Per tanti anni ho cercato un modo, una formula compatta e facilmente comprensibile dalle masse, per spiegare perché vorrei evitare a ogni costo di lavorare nel settore pubblico. L’ho quasi trovata. Ho avuto la sensazione di essere a un passo dall’obiettivo tanto cercato.
Ed ecco che, come al solito, rovino la sensazione di essere un genio scoprendo che una persona concreta ha già espresso la stessa idea molto meglio di me. Anzi, in questo specifico caso è successo pure molto prima: quasi due secoli fa.
Sono comunque felice di condividere con i miei amatissimi lettori questa breve citazione dal romanzo «La lettera scarlatta» di Nathaniel Hawthorne (pubblicato per la prima volta nel 1850):
Qui basti dire che un doganiere, rimasto incarica a lungo, sarà difficilmente un personaggio degno di gran lode o rispetto per molte ragioni, una delle quali si è la maniera in cui assolve il suo incarico, ed un’altra la natura medesima del mestiere che, seppure onesto come spero, è d’una specie tale da impedirgli di partecipare agli sforzi concordi del genere umano.
Un effetto che credo si possa osservare più o meno in ogni individuo ch’abbia occupato quel posto, è poi il seguente: mentre s’appoggia al braccio gagliardo della Repubblica, gli vien meno la sua propria energia. Costui perde la capacità di sorreggersi da sé solo in misura proporzionata alla debolezza o alla forza della sua indole. Se possiede una porzione fuor del comune di volontà innata, o la snervante malia del luogo non opera troppo a lungo su di lui, le sue facoltà compromesse potranno venir riscattate. Il doganiere espulso, fortunato oggetto del villano spintone che lo manda innanzi tempo a lottare tra le lotte del mondo, potrà tornar in se stesso, ed essere quello di prima. Ma questo succede raramente. Di solito egli mantiene il proprio terreno fino al momento preciso di rovinarsi, e poi ne viene espulso tutto cionco e barcolla pel malagevole sentiero della vita arrangiandosi come può. Conscio del proprio malanno, d’aver smarrito la sua tempra d’acciaio e la baldanza, si guarderà ognora intorno ansiosamente in cerca d’un sostegno al di fuori di sé. La speranza ostinata e continua (un’allucinazione che in cospetto d’ogni scoraggiamento e tenendo in non cale l’impossibile, lo assilla finché è in vita e che, m’immagino, come gli spasimi convulsi del colera, seguiterà a tormentarlo per un breve lasso dopo la morte) si è che alla fine e tra non molto verrà rimesso al suo posto ad opera d’una fausta combinazione. Questa fiducia, più d’ogni altra cosa, spoglia dell’essenziale e dell’utile qualunque attività costui possa sognar d’intraprendere. A che mai arrabattarsi e dimenarsi e darsi tanta pena per uscire dal fango, quando di lì a un po’ interverrà il forte braccio di suo Zio Sam ad alzarlo e a sostenerlo? A che mai lavorare per vivere nella propria città od andare a cercar l’oro in California, quando sarà reso felice di qui a poco, a scadenze mensili, con un mucchietto di monete sonanti uscite dalla tasca dello Zio Sam? Meraviglia e rattrista vedere come un minimo assaggio della vita d’ufficio basti a infettare un poveraccio di questo morbo bizzarro. L’oro dello Zio Sam, salvo il rispetto dovuto al venerabile signore, possiede da questo punto di vista un potere analogo alla mercede del Diavolo. Chiunque lo tocca dovrà star bene attento, che non abbia a trovare il baratto troppo duro e svantaggioso nei propri riguardi, dacché ci andranno di mezzo, se non proprio l’anima, molti dei suoi migliori attributi: la forza incrollabile, il coraggio e la costanza, la schiettezza, la fiducia in se stesso, e tutto ciò che serve meglio ad accentuare un carattere virile.
Nei prossimi giorni scriverò più in dettaglio delle mie recenti scoperte letterarie.