Giusto per cambiare un po’ l’argomento, questo sabato vi segnalo una lettura sulle attese del Cremlino (comunemente noto con il cognome Putin) circa i «risultati» dei «referendum» che si stanno «svolgendo» dal 23 al 27 settembre nei territori ucraini occupati dall’esercito russo.
Per qualche strano motivo Putin è convinto di avere diritto a «difendere» quei territori come se fossero russi solo e necessariamente dopo una formalità legale. E non importa che quella formalità non sia riconosciuta da alcun altro Stato (o organizzazione) del mondo. Certo, alcuni osservatori russi stanno dicendo da anni che Putin sia un classico legalista (lo è anche quando inventa, da un giorno all’altro, delle leggi a lui favorevoli), ma ora questa sua caratteristica sta assumendo una forma veramente ridicola.
L’archivio della rubrica «Russia»
Ci sono degli aspetti della mobilitazione militare proclamata da Putin che difficilmente verranno raccontati in breve dai mass media. Per esempio: in un solo giorno Putin ha raggiunto il grandissimo risultato di far sentire, alle grandi masse dei cittadini russi, questa guerra come una guerra propria. Sentirsi direttamente coinvolti, toccati dalla guerra. Infatti, grazie alla propaganda interna numerose persone erano – fino al 20 settembre – favorevoli o indifferenti all’intervento militare in Ucraina, ma hanno immediatamente cambiato idea dopo avere compreso che la mobilitazione riguarda loro parenti, amici, colleghi e, ovviamente, loro stessi. Di conseguenza, dalle conversazioni private e dai post sui social sono miracolosamente spariti i vari «non mi interesso di politica» o «tra poco liberiamo il pianeta dal male ucraino» (parole non mie!). Io non riesco ancora a immaginare quanto possa durare questa percezione collettiva, la comprensione di essere in guerra. Non so nemmeno a quali conseguenze possa portare. Ma, intanto, posso constatare che con questa mobilitazione Putin si è sparato a tutti gli arti in una volta.
A questo punto – in realtà come prima – preferisco sperare in qualche collaboratore di Putin armato e stufo della trasformazione della Russia in un nuovo Reich, ma non in una rivoluzione. La rivoluzione è in sostanza una nuova guerra, la quale toccherà in qualche modo anche gli Stati vicini alla Russia. Quindi agli Stati europei converrebbe già ora di comprendere un concetto semplicissimo: se una persona non vuole combattere nell’esercito putiniano e/o sentirsi costretta a combattere contro i propri concittadini, bisogna aiutare quella persona a mettersi al sicuro. Mentre il regime di Putin crollerà, prima o poi, per merito delle sanzioni, dei conflitti interni o dei processi fisiologici inevitabili. Vedo che per ora sola la Germania ha iniziato a manifestare qualche sintomo di comprensione.
Sulla mobilitazione militare «parziale» indetta ieri da Putin si possono già dire almeno tre cose concrete.
Prima di tutto, è parziale solo a parole – credibilissime parole di Putin e del ministro della difesa – e non in base al decreto presidenziale firmato da Putin. In tale decreto, composto da 10 commi, manca il comma numero 7. Ieri pomeriggio in molti avevano pensato che si tratti di un errore di numerazione, quasi un errore di battitura. Poi, però, si è scoperto che il testo del settimo comma sarebbe «riservato per l’uso interno» (© del sito ufficiale della Presidenza della Federazione Russa). Proprio quel comma, come sostiene il portavoce di Putin, contiene il riferimento alla quantità dei riservisti direttamente interessati dalla mobilitazione. Nel resto del decreto non si dice alcunché sulla quantità dei riservisti da chiamare alle armi; il decreto non contiene nemmeno dei chiari criteri di scelta dei riservisti da chiamare. Quindi, in sostanza, il principio della pubblicità della norma giuridica è stato intenzionalmente violato al fine poter mandare in guerra qualsiasi quantità delle persone e qualsiasi persona concreta.
«Perché chiamate proprio me, che ho 123 anni, sono malato, non ho alcuna qualifica utile e, casualmente, sono un aperto oppositore di Putin?»
«Perché lo facciamo in base alla norma riservata per l’uso interno».
Di conseguenza, la mobilitazione mira a risolvere non solo il problema militare, ma pure quello della politica interna.
La seconda cosa che si può dire sulla mobilitazione proclamata da Putin riguarda la sua inutilità pratica. Infatti, i quasi sette mesi di guerra in Ucraina hanno dimostrato che all’esercito russo mancano non solo le armi e le munizioni moderne, ma pure a) tantissimi beni materiali quotidiani (il carburante, l’uniforme, il cibo, le medicine da campo etc.); b) la capacità di gestire la logistica (i beni necessari arrivano al fronte lentamente e in partite relativamente piccole). Di conseguenza, non si capisce come si intenda a equipaggiare centinaia di migliaia di riservisti chiamati con la mobilitazione. Inoltre, non si capisce come, quando e da chi verranno istruiti per aggiornare le loro competenze utili per la guerra.
Insomma, sulla pratica le persone richiamate con la mobilitazione potrebbero essere usate come un semplice scudo umano posizionato, al fronte, davanti all’esercito professionale almeno minimamente attrezzato e preparato.
La terza cosa che si può dire sulla mobilitazione riguarda la reazione dei semplici cittadini russi. Tale reazione si è rivelata più informativa di ogni ricerca sociologica circa il sostegno dei cittadini russi alla guerra putiniana in Ucraina. Certo, le persone che sono andate a manifestare in piazza sono relativamente poche: perché in pochi sognano essere picchiati dalla polizia, arrestati, multati e/o condannati a qualche anno di reclusione nel carcere russo. È invece molto più interessante vedere l’aumento della domanda dei biglietti aerei per le destinazioni estere. Un sociologo che chiede il mio parere sulla guerra potrebbe essere un informatore della polizia, quindi evito di dirgli quello che penso realmente; ma con l’aumentare della probabilità di essere mandato a combattere per Putin, io intensifico i miei sforzi per mettermi al sicuro.
Questo sono – in sintesi – le tre cose che per ora posso dire della mobilitazione militare in Russia.
Purtroppo, seguirà la continuazione.
Ormai più o meno tutti hanno letto che Vladimir Putin ha annunciato la mobilitazione militare parziale in Russia. Tale annuncio è stato seguito dalla dichiarazione del Ministro della «difesa» Sergei Shoigu, in base alla quale la mobilitazione riguarderebbe 300 mila riservisti: poco più dell’1% dei 25 milioni di riservisti russi.
Potrei esercitarmi nel sarcasmo e chiedere perché l’esercito russo, che sta impiegando meno del 10% delle proprie forze umane nella guerra in Ucraina, debba essere integrato prima con i ragazzini della leva e detenuti, poi pure con i riservisti? Quali grandi qualità militari hanno i rappresentanti delle tre categorie elencate? Saranno più qualificati dell’esercito professionale? Mah…
Cercando di essere serio, dovrei spiegarvi che in Russia la mobilitazione è di fatto inutile e quasi impossibile. Ma lo faccio la prossima volta. Ora, invece, sottolineo e commento brevemente alcuni punti chiave del discorso di Putin:
1) il decreto sulla mobilitazione parziale è stato firmato «su proposta del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore» [triplo ahahahaha]. Le attività di mobilitazione iniziano oggi, il 21 settembre 2021;
2) tutti i riservisti richiamati nell’ambito della mobilitazione saranno inviati per un addestramento supplementare. A loro è stata promessa la stessa retribuzione dei militari a contratto [bisogna ancora vedere come è la situazione con gli istruttori, ma è già noto che nell’esercito russo mancano fisicamente gli ufficiali e i sottoufficiali per comandare le grandi quantità di nuovi uomini];
3) lo status giuridico dei volontari e dei combattenti delle milizie del Donbass dovrebbe essere uguale a quello dei militari russi regolari [vengono finalmente riconosciuti];
4) il complesso militare-industriale e la produzione di armi dovrebbero essere incrementati [non si capisce tanto bene come si intenda farlo in presenza delle sanzioni internazionali];
5) la Federazione Russa sosterrà la decisione dei residenti delle regioni di Donbass, Zaporozhye e Kherson (i referendum sull’adesione alla Russia si terranno nei territori occupati il 23 settembre) [in sostanza, saranno proclamati parti della Federazione Russa e difesi con tutti i tipi delle armi in base alla dottrina statale];
6) gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina «rimangono invariati» [infatti, sono già cambiati più volte: la «denazificazione» della Ucraina, poi la demilitarizzazione, poi il cambio dei vertici dello Stato etc. etc.];
7) «Chi ci ricatta con le armi nucleari deve sapere che la rosa dei venti può anche girare nella sua direzione» [a me è sempre sembrato che fosse lui a minacciare!];
8) «L’Occidente ha trasformato il popolo ucraino in carne da macello scatenando una guerra nel 2014» [l’Occidente? Una guerra nel 2014? Qualcuno ne sa qualcosa?].
Bene, ora siete ancora più informati sullo stato mentale della persona che guida lo Stato russo. Digeriti i punti appena letti, potete affrontare tutti gli altri testi riguardanti la mobilitazione parziale annunciata da Putin.
Dmitry Peskov, il portavoce della presidenza russa, ha dichiarato che attualmente il Cremlino non vede la possibilità di porre fine alla guerra in Ucraina «con mezzi politici e diplomatici». A questo punto noi, di fronte a tale dichiarazione, non possiamo non gioire per un leggero miglioramento della salute psichica degli abitanti del Cremlino. Perché, effettivamente, con ogni giorno di guerra in Ucraina in più, la possibilità di uscirne con una trattativa diplomatica si riduce sempre più… Anzi, si è ormai ridotta quasi fino allo zero: l’Ucraina ha iniziato a invertire l’andamento dei combattimenti (ora sono gli ucraini ad avanzare in molte zone) e riceve – anche se ancora lentamente – sempre più armamenti moderni. Quindi alla grande motivazione di difendere la propria terra si è aggiunto anche l’entusiasmo per i primi risultati positivi visibili.
L’ipotetica resa dell’esercito russo è una fine diplomatica della guerra? Mi sembra di no: nella mia logica è un sinonimo della sconfitta. Prima o poi la resa smetterà di essere ipotetica e sarà seguita da lunghe trattative – a questo punto diplomatiche – sul risarcimento della Ucraina da parte della Russia. Ma quella sarà un’altra storia.
Per ora festeggiamo il fatto che Putin ha iniziato ad accettare la realtà.
L’Istitute for the Study of War (ISW) ha pubblicato una analisi – neanche lunghissima, ma interessante – nella quale si sostiene che a causa degli insuccessi militari in Ucraina il Cremlino starebbe intensificando la mobilitazione (dei futuri combattenti) segreta senza creare le condizioni per una mobilitazione generale ufficiale. In particolare, gli autori dell’articolo ipotizzano che le autorità russe abbiano deciso di abbandonare l’idea di escludere i residenti di alcune regioni dal reclutamento in Ucraina. Questo cambiamento riguarda, prima di tutto, i residenti di Mosca e della relativa provincia.
Un altro modo per rafforzare la presenza militare russa in Ucraina, secondo l’ISW, potrebbe essere il trasferimento delle intere unità dalle basi militari nelle ex repubbliche sovietiche.
Direi che entrambe le osservazioni dell’ISW corrispondono pienamente a ciò che leggo ormai da qualche settimana negli articoli dei vari media non statali russi. Per quanto riguarda la mobilitazione segreta, posso confermare, per esempio, che il reclutamento dei detenuti di ogni tipo nelle carceri di tutta la Russia sta diventando uno strumento sempre più popolare (e preoccupante per la gente mentalmente sana). Per quanto riguarda il secondo punto – quello sullo spostamento delle truppe russe dalle varie zone dell’ex URSS – posso comunicare che le prime conseguenze serie si vedono già: per esempio, la notte tra il 12 e il 13 settembre si è riacceso il conflitto armato tra l’Azerbaijan e l’Armenia (proprio perché in mezzo non ci sono più quei militari russi che prima garantivano il rispetto degli accordi di pace).
Insomma, voi leggete quella analisi dalla quale sono partito, e poi, più avanti, vedremo meglio tutti gli argomenti connessi.
L’intelligence statunitense sostiene che a partire dal 2014 la Russia avrebbe finanziato in segreto dei partiti politici, singoli politici e alti funzionari in «due dozzine» di Stati esteri. Inoltre, si ipotizza che alcuni dei trasferimenti finanziari del genere della Russia possano essere passati senza essere notati. Secondo quanto sostengono gli Stati Uniti, le autorità russe pianificavano di spendere altre centinaia di milioni di dollari per i finanziamenti del genere.
Per ora si parla solo dei finanziamenti destinati alle forze politiche nei Balcani, in Africa e in alcune zone dell’Asia, ma la mia memoria mi suggerisce che pure qualche politico italiano dovrebbe iniziare a preoccuparsi: gli americani sanno tutto e potrebbero pubblicare delle informazioni molto interessanti anche prima del 25 settembre 2022. Certo, anche in altri Stati europei – per esempio in Francia – ci sono dei singoli politici e dei partiti che negli ultimi anni hanno miracolosamente migliorato la propria situazione finanziaria dopo qualche visita a Mosca. Ma io, in questo momento, sono un po’ più incuriosito della situazione italiana: chissà quanti personaggi hanno già rischiato l’infarto dopo la lettura della notizia citata sopra…
P.S.: ma la situazione corrente è comunque ancora lontana da quella dell’epoca URSS, quindi dai tempi in cui più o meno tutti i partiti (o i movimenti) di sinistra di tutto il mondo venivano in qualche misura finanziati da Mosca. Infatti, dopo il 1991 abbiamo osservato una «strana» coincidenza: molti partiti di sinistra sono entrati in crisi e molti regimi si sinistra sono addirittura crollati. Ma questo è un argomento enorme, ne scriverò nei tempi più appropriati.
Se vi dovesse capitare di vedere qualche articolo sulla presunta critica di Ramzan Kadyrov (capo della Cecenia) nei confronti di Vladimir Putin, la vostra reazione più sensata e ragionevole dovrebbe essere quella di affrontare la lettura di quell’articolo con una alta dose di scetticismo.
Da ben oltre dieci anni Kadyrov deve più o meno tutto a Putin: in cambio della apparenza della pace nella propria regione, Kadyrov ha sempre ricevuto da Mosca i finanziamenti smisurati e l’indulgenza al potere illimitato. Da un lato, sa che nella situazione attuale è praticamente insostituibile: ha eliminato dal campo pubblico – nella maggioranza dei casi fisicamente – tutti gli altri personaggi capaci e/o disposti a imporre con la forza la fine di vari conflitti interclanici (una cosa simile è stata fatta da Putin nella politica interna russa). Dall’altro lato, sa benissimo che nella situazione di un regime politico più democratico e «più occidentale» rispetto a quello putiniano difficilmente potrebbe avere la stessa fortuna politica.
Di conseguenza, bisogna capire almeno tre cose di Kadyrov: 1) non vuole l’indipendenza della Cecenia (non gli conviene economicamente); 2) non vuole essere il capo di un’altra regione, di qualche ministero federale o addirittura della Russia (non ne è interessato dal punto di vista del prestigio); la più importante 3) farà il possibile per difendere Putin e per far contento Putin (il quale, tra le altre cose, odia la pubblicizzazione dei conflitti interni alla «squadra»).
Avendo passato quasi tutta la propria vita a combattere i nemici con le armi, Ramzan Kadyrov è sicuramente molto più esperto di tantissimi ufficiali dell’esercito russo. Per i motivi elencati sopra è anche un grande tifoso della Russia nella guerra con l’Ucraina. Ma sicuramente non cercherà di contribuire alla causa (quanto vorrei scrivere persa!) con le dichiarazioni pubbliche rivolte contro il presidente. Il massimo che potrebbe fare è criticare apertamente i vertici dell’esercito, entrando in questo modo in sintonia con Putin (si dice che sarebbe «infuriato» per gli insuccessi dell’esercito russo degli ultimi giorni).
A questo punto, poi, non so in quale misura Kadyrov possa essere utile dal punto di vista militare: le forze militari cecene non sono così numerose e hanno già ricevuto il soprannome dell’"esercito da selfie". Infatti, solitamente arriva nelle zone dove i combattimenti peggiori sono già finiti e inizia a scattare – e pubblicare – le foto e i video.
Molti giornalisti non filogovernativi russi stanno cercando di indovinare, da due o tre mesi, la data dei «referendum» che dovrebbero formalizzare l’annessione alla Russia delle regioni ucraine occupate durante la guerra in corso. Inizialmente, il prognostico più popolare indicava la data dell’11 settembre 2022 perché è la data delle «elezioni» amministrative in diverse regioni russe. Ma, non vedendo alcun segno di preparativi ai «referendum» sul territorio ucraino, in molti hanno iniziato a pensare alla data simbolica del 4 novembre: la Giornata dell’unità nazionale in Russia (una festa federale in realtà priva di alcun senso, ma molto cara agli abitanti del Cremlino). Anche questa seconda data appare però poco realistica perché non si capisce ancora come, per esempio, possano essere inventate le liste degli elettori o come possa essere spiegato il fatto che il «referendum» sul passaggio alla Russia venga condotto solo tra le persone che per qualche motivo hanno deciso di non fuggire dalla invasione russa.
Ma ecco che, finalmente, iniziamo a vedere i primi segni di una soluzione favorevole al regime di Putin. Stamattina Serhiy Aksyonov – il governatore della Crimea nominato da Mosca – ha dichiarato che «nella situazione attuale» è «abbastanza logico e ragionevole» che i territori ucraini occupati si uniscano alla Russia senza alcun referendum. Secondo Aksyonov,
In Crimea c’è stato un referendum assolutamente legale e conforme a tutte le norme giuridiche, ma pochi lo hanno comunque riconosciuto. Il riconoscimento o il non riconoscimento da parte di alcuni Stati non dipende dal modo in cui questi territori saranno annessi. È una questione di volontà politica».
Ora, indipendentemente dalle fantasie di Serhiy Aksyonov sul diritto internazionale e sulla legalità del «referendum» organizzato nel 2014 in Crimea, potremmo presumere che le sue dichiarazioni sui nuovi territori ucraini occupati non arrivino dalla sua testa. Per me è altamente probabile che in questo specifico caso trasmetta in realtà l’idea del Cremlino. Il compito potrebbe essere stato affidatogli per osservare la reazione interna ed estera alla idea stessa.
Anche se, dopo quanto è successo a partire dal 24 febbraio, lo Stato russo non dovrebbe avere paura di oltrepassare qualche nuovo limite: quasi tutto il peggio è già stato fatto.
Imporre un «tetto» ai prezzi del petrolio e del gas russi è una idea politicamente curiosa, ma economicamente mi sembra un po’ dubbia. Lo è per almeno due motivi. A breve termine, con il prezzo massimo che impone l’Europa, le risorse naturali russe potrebbero diventare più richieste nel mondo: se l’UE dovesse dire «invece di 100, paghiamo al massimo 50», l’ipotetica India potrebbe dire «noi prendiamo tutto a 52 e a voi conviene accettare perché altrimenti non vendete proprio». A questo punto la Russia continua a incassare, l’India risparmia e l’Europa rimane senza le nuove forniture di petrolio (e con meno gas). Fortunatamente, l’Europa ha già le scorte sufficienti per passare serenamente l’inverno, ma, intanto, l’obbiettivo politico di togliere i soldi al regime di Putin non funzionerà.
A lungo termine, poi, il prezzo massimo del petrolio e del gas potrebbe contribuire a cambiare più velocemente la logistica del mercato globale del petrolio. La Russia cercherà e sicuramente troverà altri acquirenti, i quali, a loro volta, rivenderanno lo stesso petrolio all’Europa.
C’è una soluzione migliore rispetto a quella appena partorita in UE? Boh, per ora non lo so. Per fortuna, io non sono pagato per inventarla. A differenza dei vertici europei.