Ormai, non è certo notizia (come io non sono una agenzia stampa) che l’IKEA ha «finalmente» «svelato» la ricetta delle sue famose polpette.
Quello che manca ora è la spiegazione del perché prepararle e mangiarle a casa.
Il pop-corn, per esempio, è buono quando è mangiato nel buio di una sala cinematografica. Mentre nel buio della propria casa (e davanti a un computer) lo stesso pop-corn sembra solo una specie di polistirolo salato che lascia delle briciole da tutte le parti.
Un hamburger, per esempio, è buono in mezzo a un viaggio palloso in autostrada, mentre a casa sembra un panino fragile un po’ scomodo da mangiare.
Le polpette della IKEA mangiate, appunto, all’IKEA vengono servite al sottocosto e già solo per questo creano un grande entusiasmo tra i consumatori. In più, consentono di fare una pausa nelle ricerche pallose dei mobili (io odio i negozi fisici) e creano l’illusione di trovarsi in un luogo pieno di prezzi vantaggiosi. Ma sono certo che a casa il 99% della magia verrebbe meno.
Chissà quante persone avranno il coraggio di riconoscerlo pubblicamente.
L’archivio del aprile 2020
La maggioranza degli italiani minimamente interessati all’automobilismo si ricordano della esistenza della auto sovietica/russa VAZ-2101. Nel linguaggio popolare si usa chiamarla «una copia della Fiat 124». Ieri quel modello aveva compiuto cinquant’anni: il suo primo esemplare era infatti stato prodotto il 19 aprile 1970.
In realtà, per adattare la Fiat 124 (più precisamente, la sua versione del 1966) alle condizioni stradali e climatiche russe, al progetto furono apportate circa ottocento modifiche. Tra quelle più importanti possiamo ricordare l’aumento della altezza dal suolo, il tipo e il posizionamento delle valvole del motore, l’adozione dei freni a tamburo sulle ruote posteriori, il cambio a quattro marce, un meccanismo più resistente delle maniglie, l’introduzione (!!!) degli specchietti laterali…
Il risultato finale non è stato fenomenale dal punto di vista qualitativo: per «merito» del progetto e dell’assemblaggio ogni proprietario di una VAZ-2101 era necessariamente un esperto di meccanica «applicata», ma in una certa misura lo stesso si può dire anche di tutte le altre automobili sovietiche.
La fabbrica VAZ – nota in Europa con il nome da esportazione Lada – fu costruita a Togliattigrad in collaborazione con la Fiat proprio per produrre il primo modello 2101. L’intenzione fu quella di creare un nuovo produttore sovietico di livello europeo, ma il risultato finale è stato un po’ deludente. Per più decenni, anche dopo la caduta dell’URSS, la VAZ ha attirato la maggioranza delle risorse materiali e umane – a scapito di altri produttori interessanti – senza però produrre dei modelli realmente belli. Sì, le VAZ erano molto diffuse nell’URSS, ma solo perché mancavano delle alternative.
La «copia della Fiat 124», intanto, è stata prodotta fino al 1982. In totale ne sono stati fabbricati più di 2,7 milioni di esemplari. E se contiamo anche tutte le modifiche, 4,85 milioni. Continuare la lettura di questo post »
Il commentatore sportivo della BBC Andrew Cotter non ha alcun impegno lavorativo in questo periodo. Di conseguenza, si annoia un po’ (come tutti noi).
Quindi per non perdere la forma ha deciso di commentare le competizioni vitali dei suoi labrador Olive e Mabel. Si tratta di gare cariche di tensione, a volte vinte all’ultimo secondo:
Alcune gare, purtroppo, vengono vinte non dallo sportivo migliore, ma da quello favorito dalla consegna anticipata dell’attrezzo:
Non ho mai capito perché così tante persone trovano difficile da ascoltare la musica di Charles Camille Saint-Saëns… Certo, nel corso di tutta la sua lunga carriera da compositore, Saint-Saëns è sempre stato un innovatore (forse da giovane lo è stato in una misura un po’ più grande), ma dal punto di vista melodico e ritmico non produceva delle cose impossibili da seguire. Anzi, in alcune occasioni tenderei a pensare proprio l’opposto.
Ma, in ogni caso, non pretendo di apparire un grandissimo esperto. Anche per questo oggi nella rubrica musicale metto due sue composizioni famosissime.
La prima è «Le Carnaval des animaux» suonato dalla Symphony Orchestra of The Stanisław Moniuszko Music School in Wałbrzych:
E la seconda è «Le danse macabre» suonata dalla Orchestra Filarmonica della Radio France:
È bello e interessante il progetto «Le chiese dimenticate d’Europa» del fotografo britannico James Kerwin.
Il prestigio della religione sta scendendo velocemente in tutto il mondo. Nel solo 2017 in giro per il mondo sono state definitivamente chiuse quasi dieci mila chiese. Non perché gli invasori extraterrestri armati hanno vietato agli umani di credere, ma perché i dogmi religiosi sono passati di moda. La spiegazione scientifica del mondo è infinitamente più bella, interessante e ampia della primitiva concezione religiosa. Non solo: evolve pure nel tempo e lo fa in un modo abbastanza veloce. Quindi è ovvio che la gente non ci va più in chiesa.
Non dobbiamo nemmeno dispiacerci per la «perdita» degli edifici religiosi. Quelli veramente interessanti dal punto di vista storico e/o artistico – si tratta in realtà di una percentuale non altissima – vengono restaurati e trasformati in musei, biblioteche e negozi.
Inoltre, non penso che ci sia un rischio reale dell’arrivo delle moschee al posto delle chiese cristiane: pure nel mondo islamico la religione sta visibilmente perdendo la popolarità.
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Per una serie di circostanze lavorative e professionali negli ultimi sette anni mi trovo in uno stretto e continuato rapporto con gli studenti universitari alle prese con la scrittura delle loro tesi di laurea. Spesso mi diverto molto nel senso positivo, ma, allo stesso tempo, ho avuto modo di constatare una cosa triste: quasi la totalità dei laureandi si limita a studiare l’applicazione della normativa vigente nella materia prescelta (o proposta dal relatore). Certamente, si tratta di un modo importantissimo di studiare il diritto, ma esso – il suddetto modo – ha il peso didattico di un semplice esame e non di una ricerca finale. Solamente i pochi studenti più capaci hanno la fantasia sufficiente per ipotizzare e modellare una situazione realistica per poi trovarne una soluzione legale. Altrettanto pochi sono gli studenti capaci di individuare nella vita reale delle problematiche carenti di un trattamento giuridico chiaro e sufficiente.
Di conseguenza, ogni anno in tutte le università italiane i bidoni della raccolta differenziata della carta si riempiono di decine e decine di tesi di laurea inutilmente descrittive. Quelle tesi che, purtroppo, rispecchiano non solo le scarse capacità dei nuovi dottori, ma pure quelle tendenze della moda che sostituiscono la fantasia. Per esempio: per anni tantissimi studenti hanno creduto di essere tanto originali scrivendo una tesi sul Brexit (dove c’era l’imprevedibilità politica ma non quella giuridica), sul ruolo dei social network nelle proteste popolari (senza accorgersi che quelle proteste erano sempre state causate dal blocco dei social networks e non del loro utilizzo) o del ruolo costituzionale di qualche istituzione in una ennesima crisi di Governo in giro per il mondo (e che palle, è tutto già scritto mille volte dagli scienziati e dalle Corti costituzionali).
Ma ora, per fortuna o purtroppo, la vita propone una chance a tutti gli studenti pigri del mondo. Seguite pure la moda studiando, dal punto di vista giuridico, l’ipotetico stato d’emergenza epidemiologico. Come abbiamo avuto il modo di constatare nelle ultime settimane, l’inesistenza di questa specifica misura nella normativa italiana costringe il Governo e le Regioni a colmare le lacune giuridiche nel corso dell’opera. A causa della fretta e del normalissimo fattore umano, non è naturalmente possibile svolgere i doverosi lavori preparatori. Di conseguenza, assistiamo alla adozione di norme contradditorie, insufficienti e spesso caratterizzati da una certa conflittualità con le norme già esistenti. Non condivido la maggioranza delle accuse di incostituzionalità, ma trovo comunque che molte delle sanzioni contro i trasgressori della quarantena possano essere impugnate con successo in tribunale dopo la fine della quarantena stessa. È realistico proprio perché la normativa è fatta male (ma evito di spiegarvi come per non passare per uno che incita alla disobbedienza).
Nel frattempo, però, i laureandi intenzionati a produrre qualcosa di veramente originale e attuale possono ispirarsi al problema più noto al mondo ed esercitarsi nell’ipotizzare una normativa applicabile allo stato d’emergenza epidemiologico compatibile con sistema giuridico italiano e/o comunitario. Sono sicuro che anche i professori più critici verso le ambizioni scientifiche studentesche saranno curiosi di leggere delle idee nuove in merito.
Tre anni fa mi era già capitato di spiegare perché in Russia la vittoria nella Seconda guerra mondiale si festeggia con un giorno di ritardo rispetto alla maggioranza dei Paesi occidentali. Ora, a causa di una recente decisione della Duma, dovrei fare una spiegazione analoga per un’altra data storica.
Due giorni fa, infatti, è stata approvata in via definitiva la modifica alla legge sulle celebrazioni delle festività militari. Tale modifica è consistita nel spostare la festa della fine della seconda guerra mondiale dal 2 al 3 settembre.
Come sicuramente sapete, la data della fine è ben diversa dalla data della vittoria. Solo il 2 settembre 1945, infatti, fu firmata la resa del Giappone, l’ultimo alleato della Germania di Hitler. Quindi con la suddetta modifica alla legge russa si intende, ufficialmente, di festeggiare il passaggio dalla guerra alla pace e non più la fine del periodo bellico.
Nel frattempo, in diversi Stati del mondo si usa ricordare, oltre alla data della vittoria (l’8 maggio), anche la data della fine della Seconda guerra mondiale. Così, nel Regno Unito e nelle sue ex colonie viene preferita la data del 15 agosto (la data del discorso dell’imperatore Hirohito alla nazione). Negli Usa si preferisce il 2 settembre, ma al giorno d’oggi è una festa ufficiale solo nello Stato di Rhode Island (perché è lo Stato con più militari caduti nella guerra con il Giappone). Solo in Cina la fine della guerra si festeggia il 3 settembre (perché il giorno seguente alla resa del Giappone era iniziato il periodo dei festeggiamenti per la sconfitta ufficiale dell’occupante).
Nell’URSS, per un motivo oggi poco chiaro, i festeggiamenti della fine della guerra furono fissati – con un decreto del 2 settembre 1945 – per il 3 settembre, ma tale data rimase festiva per soli due anni. L’unico ricordo materiale di quella decisione è la medaglia «Per la vittoria sul Giappone», sul retro della quale è riportata la data 3 settembre 1945.
Dopo i tentativi del 1998, 2000 e 2001, quella data è stata «finalmente» rispolverata in modo ufficiale…
La decisione della Duma del 14 aprile – oltre a essere presa in un momento storico che dovrebbe essere caratterizzato dall’impegno in altri ambiti – crea più domande e incertezze che risposte sulla storia. Per esempio: perché riscrivere la storia? (in modo infondato, direi) Perché occuparsi degli eventi così obsoleti? Perché cercare di essere per forza diversi dal mondo occidentale anche nelle questioni così piccole? Boh…
Uno dei misteri più grandi del periodo corrente è la diffusione pressoché totale della moda di consentire l’accesso libero alle risorse digitali.
Certo, dal punto di vista sociologico (o forse psicologico) si tratta di un esperimento molto curioso: esso permette di capire se nella vita normale le masse non «consumano» la cultura perché non hanno soldi o perché in realtà non se ne interessano. Perché se non accedono a una risorsa culturale nemmeno se è gratuita e accessibile dal computer personale, la presunta mancanza di soldi o di tempo diventa solo una scusa miserabile della propria pigrizia intellettuale.
Ma io non riesco a capire l’aspetto economico del fenomeno di cui all’inizio del post. Quale logica economica ci potrà mai essere nell’aprire l’accesso a tutto solo perché è aumentata la domanda? È la paura di perdere in popolarità? Ma la popolarità non si mangia, non si beve e non funziona come un pezzo di abbigliamento. Di cosa vivranno domani gli autori dell’accesso libero? Si lamenteranno della crisi economica e della mancanza degli aiuti?
In realtà non c’è alcunché di male nel guadagnare con il proprio lavoro. I soldi in entrata sono un equivalente degli sforzi professionali e degli investimenti necessari per realizzare un qualsiasi prodotto o servizio. Il male sta nel tentativo di trasformare tutti i lavoratori in volontari e umiliare tutti coloro che manifestano il proprio disaccordo.
Tutto deve essere pagato. Se non vuoi pagare, non ricevi.
Spero che in questo periodo nessuno dei presenti abbia dei problemi almeno con il sonno (io non li ho mai avuti e in queste settimane posso anche dormire più delle solite cinque ore al giorno). Ma se ci dovesse essere qualche sfortunato, ora provo a salvarlo io.
Qualche giorno fa ho saputo della idea molto curiosa dell’americano Scott Elchison. Egli ha creato il podcast «Ts&Zzz» dove legge i termini e condizioni privacy dei siti internet. Effetivamente, chi ha mai provato a leggere per intero almeno uno di quei testi, dovrebbe ricordare bene la reazione del proprio cervello.
Quindi se non riuscite ad addormentarvi, provate pure. Il podcast è disponibile su Apple Podcasts, Goole Podcasts e Spotify.
Anche io avrei potuto creare un servizio del genere. Ma, purtroppo, tanti anni fa non avevo ancora degli strumenti tecnologici adeguati per registrare la voce ipnotica di una mia professoressa (che però era brava in tutti gli altri sensi).
[Tante parole tagliate dalla censura], ancora tre settimane dei domiciliari e due progetti persi.
Il grande paradosso che abbiamo scoperto nelle ultime settimane è: la quarantena serve perché quasi nessuno capisce a cosa serve.
E i primi a non capirlo sono tutti quei personaggi che hanno fatto i fighi davanti a una webcam (o una tastiera) urlando «state a casa!». Perché il vero e unico senso della quarantena è quello di impedire alle persone di incontrarsi diffondendo il virus. Una camminata o corsa solitaria non va contro il senso della quarantena perché se il virus fosse capace di viaggiare via l’aria a lunghe distanze, entrerebbe benissimo anche nelle case dove siamo chiusi da oltre un mese. Entrerebbe senza distinguere da quale parte della finestra si trova la vittima umana.
Le menti fortemente alternative sono pure riuscite a partorire una logica particolarmente perversa: «se ti fai male correndo, finisci al pronto soccorso e passi il coronavirus agli altri infortunati / malati / medici» (oppure te lo prendi tu). Por** ***, ma allora evitiamo anche di fare la doccia (per non cadere scivolando), cucinare (per non tagliarci una mano), prelevare i libri dai ripiani alti (per non farci cadere in testa qualche volume pesante), vedere i film horror (per non avere un attacco cardiaco), andare a letto con altre persone (non vi racconto quali infortuni capitano) etc. etc…
Allo stesso tempo, però, dobbiamo riconoscere che molte persone non sono capaci di esercitare le proprie attività quotidiane con moderazione, adeguandole alle condizioni di epidemia. Così, per esempio, certi ignoranti amanti dello sport si sarebbero comunque fermati a salutare gli amici, conoscenti o vicini di casa incontrati, in alcune situazioni non sarebbero riusciti a evitare le zone di affollamento di altri «solitari» in giro per le città. E quindi ci sia pure qualche forma di quarantena.
Una quarantena fatta un po’ meglio però. Quella lunghissima che stiamo vivendo ora, un po’ improvvista al momento, può essere retta a fatica una volta in anni o decenni. Ma la prossima situazione del genere sarà catastrofica in tutti i sensi perché non ci saranno più delle vecchie risorse accumulate da spendere per affrontarla.
Mi preoccupano fortemente le persone – alcune delle quali ricoprono delle cariche istituzionali – convinte che con una quarantena si possa fermare una epidemia (in realtà no: in tal modo si possono solo regolare i suoi ritmi), ma contro di loro, purtroppo, non ci possiamo fare nulla. Ma la nostra sfortunata dipendenza da questa categoria degli ignoranti è l’argomento di un altro lungo post.