L’archivio del 3 novembre 2014

Mi ricordo la discussione di qualche anno fa con una professoressa anziana e autorevole: ella sosteneva che l’ipotetica introduzione della giuria sarebbe una offesa all’ordine giudiziario italiano in generale e alla figure del giudice in particolare. Insomma, sarebbe una profanazione delle sacre tradizioni italiane.

Io ero, e lo sono tutt’ora, contrario a questo pregiudizio. Ora provo a spiegarlo in termini comprensibili anche a un lettore comune.

In sintesi, nel corso di un processo giudiziario dovrebbero avvenire due cose: 1) devono essere accertati i fatti realmente avvenuti; 2) i fatti accertati devono essere qualificati dal punto di vista giuridico. Mentre il secondo punto spetta indiscutibilmente al giudice, si potrebbe ragionare sul primo. Perché il giudice dovrebbe essere lasciato solo nella valutazione delle posizioni della difesa e della accusa? Come diceva un noto filosofo del diritto, «se è impossibile essere imparziale, tanto vale non tentare nemmeno di esserlo» (cito a memoria).

La mia (e non solo mia) tesi è: la giuria non sminuisce in alcun modo il ruolo del giudice, ma gli semplifica il lavoro e garantisce il risultato migliore. Convincere un gruppo di 12 persone diverse e non interessate è più difficile sia per la difesa che per l’accusa. Di conseguenza, l’accertamento dei fatti realmente accaduti viene svolto in maniera più efficiente e attendibile (perché gli giurati, essendo delle persone comuni, vengono più facilmente riconosciuti come uguali dal popolo). Diminuiscono insomma le probabilità degli errori giudiziari.

E’ naturale, però, che la giuria funzionerebbe solo nel sistema accusatorio, mentre in Italia non è ancora stato del tutto abbandonato quello inquisitorio. La vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi potrebbe essere sfruttata, dalle persone serie, per tornare a discutere sulla opportunità di riformare il sistema giudiziario italiano.