel lavoro al personaggio fermato.
Mi resta solo sperare che i francesi non perdano la capacità di distinguere tra i terroristi convinti e quelli inviati dallo Stato. Per non alimentare, tra l’altro, il razzismo.


Le finte qualità

Il «Politico» scrive che la quantità delle donazioni da parte dei sostenitori del Partito Democratico statunitense sulla piattaforma ActBlue ha superato i 55 milioni di dollari dopo che Joe Biden si è ritirato dalle elezioni presidenziali e ha annunciato che avrebbe sostenuto la candidatura vicepresidente Kamala Harris.
Tale dato di cronaca mi fa pensare, ancora una volta, alle stranezze dei processi cognitivi che girano nelle teste degli elettori (in realtà non solo quelli americani).
Per esempio: il ritiro di Joe Biden ha reso Kamala Harris una candidata migliore di quanto sarebbe stata senza la decisione di Biden? Palesemente, è sempre la stessa persona un po’ strana, contraddittoria e politicamente poco visibile (nel senso che si è fatta notare relativamente poco).
Oppure: l’orecchio ferito di Donald Trump – è il fatto che quest’ultimo si sia salvato per il volere della bandiera-angelo miracolo – rende Trump un personaggio migliore di quanto lo era prima? Eppure, tra i repubblicani ora c’è più entusiasmo relativamente alla sua candidatura.
Boh, vedremo quale stranezza risulterà vincente. Anche se per ora mi sembra che quel proiettile abbia ferito mortalmente il candidato democratico.


Grande Joe!

Presumo che per il 101% di voi non è una notizia: Joe Biden ha trovato le forze morali per decidere di non ricandidarsi alla Presidenza degli USA. Lo ha reso noto attraverso un comunicato su X, l’ex Twitter e l’ex strumento di comunicazione preferito da Donald Trump: non so se si tratti dell’ultima battuta presidenziale… Se lo fosse, è una battuta realmente bella, spero di avere lo stesso livello di humor all’età di quasi ottantadue anni (ma spero di avere anche la capacità di scrivere direttamente sul social e non far postare lo screenshot di un pdf; boh, non importa).
Negli ultimi anni e soprattutto nelle ultime settimane ho letto diverse considerazioni più o meno negative su Joe Biden e su Kamala Harris. Avremo ancora abbastanza tempo, presumo, per leggere tutte le cose possibili sulla attuale vice-presidente (se, per esempio, è realmente «meglio che non parli»), mentre per ora voglio salutare bene Biden.
Voglio scrivere che invidio infinitamente uno Stato il cui presidente per molto tempo si è dimostrato molto attaccato al potere, ma alla fine ha trovato le forze per dire «me ne vado per il bene del Paese». Invidio anche perché penso a un altro personaggio che non avrà mai il coraggio e l’intelligenza per farlo. Quel personaggio, dopo l’incontro con il quale nel 2001 il presidente George W. Bush disse «L’ho guardato negli occhi e visto la sua anima: un uomo diretto, che ispira fiducia». Quel personaggio, dopo l’incontro con il quale il vice-presidente Biden ha detto «Anche io l’ho guardato negli occhi e non ho visto l’anima»: secondo la testimonianza di un psicologo e politologo russo, la frase è stata pronunciata a Mosca durante un incontro privato con alcuni politologi e giornalisti russi, dopo l’annessione della Crimea, ma molto prima dell’inizio della grande guerra sul territorio ucraino.
Ecco: nonostante tutte le stranezze, Biden è sempre stato una persona intelligente. L’età lo ha naturalmente reso poco reattivo in tutto, anche nelle decisioni fondamentali, ma non gli ha fatto perdere il cervello.
Di conseguenza, nonostante l’età è riuscito a prendere la decisione intelligente e andare via in un modo giusto.
Relativamente tra poco, a novembre, qualcuno dirà che lo ha fatto troppo tardi, che per permettere ai propri colleghi di partito di sconfiggere Trump avrebbe dovuto ritirarsi molto prima. Ma il fatto è che noi non lo sappiamo, il solo suo ritiro non è una garanzia della vittoria del candidato dei democratici.
Donald Trump, per esempio, sarebbe rimasto sempre Donald Trump, sarebbe stato comunque ferito all’orecchio etc.. E, soprattutto, non è un ragazzino nemmeno lui, quindi potrebbe non arrivare alla fine del secondo mandato ed essere sostituito da quel mostro di Vance.
Insomma, complimenti a Biden per la scelta giusta finalmente fatta.


Non solo “The Simpsons”

Penso che questa piccola scena tratta dalla serie «Space Force» meriti di essere nominata Il Video Della Settimana:

E spero che si tratti solo di una settimana.


La musica del sabato

Quando fu ancora in vita, il musicista italiano Giovanni Viotti (1755–1824) fu considerato (e apprezzato come) più un violinista virtuoso che un compositore. Debuttò come violinista a Parigi nel 1782 e, se fortunato, avrebbe potuto rimanervi per tutta la — per nulla povera — vita, ma non fu fortunato: i legami con la casa reale non rivelarono un buon bagaglio quando iniziò la Rivoluzione, dunque Viotti fuggì a Londra. Nemmeno in Inghilterra fu però fortunato: lo espulsero con l’accusa (non tanto fondata, se ho capito bene) di essere un sostenitore dei giacobini. Dopo un periodo relativamente breve di soggiorno in Germania, Viotti tornò in Inghilterra, ma non riuscì a inserirsi nuovamente nella scena musicale nazionale e finì per dedicarsi alla prodizione di vino. Gli affari gli andarono però molto male (non è una sorpresa: non si diventa imprenditori di colpo), molto presto Viotti andò in bancarotta. Anche il resto della sua vita fu segnato dai fallimenti, dunque morì all’età di 68 anni in totale povertà. Al momento della morte i suoi averi materiali furono pochi: un paio di manoscritti, alcune tabacchiere, un orologio e due violini (uno dei quali avrebbe dovuto, secondo la volontà di Viotti, essere venduto per pagare i suoi debiti).
Non so se ne sarebbe stato contento (se fosse capace di osservare il nostro mondo dall’ipotetico mondo parallelo in cui si trova ora), ma almeno Viotti è stato raggiunto dal meritato riconoscimento postumo: oggi è considerato uno dei padri-fondatori della scuola violinistica francese del XIX secolo. Le composizioni più famose di Viotti sono i 29 concerti per violino e orchestra, che hanno avuto una influenza significativa sulla musica di diversi compositori noti anche ai non esperti.
Tra questi compositori «influenzati» c’è anche Niccolò Paganini, probabilmente il primo che viene in mente a una persona media che sente la parola violinista. Così, per esempio, il secondo movimento del Secondo Concerto di Paganini inizia in maniera quasi identica al secondo movimento del Concerto n. 24 in si minore di Viotti (composto presumibilmente negli anni 1793–1797). Nella edizione odierna della mia rubrica musicale pubblico proprio quel concerto:

È bello e giusto ricordare i geni del passato, soprattutto se sono stati ingiustamente trascurati in vita.


La lettura del sabato

Visto che questa rubrica serve per far comprendere meglio gli argomenti di importanza grande e durevole, la posso utilizzare anche per presentare delle persone importanti nei loro ambiti e, allo stesso tempo, in una parte considerevole del mondo.
Per esempio: chi è Andrij Jermak, il capo dell’Ufficio del Presidente dell’Ucraina, che in meno di cinque anni è riuscito a diventare il funzionario numero due (dopo il presidente Zelensky) in Ucraina. Durante il vertice di pace di giugno in Svizzera, tra l’altro, si è comportato come un membro a pieno titolo del tandem al potere…