La lettura (e, in parte, visione) che propongo per questo sabato riguarda gli avvenimenti di ieri in Abkhazia, una regione caucasica staccata dalla Georgia in seguito all’attacco bellico russo del 2008 e ora solo parzialmente riconosciuta (la Georgia continua a considerare l’Abkhazia un territorio proprio e occupato/controllato dalla Russia).
Ebbene, nella capitale Sukhumi sono ieri scoppiati gli scontri – all’esterno dell’edificio del Parlamento dell’Abkhazia – tra le forze dell’ordine e i manifestanti contro la ratifica dell’accordo sugli investimenti tra le autorità della repubblica e la Russia. In sostanza, se leggiamo attentamente le ragioni dei manifestanti, si protesta contro l’aumento della influenza dello Stato russo (che prima non era proprio considerato nemico) in Abkhazia. Si tratta di una nuova grande vittoria internazionale di Putin?
L’archivio della rubrica «Russia»
Più di quaranta residenti del villaggio russo di Olgovka, distretto di Korenevsky, regione di Kursk, che si trova in una zona di guerra dall’agosto 2024, hanno registrato un videomessaggio a Vladimir Putin, chiedendogli di «porre fine a questa maledetta guerra». In particolare, nel video i residenti di Olgovka raccontano – cercate di arrivarci al prossimo capoverso senza dubitare delle mie intenzioni! – che con l’inizio della offensiva dell’esercito ucraino hanno perso tutto e sono rimasti senza alloggio. Durante l’evacuazione mancano i pagamenti da parte delle autorità per affittare un alloggio, e molte persone non sono disposte ad assumere rifugiati. Secondo i residenti di Olgovka, alcuni dei loro compaesani che non sono stati evacuati sono morti o sono scomparsi. Olgovka stessa «è diventata come un film horror» e molte persone hanno paura di tornarci, e ci vorranno almeno cinque anni per ricostruire il villaggio.
Ecco, dopo avere letto tutto questo ho pronunciato – non solo mentalmente – una buona quantità di bestemmie infuocate. In sostanza, finché tutto (e non solo) quello che descrivono accadeva in Ucraina, non erano contrari alla guerra e non chiedevano di porne fine. Ma ora che è arrivata la logica risposta, si sono svegliati.
Non posso dire di essere dispiaciuto per il loro destino. Ma, allo stesso tempo, continuo a sperare che la comprensione della realtà possa in qualche modo arrivare alle larghe masse. Il risultato finale conterà molto più di quel modo. Quindi, in un certo senso, sono addirittura contento.
Alcune decine dei residenti della città russa di Sudzha, costretti a lasciare la loro città a causa della nota offensiva dell’esercito ucraino (iniziata il 6 agosto), si sono riuniti nel pomeriggio del 10 novembre per una manifestazione spontanea nella piazza centrale di Kursk. Anatoly Drogan, un rappresentante dell’amministrazione della regione di Kursk, si è presentato alla folla. Ha chiesto alla gente di disperdersi e ha proposto di scrivere un appello collettivo nel centro di accoglienza pubblico.
Quando i manifestanti si sono rifiutati di farlo, il funzionario ha detto che avrebbero organizzato una «azione pubblica illegale» e ha chiesto di mostrare le persone che l’avevano organizzata. In risposta, i residenti di Sudzha, stranamente, non hanno tirato fuori i telefoni per cercare la foto di un personaggio noto, ma hanno chiesto alle Autorità di riconoscere l’esistenza di una guerra nella regione e di evacuare le persone che risiedono nella città controllata dall’esercito ucraino.
Potreste chiedermi perché scrivo di questa piccola notizia molto locale. Ebbene, lo faccio per almeno due motivi. In primo luogo, lo faccio perché sono contento di vedere che pure nella Russia contemporanea qualcuno trova ancora il coraggio di manifestare per segnalare i propri problemi: anche i partecipanti a una manifestazione del genere, pur non dicendo ancora nulla contro la guerra, rischiano di essere perseguiti penalmente.
In secondo luogo, lo faccio per mostrare che pure i funzionari statali e regionali russi fanno – non imposta se volontariamente o no, ahahaha – il possibile per aumentare la quantità dei russi contrari alla guerra o, almeno, scettici circa la appropriatezza della politica statale corrente. Non so se si possa / si debba inventarli ad agire con più intensità e determinazione, ma bisogna riconoscere, appunto, che stanno facendo il possibile.
Il giovedì 7 novembre Putin aveva parlato – nel corso di una esibizione pubblica di quasi tre ore – anche della elezione di Trump alla Presidenza americana: molto probabilmente ne avete sentito qualcosa anche voi. Per me, personalmente, la frase più divertente è «… lavoreremo con qualsiasi Capo di Stato …». Per fortuna o purtroppo, i rapporti tra gli Stati (indipendentemente da quali siano) non possono essere azzerati (possono variare solo l’intensità e i motivi dei contatti), ma proprio nel caso di Putin saranno in realtà gli altri a decidere se come lavorare con lui.
Potrebbe saperlo anche lui, ma si rivolgeva al pubblico interno… Però tutto questo non rende la suddetta espressione meno slegata dalla realtà.
L’articolo – non particolarmente lungo – che segnalo questo sabato è dedicato a un fenomeno non nuovo (per l’intera storia dell’esercito russo), ma riemerso con una nuova intensità negli ultimi mesi: i militari russi partecipanti alla Guerra in Ucraina si lamentano sempre più spesso dei comandanti che mandano a morte certa gli uomini indesiderati o li minacciano direttamente di «azzeramento». Io, essendo un civile e un oppositore della guerra in corso, non sono in realtà molto interessato al modo in cui il pianeta viene ripulito degli assassini (mi interessa di più il risultato finale). Ma trovo comunque curioso scoprire certi particolari del funzionamento «sul campo» dell’attuale esercito russo.
Non escludo che si tratti di un interesse condiviso da qualche lettore.
Nel villaggio russo Silikatny, nella regione di Ulyanovsk, il martedì 22 ottobre è stato installato un monumento ai «Veterani delle operazioni di combattimento, partecipanti alle guerre locali e ai conflitti armati» (senza specificare quali conflitti, combattimenti e guerre si intendano) con l’immagine di un soldato in uniforme militare. Alla cerimonia di apertura hanno partecipato Dmitry Grachev (un membro dell’assemblea legislativa regionale), Anna Anisimova (la sindaca del villaggio) e i parenti dei militari uccisi nella guerra in Ucraina. L’idea di installare il monumento è stata dell’organizzazione di Ulyanovsk «Svoi lyudi» («Le nostre persone»), composta da partecipanti alla guerra con l’Ucraina che hanno avuto disabilità in seguito alle ferite ricevute durante l’invasione.
Ma c’è stato un piccolo problema tecnico:
Sì, è raffigurato un militare in uniforme americana! Non se ne sono accorti subito e hanno smontato una parte del monumento solo una settimana più tardi, il 29 ottobre. Ora sembra proprio una tomba:
O lo sembrava anche prima?
L’articolo che vi segnalo questo sabato riguarda uno di quei fenomeni russi dei tempi della guerra relativamente nuovi, di cui avremmo potuto logicamente supporre l’esistenza già da tempo. Si tratta dei siti di phishing che fingono di essere la pagina web ufficiale della Legione «Libertà della Russia» (una unità militare delle Forze armate dell’Ucraina formata da prigionieri di guerra russi e volontari) e raccolgono dati dagli incauti utenti russi.
Sono degli utenti incauti perché finiscono a essere accusati e incarcerati in base alla legge russa sulla partecipazione a una organizzazione terroristica.
E noi (o, almeno, coloro che seguono molto attentamente le notizie sulla Russia) avremmo potuto ipotizzarlo sulla base della nostra lunga esperienza di lettura di notizie su rappresentanti delle forze dell’ «ordine» russe che si assicurano le statistiche positive sulla «prevenzione del terrorismo» attraverso l’organizzazione di varie provocazioni nel segmento russo dell’internet. Quelle provocazioni, nel corso delle quali un poliziotto si infiltra in (o, addirittura, organizza) una comunità di persone online, le coinvolge nella discussione di qualche progetto palesemente sgradito allo Stato e poi chiama i colleghi a raccogliere i frutti che vengono spacciati come risultati delle indagini.
Ma i dettagli sul fenomeno specifico dell’utilizzo di pagine fittizie della Legione «Libertà della Russia» sono comunque interessanti.
Ieri, il 22 ottobre, nella città russa di Kazan è iniziato – sotto la presidenza russa – il vertice BRICS di tre giorni. Come previsto, si sono presentati quasi tutti i Capi di Stato del gruppo (tranne il presidente del Brasile): India, Cina, Sudafrica, Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. Pare che con l’organizzazione del vertice in Russia Putin voglia dimostrare all’Occidente e ai propri fan interni di non trovarsi in un isolamento internazionale…
Ecco, a questo punto bisogna fare una precisazione per le persone meno esperte in materia del BRICS perché, effettivamente, potrebbero pensare che si tratti di una Organizzazione internazionale che conti qualcosa.
Il problema sta nel fatto che BRICS è una organizzazione dal punto di vista pratico inutile per il 100% dei propri Stati-membri. Sì, per la Russia compresa, a meno che qualcuno non inventi il modo di trovare una utilità pratica nelle sceneggiate di Putin. Infatti, gli Stati-membri del BRICS non sempre hanno gli scambi commerciali tra loro, ma quando li hanno non vedono alcuna influenza del BRICS in materia (quegli scambi non vengono favoriti e c’erano pure prima). Non hanno una valuta comune, mentre quelle nazionali esistenti non servono agli altri compagni del BRICS. Spesso (molto spesso) non hanno una politica comune su alcun argomento (perché esistono fisicamente nei contesti diversi). Hanno le problematiche interne (e spesso le loro cause) diverse. Spesso non hanno nemmeno dei confini territoriali comuni.
C’è solo cosa che gli Stati-membri del BRICS hanno in comune: è la grande voglia di parlare male dell’Occidente in generale e degli USA in particolare. Quindi periodicamente i leader degli Stati-membri si riuniscono (fisicamente oppure online) per una specie di terapia psicologica collettiva: si scambiano dei discorsi sul proprio odio verso gli USA, vedono di «non essere soli» e tornano a casa un po’ meno tristi di prima.
Il sabato 19 ottobre i bambini dell’asilo n. 38 «Raduga» del villaggio di Rassvet (nella regione di Rostov) hanno visitato una delle unità militari del Distretto militare meridionale russo. I bambini sono stati iscritti nell’organizzazione militare-patriottica «Junarmia» (le autorità russe coinvolgono regolarmente i bambini in una campagna a favore della invasione su larga scala della Ucraina, anche tramite la promozione di quella organizzazione «l’Esercito giovane»). Come riportato dalla sezione regionale di «Junarmia», uno dei militari, il sergente maggiore Roman K., ha regalato ai bambini un diorama «La liberazione della città di Bakhmut», da lui stesso realizzato. Il diorama mostra case residenziali distrutte durante l’offensiva russa sulla città, veicoli militari con la lettera «Z» e uomini armati.
Ora sono preoccupato non solo per i bambini, ma anche per la sorte del sergente maggiore Roman K.. Verrà accusato di avere diffuso un fake sull’operato dell’esercito russo? Finirà in carcere per almeno otto anni come capita ai civili russi contrari alla guerra?
E, soprattutto, eviterà in tal modo la sorte che merita?
Bisogna fare in modo che il suo caso non si perda nel torrente delle notizie.
Non so se lo sapete (e non so se tutti sono interessati a saperlo), ma per il martedì 22 ottobre è programmata l’uscita – contemporaneamente in 36 Stati del mondo – del libro di memorie di Alexey Navalny (non è necessario raccontare chi sia stato e perché non c’è più). La scrittura del libro era iniziata nel 2020, quando Navalny si stava sottoponendo alle cure in Europa, dopo il tentato avvelenamento con il novichok. Ma avendo per ora letto solo alcuni frammenti resi noti in anticipo, non volevo parlarvi del libro. Il pretesto del post odierno è un’altra lettura.
Pochi giorni prima della pubblicazione delle memorie di Navalny, la sua vedova Yulia Navalnaya ha rilasciato una grande intervista al quotidiano britannico The Times, nel corso della quale, tra le altre cose, aveva detto «Non auguro a Putin di morire. Voglio che finisca in una prigione russa».
Ebbene (ebbene?), finire in una prigione russa di oggi è peggio di morire: significa trovarsi in una struttura (e, spesso in un clima) fisicamente inadeguata alla vita umana ed essere torturato quotidianamente dalla maggioranza delle guardie e dalla maggioranza degli altri detenuti che non si preoccupano (gli esponenti di entrambe le categorie) della vostra vita e personalità. Ma non sono assolutamente sicuro che Putin, una volta finito in una carcere russa (se per qualche miracolo dovesse succedere), sarà messo nelle condizioni comuni dalle guardie penitenziarie che proprio a lui devono tutto: il lavoro, lo status dei padroni della vita, delle certezze sul proprio futuro… So che Putin ha paura della presenza fisica delle altre persone nelle sue vicinanze e degli ambianti non sterilizzati ma, comunque, penso una carcere russa (quella attuale, ovviamente) per lui sarebbe un grande regalo.
Io, personalmente, gli auguro la sorte di Gheddafi, anche ritengo poco probabile pure questa opzione.
P.S.: il libro menzionato all’inizio del post è «Patriot», pubblicato dalla casa editrice Knopf. Uscirà anche in italiano.