Il primo anniversario del 7/X

Vedo attorno (e non solo oggi) una marea di coglioni che fanno finta di non avere visto tutto questo (non solo il 7 ottobre 2023):

Per ora sto riuscendo solo nel compito di ridurre la quantità dei suddetti coglioni nel mio spazio vitale.


La musica del sabato

Negli ultimi tempi mi capita, con una certa periodicità, di leggere qualcosa sulla creazione delle opere d’arte ai tempi di guerra: da parte degli artisti che vivono negli Stati-aggressori e quelli che vivono negli Stati-vittime. Sono delle letture lunghe, spesso interessanti, a volte discutibili, e in ogni caso difficili. Di conseguenza, almeno per ora non tento di riassumerle: richiederà un impegno al quale non sono pronto io e, molto probabilmente, nemmeno la maggioranza dei potenziali lettori.
Allo stesso tempo, da quelle letture posso ricavare qualche idea «pratica», qualche opera artistica bella e interessante indipendentemente dalle circostanze nelle quali è stata creata. Prendiamo uno degli esempi che ho scoperto di recente: il «Quartetto d’archi» del compositore francese Jacques Ibert…
Nel 1937 Ibert fu nominato direttore dell’Accademia di Francia a Roma (la prima volta dal 1666 che un musicista veniva nominato a questa carica). Con l’inizio della Seconda guerra mondiale, Ibert ricoprì il ruolo di addetto navale presso l’Ambasciata francese a Roma. Il 10 giugno l’Italia entrò in guerra e il giorno successivo Ibert, insieme alla sua famiglia, partì da Roma con un treno diplomatico. Già nell’agosto del 1940 fu collocato a riposo, con un decreto speciale del governo di Vichy il suo nome fu cancellato dall’elenco degli ufficiali di marina e le sue opere furono vietate. Per i quattro anni successivi, Ibert visse in condizioni di semi-legalità pur continuando a comporre e, tra le altre cose, nel 1942 completò il Quartetto per archi che aveva iniziò nel 1937.

Si era dedicato a quello che sapeva fare meglio, aveva raggiunto dei risultati interessanti e, sicuramente, trovava del tempo per contribuire anche alla soluzione delle questioni attuali per quegli anni.


Il media The Insider scrive di avere ottenuto l’accesso a «centinaia» di documenti ufficiali relativi alla morte del politico Alexey Navalny: a giudicare da quei documenti, «le Autorità hanno volutamente rimosso dai documenti i riferimenti ai sintomi che non corrispondevano alla versione ufficiale [ufficialmente pubblicata]».
In particolare, The Insider ha pubblicato le copie di due versioni della risoluzione sul rifiuto di avviare un procedimento penale, firmata dall’investigatore Alexander Varapaev. Entrambe le versioni del documento affermano che Navalny «ha avvertito un forte peggioramento della sua salute» e lo ha riferito all’ufficiale di servizio che lo ha portato dal cortile delle passeggiate al chiuso.
The Insider non specifica se altre «centinaia» di documenti dei quali è entrato possesso saranno resi pubblici, mentre le citazioni dei due documenti di cui sopra mi sembrano una prova un po’ povera. Allo stesso tempo, l’interpretazione di questa prova povera mi sembra credibile perché rientra nella logica degli eventi che conosciamo. Di conseguenza, non potevo non segnalarvi l’articolo di cui sopra.


Il vandalismo politico

L’altro ieri un treno di transito Mosca – Kaliningrad (già Königsberg, una exclave russa tra Polonia e Lituania) è arrivato al posto di controllo frontaliero della stazione ferroviaria di Kiana (del paesino Kalveliai in Lituania) con il simbolo «Z» (vietato dalla primavera del 2022 in Lituania) dipinto sulla fiancata di una carrozza. Le guardie di frontiera hanno inoltre notato altri simboli della invasione russa dell’Ucraina: la scritta «ZOV» e la scritta in russo «Vilnius è una città della Russia» (la capitale della Lituania, lo preciso per i meno esperti della geografia, ahahaha). Il personale del treno non ha saputo spiegare alle guardie di frontiera da dove provenissero queste scritte.

Per per fare in modo che il treno possa attraversare il confine, il capotreno e il resto del personale viaggiante ha dovuto cancellare le scritte. Di conseguenza, il treno non è stato trattenuto e, dopo i controlli, ha viaggiato lungo il percorso previsto.

Dalla qualità e dallo stile delle scritte si vede benissimo che almeno questa non è una opera super creativa della propaganda statale russa, ma un semplice atto vandalico, una opera di qualche ragazzino senza cervello per il quale è indifferente cosa e dove scrivere e/o «disegnare» (pure le vie delle città italiane sono piene delle scritte della qualità «artistica» e contenuto «intellettuale» simili). Al massimo, è la conseguenza della propaganda… Però mi ha fatto venire in mente una indea un po’ malefica.
Per esempio: se qualcuno dovesse vedere in giro una macchina antipatica, potrebbe non bucarle le ruote, graffiare una fiancata e/o spaccare gli specchietti, ma aggiungere qualche scritta con i simboli «Z» e «V» e l’espressione «operazione militare speciale in Ucraina». In tal modo causerà molti più problemi al proprietario.
Ma, ovviamente, non invito nessuno a fare una cosa del genere. Anzi, condanno ogni forma di vandalismo. Semplicemente, a volte mi stupisco della scarsa fantasia dei vandali (e del loro scarso contatto con il momento politico internazionale corrente).


Una causa persa

Ho scoperto che il 30 settembre è stata depositata presso la Corte Suprema della Federazione Russa una class action da parte di 504.180 co-attori. Con a capo l’avvocatessa popolare Olga Smirnova, hanno intentato una causa per riconoscere lo status illegale della statualità dell’Ucraina e riconoscerla come territorio dell’URSS (Russia):

Una decisione favorevole del tribunale permetterà di bloccare le forniture di armi degli Stati Uniti e dei Paesi della NATO nel territorio dell’Ucraina e di porre fine alla operazione militare speciale con una vittoria.

La logica della motivazione è la più logica del mondo. Gli Stati Uniti e la NATO, ovviamente, non utilizzeranno la sentenza della Corte Suprema della Federazione Russa come dovrebbero, ma procederanno immediatamente alla sua applicazione e non invieranno più un solo proiettile alla «regione ucraina della Federazione Russa».
La cosa strana è che una mossa così ingegnosa non è stata pensata dallo stesso Putin: includere nell’ultima versione della «Costituzione della Federazione Russa» non le «misere» quattro regioni, ma l’intera Ucraina in una volta sola. Ma il gruppo di mezzo milione di persone non ha preso in considerazione il fatto che non si può essere «più intelligenti» di Putin: sono «fuori rango» per una cosa del genere. E i giudici della Corte Suprema, correttamente orientati nella situazione politica, uccideranno alla radice l’impulso patriottico di 504.180 co-attori.


Con le armi proprie

Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller durante un briefing con la stampa, tra le altre cose, ha dichiarato:

[…] Ukraine does not need our permission to strike back against Russian targets. They are a sovereign country and can use the weapons that they build on their own, of which are many, if you look at the programs that they have put in place over the last year. And then when you look at the weapons that we have provided to them, we’ve made clear that they can use them to strike back against Russian targets across the border that are launching attacks.

Come avrei voluto interpretare io la suddetta dichiarazione: «stiamo organizzando la produzione degli armamenti necessari direttamente sul territorio ucraino». Ehm… ok, è una cosa che potrebbe anche avere senso, ma quanto tempo ci vorrà per organizzarla (se dovesse essere vero, ovviamente)?
Allo stesso tempo, mi sembra molto più realistico supporre che fino alla inaugurazione del nuovo (nuova?) presidente statunitense l’Ucraina dovrà resistere senza gli aiuti americani: Biden vorrà chiudere la propria carriera politica con qualche soluzione realizzabile in poco tempo, mentre Harris si concentra sugli argomenti più cari ai cittadini americani. Miller, dunque, lo ha fatto capire in un modo abbastanza «diplomatico».


Le idee per il confine

Il ministro della Giustizia norvegese Emilie Enger Mehl ha dichiarato che la Norvegia potrebbe costruire una recinzione al confine con la Russia. In una intervista rilasciata a NRK ha raccontato di avere visto una parte della recinzione di confine durante una visita in Finlandia e di ritenere che tale protezione potrebbe essere una buona idea anche per la Norvegia. Secondo il ministro, è interessante non solo come un deterrente, ma anche perché i sensori e altri mezzi tecnologici possono rilevare le persone che si avvicinano al confine. Emily Enger Mehl ha aggiunto che il Governo è pronto a chiudere completamente il confine con la Russia (198 chilometri) «il prima possibile».
Le dichiarazioni e le intenzioni del genere sono un po’ comiche (un recinto funzionerà solo contro i sabotatori e/o spie meno preparati; sicuramente non funzionerà contro una ipotetica azione militare), ma sono allo stesso tempo facilmente comprensibili almeno dal punto di vista emotivo: c’è chi vuole proteggersi da uno Stato diretto da un pazzo.
Allo stesso modo alcuni ucraini, per esempio, dicono che dopo la fine della guerra servirà un «fosso con i coccodrilli» lungo tutto il confine esterno della Russia. Mi diverte la rivelazione — letta qualche tempo fa — del fatto che Donald Trump (un altro personaggio particolare) voleva un «fosso con i coccodrilli» sul confine dei «propri» USA.


Una ricetta sicura

Esistono delle notizie piccole, che noti solo per sbaglio, che in più non possono nemmeno essere commentate perché assomigliano più a una diagnosi… Ma proprio per questo motivo hanno anche qualcosa di molto attraente. Di conseguenza, non vorrei che ve le perdiate voi.
Per esempio: Elena Vyalbe, la presidente della Federazione russa di sci di fondo (dal 17 giugno 2010; è una ex sciatrice con 7 medagli olimpiche e 17 dei vari campionati del mondo), ha dichiarato:

Se avessimo sganciato una bomba sul centro di Londra, a quest’ora sarebbe tutto finito e ci sarebbe stato permesso di partecipare ovunque.

Ha aggiunto che prima o poi i russi potranno tornare sulla scena mondiale.
Capisco che gli sportivi di tutto il mondo solitamente non sono dei grandi intellettuali, ma è comunque interessante scoprire – per l’ennesima volta – che non esiste alcun limite!

P.S.: le persone attente dicono che la propaganda statale russa è negli ultimi mesi passata dal negare l’eventualità dell’uso «della bomba» al discutere «dove e quando» potrebbe essere usata. Ma questo è un altro grande argomento.


Bisogna condividere la tecnologia

Spero che il prossimo viaggio internazionale di Vladimir Zelensky abbia come destinazione l’Israele: per chiedere come si distruggano i bunker assieme ai loro proprietari.

Sarà il know-how più utile di tutto nella situazione corrente.


La musica del sabato

È già la seconda volta nella storia della mia rubrica musicale che scrivo della stessa canzone (la prima era capitata nel 2019), ma la «protagonista» merita di essere ricordata… Anche perché di recente ho fatto una piccola scoperta in materia.
Quasi 60 anni fa – anche se i ventidue giorni di differenza ormai possono essere sacrificati con l’arrotondamento –, il 5 settembre 1964 The Animals raggiunsero il primo posto nelle classifiche statunitensi con la loro versione della canzone «The House of the Rising Sun». Ho scritto versione perché esistono molte versioni della canzone con trame completamente diverse. In tutte le versioni, il protagonista racconta la storia di come ha rovinato la propria vita nella casa del «Sol Levante». Il protagonista o, addirittura, la protagonista della canzone, come nella versione originale del folklore. La «Casa del Sol Levante» è intesa da alcuni come un bordello, da altri come una prigione, da altri ancora come un pub o una casa da gioco.
L’interpretazione più plausibile della suddetta espressione è quella di David Kenneth Ritz «Dave» Van Ronk (30 giugno 1936 – 10 febbraio 2002), un cantante folk americano e una grande autorità della scena newyorkese degli anni ’60:
Come tutti, pensavo che «casa» significasse bordello. Ma qualche tempo fa mi trovavo a New Orleans per un festival jazz. Mia moglie Andrea, Odette e io stavamo bevendo un drink in un pub quando si presentò un ragazzo con una pila di vecchie fotografie, istantanee della città di inizio secolo. Insieme al French Market, alla Lulu White’s Mahogany Hall, alla dogana e simili, c’era una foto dell’ingresso in pietra grezza, con un’immagine incisa del sole nascente al centro. Incuriosito, chiesi che tipo di edificio fosse. Si è scoperto che si trattava della prigione femminile di New Orleans. Quindi, a quanto pare, mi sono sempre sbagliato«.
Stando al testo, dunque, la canzone era originariamente cantata da una donna.
A questo punto, posso fare due cose. Prima di tutto, posto ancora una volta la famosa versione della canzone cantata dai The Animals:

E poi, trovo logico postare qualche interpretazione femminile della «The House of the Rising Sun». Per esempio, quella di Jodi Miller (facente parte del suo album «The House of the Rising Sun» del 1973):

Oppure la versione del gruppo Continuare la lettura di questo post »