L’archivio del marzo 2023

L’umorismo apprezzato

Del video odierno volevo mostrarvi prima di tutto quei circa 15 secondi che iniziano nel punto dal quale lo faccio partire. Preciso che è accaduto in India, uno Stato che sta cercando di apparire neutrale e guadagna bene acquistando il petrolio russo a prezzi bassissimi.

E poi vi ricordo che il ministro Lavrov ha semplicemente ripetuto uno dei concetti che il suo capo pronuncia da oltre un anno.


La musica del sabato

Oggi il compositore e musicista Antonio Vivaldi «avrebbe» compiuto 345 anni: uso le virgolette perché, ovviamente, è riuscito a compiere quegli anni, ma solo grazie alla propria opera, delle composizioni musicali che ci ha lasciato. In una data del genere non potevo non postare nella mia rubrica musicale qualche sua composizione.
L’eredità musicale lasciataci da Antonio Vivaldi è immensa, ma nella memoria collettiva è rimasto – non del tutto senza ragione – prevalentemente come compositore della musica per violino. Ecco, oggi provo a correggere un po’ quella memoria…
La prima composizione di Antonio Vivaldi che ho selezionato per oggi è la Trio sonata per due oboi e basso continuo

La seconda composizione di Vivaldi di oggi è invece il Concerto per flauto, oboe, violino, fagotto e basso continuo

Benissimo, spero di avere contribuito almeno un po’ a una attenzione un po’ grande – tra i miei lettori – verso la ricchezza delle composizioni di Vivaldi.


La lettura proposta per questo sabato è un articolo che racconta solo un «piccola» storia, solo una delle tantissime esperienze vissute dai comuni cittadini russi in disaccordo con la guerra putiniana contro l’Ucraina.
Potrebbe aiutarvi a capire quale tipo di regime politico ha deciso di attaccare uno Stato vicino intenzionato a seguire la strada dello sviluppo [avrei potuto mettere il punto già ora] occidentale.
Io, intanto, spero che qualche futuro storico della vita quotidiana riesca a raccogliere e pubblicare un po’ di storie del genere: perché la memoria collettiva è breve e tra qualche decennio rischiamo di sentire delle frasi del tipo «quando c’era Putin, c’era l’ordine».


Una tendenza positiva

Il museo cittadino di Amsterdam (Stedelijk Museum) ha iniziato a indicare – nelle proprie descrizioni sui cartelli informativi fisici e sul sito web – il pittore Kazimir Malevič come un artista ucraino e non più come russo. Malevič nacque a Kiev (anche se all’epoca fu il territorio dell’Impero russo) da genitori polacchi e passò una parte significativa della propria vita privata e professionale sul territorio «tradizionale» russo, ma va bene: si hanno dei motivi formali anche per definirlo ucraino. Se in questo periodo particolare qualcuno possa essere rasserenato dalla assegnazione di una nuova appartenenza nazionale a un artista di portata mondiale, accettiamolo pure.
Allo stesso tempo, possiamo notare che ormai si tratta di una tendenza. A febbraio, per esempio, si è saputo che il Metropolitan Museum of Art di New York ha cambiato le didascalie dei dipinti di Ivan Aivazovsky, Ilya Repin e Arkhip Kuindzhi presenti nella collezione del museo: ora accanto ai loro nomi si legge che sarebbero dei pittori ucraini e non [più] russi.
Tutti questi cambiamenti costituirebbero un motivo sufficiente per scandalizzarsi o allarmarsi? Per le persone normali sicuramente no. Infatti, dalla tendenza osservata mi sembra di capire che nell’Occidente stia aumentando la capacità di non definire più come «russi» tutti coloro che vengano dall’ex territorio sovietico, ma di tentare di comprendere le loro differenze. Paradossalmente, non è una tendenza nazista (senza la divisione dei terrestri secondo il criterio nazionale saremmo stati molto meglio), ma, al contrario, è una utile eliminazione delle generalizzazioni offensive. Quelle come «africano», «latinos» etc.
Ci voleva proprio qualcosa di positivo in questi tempi brutti.

P.S.: tra le generalizzazioni offensive avrei aggiunto anche «afroamericano», ma le persone povere di cervello avrebbero perso tutto il testo precedente.


La bellezza degli esempi

Purtroppo, solo ieri sera ho saputo di una iniziativa «artistica» interessante… In realtà, non so bene con quale espressione definire quella azione: probabilmente, rientrerebbe nell’ambito dell’art action. In sostanza, però, è stato un modo molto interessante – e secondo me efficace – di provare a spiegare a un europeo medio che cosa sia la guerra.
Il 24 febbraio lo staff del Berlin Story Bunker Museum e gli attivisti tedeschi Enno Lenzse e Wieland Giebel hanno piazzato davanti alla ambasciata russa a Berlino un carro armato russo distrutto dall’esercito ucraino nei pressi di Kiev durante i primi giorni della guerra. Si tratta di un carro armato russo T-72 prodotto nel 1985 e, nel corso della guerra in Ucraina, danneggiato da una mina anticarro durante la battaglia per Kiev nei pressi del villaggio di Dmitrovka, vicino a Bucha. Sul sito del museo si precisa che la macchina ha partecipato attivamente alle operazioni di combattimento e presenta una serie di fori provocati da armi di vario calibro: la piastra di protezione del dispositivo di puntamento Sosna-U del mitragliere è stata tagliata e ci sono una serie di segni dei colpi di armi leggere su tutta la parte sinistra del carro.
L’installazione è rimasta al suo posto fino alla mattina dell’1 marzo.
Ma il dettaglio più importante è che questo rottame (ormai lo è) è stato uno strumento di aggressione, una causa della morte e, come potete immaginare, un luogo della morte. È un pezzo «fresco» della guerra in corso che si può vedere e toccare.
Purtroppo, in Europa ci sono ancora dei cretini secondo i quali la guerra finisce se alla Ucraina vengono tolti o negati i mezzi di difesa e di contrattacco (sempre secondo gli stessi cretini sarebbe una fine normale, accettabile, della guerra). No, non finisce. Dal fronte orientale continueranno arrivare i carri armati dell’aggressore che si sentirà capace e autorizzato a invadere tutti quegli Stati che per qualche motivo non gli sono piaciuti. Spero che l’installazione berlinese abbia avvicinato almeno di un passo la comprensione di tale concetto.


L’indicatore della crisi

Uno dei modi possibili – anche se, ovviamente, non il più importante e scientifico – di valutare quanto stia andando «bene» l’economia russa ai tempi di guerra è vedere quanto sarebbe disposto «il Cremlino» a spendere per l’apparenza della normalità e della unità ideologica interna.
Sul social network «VKontakte» (VK) è partita la campagna di arruolamento degli spettatori per il concerto con il quale si intende festeggiare il nono anniversario della annessione della Crimea. Il concerto è programmato per il 18 marzo allo stadio moscovita Luzhniki.
Il luogo del concerto è dunque lo stesso del «concerto patriottico» del 22 febbraio. Ma, a differenza di quella occasione, ai potenziali spettatori del 18 marzo non vengono più promessi 500 rubli (poco più di 6 euro) per la presenza. In compenso, vengono promessi un pasto, l’esibizione di alcuni famosi artisti noti per la loro posizione «patriottica» e un nuovo stand-up comedy di Vladimir Putin…
Ma io mi ricordo bene che prima della pandemia per la presenza alle manifestazioni pro-governative pagavano anche più di mille rubli (che all’epoca valevano di più). Considerando che dopo oltre un anno il grado di approvazione popolare della guerra dichiarata è sceso notevolmente (anche se le indagini sociologiche sono un po’ difficili da fare), i dirigenti dello Stato russo avrebbero dovuto essere un po’ meno tirchi. Di conseguenza, possiamo presumere che i soldi stiano finendo: anche quelli ottenuti attraverso degli schemi fantasiosi di vendere il petrolio alla India e ad alcuni stati africani.
P.S.: l’economia russa – parlandone seriamente – per ora sta andando meno male del previsto, ma molto peggio di quanto si tenti di mostrarlo con la statistica ufficiale. Solo nel contesto della guerra in corso, le sanzioni occidentali, la fuga delle persone più istruite e dei capitali avranno degli effetti negativi pesanti a lungo termine, ma, logicamente, non immediati. Ma si tratta di un argomento serio e lungo, dunque lo rinvio a un altro articolo.